La canzone dovrebbe permettere all'uomo di esprimersi, infrangendo un silenzio che potrebbe soffocarlo. Ma la gente canta ancora? Sarà passata la voglia di cantare? Testi «usa e getta»?
del 17 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          Prendendo spunto dalla discussa 56a edizione del Festival della canzone italiana di San Remo (2006) su La Civiltà Cattolica pubblicavo una riflessione sul significato e sul ruolo della canzone, seguendo le indicazioni offerte 40 anni or sono da un grande teologo, Karl Rahner. La canzone dovrebbe permettere all’uomo di esprimersi, infrangendo un silenzio che potrebbe soffocarlo. Ma la gente canta ancora? Sarà passata la voglia di cantare? La canzone vive della parola e dei ritmi quotidiani, della profondità della vita dell’uomo comune. È questa la forza e il criterio valutativo della «musica leggera». L’articolo è tratto dal quaderno 3739 del 1° aprile 2006 de La Civiltà Cattolica (Civ. Catt. 2006 II 52-58)
          Tra polemiche e giudizi controversi, un mese fa, sabato 4 marzo, si è concluso a San Remo il 56° Festival della Canzone Italiana. I riflettori si sono spenti e non intendiamo certo qui riaccenderli. È interessante però rileggere a freddo le pagine che i quotidiani avevano riservato all’evento. I fattori che hanno dominato i commenti sono legati alla cornice spettacolare: gli ospiti, i costumi, il look, le battute, le barzellette, gli autori, l’audience che sale e scende (e in questo caso pare sia sceso), i big prevedibili, i compensi e i cachet astronomici. Si è commentato San Remo come evento spettacolare, tra gag e melodramma. Ha giustamente commentato il maestro Nicola Piovani: «Il festival, nato dalla radio, negli anni si è trasformato sempre più in una trasmissione televisiva. Un tempo le canzoni, belle o brutte, segnavano un’epoca. Oggi probabilmente il costume lo segnano gli spot pubblicitari, veri protagonisti di queste serate» (1). E il Festival si è trasformato in varietà.
          Fa sospirare dunque l’invito del cantante Cesare Cremonini a convocare, in questa gara tra artisti della canzone, «grandi poeti o grandi scrittori a parlare dell’incredibile meraviglia che è la creazione dell’arte, dello spettacolo, dell’intrattenimento, della musica, della scrittura». Sembrano parole che arrivano da un altro mondo. E poi prosegue: «Questo Festival non ha acceso i riflettori sulla musica. Ma non è così grave, sono le radio che lo faranno» (2).
          Ha ragione Cremonini: il festival della canzone (e non quello dello spettacolo) inizia soltanto quando si spengono le luci del varietà e si accendono le radio. Restano le canzoni. Allora si potrà valutare, e forse anche riflettere meglio sulla canzone: essa è solamente un genere musicale minore da confinare nello spazio del varietà, privo di qualunque interesse e valore? La domanda se l’era posta circa 40 anni fa anche un grande teologo: Karl Rahner. In queste pagine rievocheremo il suo pensiero in proposito. 
 
La sfida della «musica leggera»
          Cominciamo col ricordare che la canzone ha radici antiche. Fin dall’antichità la poesia è stata associata al canto e alla musica per esprimere sia stati d’animo individuali, sia sentimenti collettivi. I greci (e Alceo già nel VI sec. a. C. ce ne dà notizia) nella loro mitologia conoscevano un «cantautore» di nome Orfeo, il quale con le sue note faceva muovere le querce, ammansiva le belve e arrestava il corso dei fiumi. Virgilio si ricorda di Orfeo nelle Georgiche e così Rilke, Dino Campana e tanti altri. Poesia e musica si sono spesso incontrate sulla pagina scritta. Nel corso dei secoli, esse si sono fuse in varie forme: la ballata, la chanson de geste, i «cantari», la canzonetta (componimento amoroso diffuso in varie forme a partire dal XIII secolo), gli strambotti, gli stornelli e così via. Al di là di ogni genere «colto», le testimonianze popolari non si contano. Per l’Italia basti ricordare la «villotta» friulana, il «mottetto» sardo, il «cantamaggio» nelle Langhe e in Toscana, la «villanella» napoletana.
          Nel mondo contemporaneo la canzone è diventata una colonna sonora costante della vita di molte persone. La musica popolare (da cui la dizione pop music o semplicemente pop) riesce a evocare, richiamare, amplificare stati d’animo e situazioni emotive. «Oggi la gente sente molta musica, perché può attingerla dalla radio come l’acqua dal rubinetto. Basta girare un bottone»(3), scriveva Rahner. Il grande teologo tedesco, infatti, non ha tralasciato di compiere una breve ma preziosa riflessione sulla canzone, anzi sulla vituperata «canzonetta» (ein kleines Lied). Ogni volta che si apre o si chiude un evento legato alla canzone occorrerebbe confrontarsi con le sue semplici, brevi, ma incisive riflessioni.
          Qual è la caratteristica peculiare della canzone? L’uso di un linguaggio comune, ordinario, proprio della vita quotidiana. La canzone vive della vita più ordinaria e delle sue parole, «la saggia parola della vita quotidiana, la parola buona e cordiale in cui ciascuno può esprimere se stesso». Si nutre di essa. Nella canzone l’uso di questa parola può condurre a una maggiore comprensione di sé, commenta Rahner, a tal punto da rimanere stampata nella memoria. La dimensione del canto che non è «grande musica» gli appare talmente importante che scrive: «Si tratta di una canzone di cui […] difficilmente può fare a meno chi vuole essere uomo».
          Ecco dunque un criterio di valutazione: l’uso che una canzone fa del linguaggio ordinario. È un uso sciatto, o troppo artificioso, oppure è semplice ma preciso, incisivo, profondo? La «musica leggera» è una grande sfida, certo più impegnativa di quello che appare a uno sguardo superficiale. Essa deve colpire immediatamente e rimanere nella memoria, non volare via subito, magari dopo aver dilettato per un istante l’ascoltatore. Anche un banale ritornello può dunque avere una capacità di penetrazione profonda nell’animo. 
 
Testi «usa e getta»?
          Potremmo scegliere dal canzoniere italiano esempi che ci sembrano significativi e più pertinenti alle affermazioni di Rahner. Fortunatamente essi non mancano, anche se San Remo non li ha ben rappresentati (4). Tuttavia preferiamo compiere qualche sondaggio nelle parole modeste della recente edizione del Festival proprio perché esse sono di ampia diffusione popolare. Nella sua canzone Simona Bencini canta sono un angelo che non sa più volare; Luca Dirisio sei un tesoro che non posso governare; Noa con Carlo Fava e i «Solis String Quartet» mi hai allargato il cuore e te lo voglio dire così; e Andrea Orino non mi basta niente / se non sei qui tu. Parole ordinarie, orecchiabili, comuni, perfino banali e stucchevoli, ma capaci di esprimere alcune semplici verità esistenziali. Così il sentimento della fiducia nella vita cantato dal gioco di chiaroscuri di Dolcenera in Com’è straordinaria la vita o da Gigi Finizio e i «Ragazzi di Scampia» che cantano la musica è vera speranza / e chesta speranza cchiù rriche ce fa, o persino da Nicky Nicolai, che anche nella storia triste di una prostituta dipinge un’alba che dà / la luce del giorno. Ben altra cosa rispetto alla vana e leggera libertà di sognare cantata da Gianluca Grignani. È preferibile allora la scanzonata saggezza del volo basso del piccione cantato dal vincitore Giuseppe Povia (5). Alle mille malinconie di Spagna, ma ancor di più al vaniloquio leggero di Ameba4 che canta Forse mi sbaglio / ma credo nel nulla / ridodi cose / che non so capir e ad altre sbiadite cartoline canore (come quella degli «Sugarfree»), si contrappone lo scenario aperto da Ron: E non è un mondo / se non mi fa amare quel che c’è.
          Le parole citate sono semplici, senza pretese, conformiste e sostanzialmente formulate per essere orecchiabili. Il sito della Treccani giudica questa edizione del Festival dal punto di vista linguistico una delle più piatte degli ultimi anni: «Testi-domopak prodotti al metro per confezionare melodie che devono scivolare via facili. Parole fatte per imprimersi subito nella memoria, adagiandosi nel calco dei tanti passaggi simili che ognuno di noi ha in mente, e poi essere dimenticate, con la stessa facilità, dopo un mese di programmazione radiofonica» (6).
          Inoltre è da constatare che il dominio assoluto sembra spettare ai toni sentimentali, aggiornati magari da un po’ di giovanilismo e conditi delle immagini più ovvie: il mare, la luna, le stelle, gli angeli… Oggi, in effetti, è veramente difficile trovare la misura giusta nell’espressione del sentimento. Rahner, avendo in mente una canzone di qualità, afferma che «non bisognerebbe aver paura del sentimento. In fondo soltanto chi è poco intelligente è tenuto a guardarsene». È questo il punto: l’intelligenza di chi scrive le canzoni e di chi le ascolta. La semplicità e l’immediatezza, anche quella delle emozioni, dev’essere valorizzata con la sapienza. Essa così, grazie alla musica, può far breccia, dando voce a condizioni interiori tanto vere quanto comuni, ordinarie, quotidiane.
          In definitiva, la lettura dei testi delle canzoni di San Remo, se accompagnata dalle riflessioni di Rahner sulla parola della canzone, fa sorgere un desiderio, anzi un vero e proprio appello agli autori e ai cantanti. Essi devono essere consapevoli del valore del loro compito artistico ed espressivo, a suo modo insostituibile. Le loro opere sono sia veicoli popolari di visioni della vita, simboli e significati sia canali ordinari di espressione dell’interiorità e di conoscenza di sé: dei pensieri e dei sentimenti. 
 
Canticchiare e fischiettare
           Tuttavia Rahner va ancora più a fondo, affermando che la vera potenzialità della canzone non si sprigiona quando si accende la radio o lo stereo per ascoltarne le note. La canzone assume tutta la sua potenzialità non quando è semplicemente ascoltata, ma quando giunge ad essere cantata o canticchiata o fischiettata nella vita quotidiana, magari «con naturalezza e a cuor leggero» (7). Soltanto allora le sue caratteristiche possono essere svelate. In tal modo essa «dal padiglione del cuore penetra a guisa di un’eco nello spirito e nell’animo» dell’uomo. La canzone va cantata, non solamente ascoltata. Il motivo che Rahner adduce è di grande profondità: la canzone canticchiata serve all’uomo «ad esprimere chiaramente a se stesso la propria essenza» e, in tal modo, a «evitare che, restando silenzioso, egli debba soffocare».
          Con la sua espressione complessa e profonda Rahner intende affermare che cosa sia, in definitiva, la canzone. Essa è la parola quotidiana che diventa poetica grazie alla musica, e che permette all’uomo di esprimersi, infrangendo un silenzio che potrebbe soffocarlo nell’isolamento interiore (8). La canzonetta può essere la via di una espressione di sentimenti e pensieri che toccano la profondità del proprio quotidiano. Per alcune persone questa è una via privilegiata e forse unica.
          Allora ci chiediamo: la gente canta ancora? Non sembra. Sarà passata la voglia di cantare? Se passeggiamo per strada notiamo che molte persone, specialmente se giovani, ascoltano musica: a passeggio, in metropolitana, leggendo. Ma è raro sentire una persona che canticchia o fischietta. Forse è rimasta ancora la figura del muratore che si fa compagnia cantando per sé o quella del venditore al mercato che cantando intrattiene i suoi clienti o li invita a comprare i suoi prodotti. È una immagine che sembra sfumare nel ricordo nostalgico, come di una spensieratezza perduta. Già Pasolini incontrando una classe liceale a Lecce nel 1975 rievocava così il mondo delle borgate romane descritto nei suoi romanzi degli anni Sessanta: «Non so cosa sia la felicità; ma se felicità è sorridere e cantare e inventare linguisticamente tutti i giorni una battuta, una spiritosaggine, una storia, se la felicità è questa, allora erano molto più felici di oggi» (9). Forse la voglia di cantare o fischiettare sopravvive soltanto in alcuni contesti più popolari e vivaci.
          Tutto questo ha a che fare anche con la lingua e con il suo uso in funzione espressiva. Se, ad esempio, a dominare qualitativamente fosse la canzone di lingua inglese, allora alla maggior parte dei pochi che ancora canticchiano non resterebbe che imitare la melodia dell’originale con qualche sillaba storpiata o con il proverbiale na na na che sostituisce del tutto le parole. E questa sarebbe una grave perdita.
 
 
Il «pop» religioso
          In un passaggio Rahner aggiunge che, specialmente se si tratta di musica leggera di ispirazione religiosa, essa potrebbe aiutare l’uomo a esprimere la propria adesione anche «al mistero della sua esistenza, che chiamiamo Dio». Essa diverrebbe una forma di preghiera, insomma. La canzone dunque ha uno statuto molto particolare. Gli «antichi e sacri canti della Chiesa» sono la «necessaria “tradizione” dell’uomo che canta dinanzi a Dio». L’uomo, «anche cantando, deve confessare di aver degli antenati spirituali, i quali gli hanno tramandato l’eterna giovinezza divina». Ma sulla linea di questa tradizione canora l’uomo deve anche saper cantare se stesso, la propria singolarità che vive una vita quotidiana e si esprime con parole ordinarie e semplici. In questo senso la canzone svolge un ruolo peculiare.
          Toccando il tema della musica religiosa, Rahner giunge a considerare un danno se la musica religiosa fosse soltanto «solenne ed ufficiale da poter essere cantata in chiesa, nella comunità di tutti i fedeli durante il culto pubblico». Infatti «forse il fattore religioso trova posto solo nelle ore sublimi della vita? Oppure il Verbo, che si è fatto carne, non ha il coraggio di sopportarci nella limitatezza della nostra vita ordinaria?». Il teologo dunque insiste sul fatto che anche la parola della canzone di ispirazione religiosa, come quella della canzone in generale, deve contenere la profondità della vita quotidiana, che è «pienamente sufficiente». L’ampio fenomeno della cosiddetta christian music o dei «cantautori di Dio» — un fenomeno complesso e da valutare in maniera avveduta — può dar ragione a queste posizioni (10).
          Un gruppo cristiano pop di successo, quello dei Sixpence None The Richer, ha affermato, in un’intervista, di sapere bene che per raggiungere il pubblico occorre utilizzare il linguaggio ordinario, ricorrendo a un uso onesto, corretto e senza compromessi dell’immaginazione, bene troppo prezioso (11). È esattamente ciò che si richiede da ogni canzone, di qualunque tipo essa sia.
* * *
          Karl Rahner è molto interessato, come ben si è compreso, alla parola della canzone. Tuttavia aggiunge che anche il ritmo della composizione deve possedere le medesime caratteristiche e il medesimo tipo di «solennità» ordinaria. A tal punto — sostiene — che «il ritmo del camion ci potrebbe pure ispirare una nuova canzone devota. Perché no?». Ricordiamo che queste parole sono state scritte nel 1959, quando molti fenomeni della musica leggera contemporanea non si erano ancora sviluppati così come oggi li conosciamo. Sanremo, ad esempio, era alla sua IX edizione, e allora i vincitori furono Domenico Modugno e Johnny Dorelli con la canzone Piove.
          L’immagine del ritmo del camion allora risulta ancor più stridentemente evocativa perchè essa era ed è l’esatto opposto di ciò che comunemente si intende per musica. Rahner intende dire che la canzone vive non solo della parola, ma anche dei ritmi quotidiani e della profondità della vita dell’uomo comune. È questa la sua forza, ed è su di essa che si misura correttamente il valore di un brano di «musica leggera».
 
 1   C. MORETTI, «Chi ha ucciso il Festival?», in la Repubblica, 3 marzo 2006.
2   C. CREMONINI, «Finite le serate restano le canzoni», in il Giornale, 5 marzo 2006.
3  K. RAHNER, «Una canzone da nulla», in ID., La fede che ama la terra. Meditazioni per i cristiani impegnati nel mondo, Francavilla a Mare (CH), Ed. Paoline, 1968, 251-254. Le citazione tra virgolette nel testo sono tratte da queste quattro paginette.4   «Sanremo — almeno quanto ai testi — fornisce un’immagine fuorviante dell’attuale panorama della canzone italiana, in cui ormai da una decina d’anni si nota la tensione verso una scrittura più complessa, molto attenta alla qualità del testo e alla sua fattura linguistica, anche al di fuori della classica canzone d’autore»: G. ANTONELLI, «Sanremo 2006: una degustazione muta».
5   I suoi toni naïf si abbinano agli accenti sdruccioli (briciole, nuvole, muoiono, pericolo), evitando di andare sempre alla ricerca della rima e senza aver paura di qualche costrutto colloquiale (mica come le persone; chi guida crede che mi mette sotto). Cfr ivi.
6   Ivi.
7   Cfr A. SPADARO – E. CRASTO, Radio on. Tra le colonne sonore degli anni ’90, Napoli, Giannini, 1996.
8   Cfr il nostro «Il contributo di Karl Rahner per una teologia della letteratura», in Rassegna di Teologia 41 (2000) 661-676.
9   P. P. PASOLINI, «Sulla felicità», in L’immaginazione, gennaio-febbraio 2006. Il corsivo è nostro.
10   Pensiamo, ad esempio, all’iniziativa Jubilmusic svoltasi a Sanremo nel 2005. Un primo saggio di musica internazionale ad ampia diffusione è stato il cd dal titolo One prodotto in concomitanza della Giornata Mondiale della Gioventù del 2000 con canzoni di gruppi quali Burlap to Cashmire,Winas phase 2, Sixpence None The Richer e altri. Ricordiamo gruppi come quello del Gen Rosso e del Gen Verde o cantautori italiani, anche sacerdoti come don Giosy Cento. 
11   È curioso notare come in un’intervista i Sixpence spiegano il significato del loro nome. Esso deriva da un passaggio del libro Mere Christianity di C. S. Lewis: «Quando diciamo che un uomo fa qualcosa per Dio o dà a Dio qualcosa, le cose in realtà stanno come quando un bambino va dal padre e gli dice: “Papà, dammi cento lire (sixpence) per comprarti un regalo per il tuo compleanno”. Il padre, naturalmente, gliele dà, ed è contento del regalo del figliolo» (Il cristianesimo così com’è, Milano, Adelphi, 1997, 180).
Antonio Spadaro
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