Teologo snob ma da combattimento

Pierangelo Sequeri rivendica la libertà della ricerca teologica, “proprio per difendere le vecchine dagli attacchi degli intellettuali” .

Teologo snob ma da combattimento

da Quaderni Cannibali

del 18 novembre 2009

 

Io sono credente e non sto indietro da niente”. C’è qualcuno, tra gli intellettuali cattolici, che è stufo di giocare per lo zero a zero e ha voglia di imporre il proprio gioco senza timori reverenziali. Pierangelo Sequeri, 63 anni, vicepreside della Facoltà di teologia dell’Italia settentrionale ci sta provando da tempo con le sue lezioni e i suoi libri. L’ultimo che ha in gestazione per la Cittadella Editrice, insieme al docente della Cattolica di Milano Franco Riva, è lo spunto per questo colloquio. “Si intitolerà ‘Narrazione e destinazione’ e parlerà del cristianesimo in occidente: l’anomalia di un’anomalia. Cosa ci fa il cristianesimo dentro l’occidente?

 

 

 

L’ateismo è un fenomeno tipicamente cristiano, non possiamo chiamarci fuori. C’è un problema teologico che non possiamo scaricare sul mondo. A cosa serve ripetere che il mondo è cattivo? E’ sempre stato cattivo, ma noi dobbiamo essere più creativi. Perché non vengano più a dirci: cosa fate qui voi cattolici, imbranati, non siete capaci di rispondere a questo, non fate quest’altro… Dobbiamo fare uno sforzo creativo. Questo problema non si è mai presentato alle altre religioni, ma a noi che abbiamo fornito al mondo gli strumenti per produrre la critica della religione. Il problema è nuovo e noi siamo gli unici in grado di risolverlo, anche se in questo momento non ce ne appassioniamo. Certo dovremmo darci una mossa, però dagli altri vogliamo rispetto: la critica alla religione l’abbiamo inventata noi.

 

Naturalmente, come credente io sono interessato a una critica religiosa della religione, altri a una critica irreligiosa della religione. Ce la giocheremo. Ma sia chiaro che il cristianesimo è l’unica religione in cui il fondamentalismo della sacra pagina non ha mai attecchito: così è scritto così è detto e cosi si fa, sennò… zacchete!”. Nell’islam, ad esempio. “Ma pure altrove. Anche la nostra storia è fatta di esclusioni, di inevitabili fissazioni canoniche, però il principio fondamentalistico da noi non ha neanche cominciato a formarsi. Noi abbiamo sempre avuto ufficialmente, non solo in teologia, un’ermeneutica della Bibbia e un’ermeneutica del dogma. Anche nelle epoche di maggiore irrigidimento”.

 

Dunque ciò che passa il convento della comunicazione è una caricatura: il cristianesimo oscurantista, intollerante. “Certo. Se non fosse andata come ho detto non ci sarebbero state polemiche teologiche e intellettuali, ma solo questioni disciplinari interne. Non sarebbe emerso un confronto in cui anche l’ortodossia, del tutto spontaneamente, ha cercato le proprie ragioni”.

 

Lei bestemmia, giornalisticamente parlando. “Sì. Poi resta da chiedersi se le ha cercate bene o male, queste ragioni. D’altronde la teologia c’è proprio per questo. La fede non è la somma delle sue ragioni. Ma deve produrre delle ragioni per onorare il fatto che essa non è un diktat, una parola violenta che ammutolisce. Questo è il gesto religiosamente difficile da concepire. Eppure il cristianesimo è impiantato proprio su questo”. Sequeri si smarca dal copione consolidato conciliaristi-tradizionalisti, progressisti- conservatori. “Forse il modo più concreto per rigenerare qualche passione buona attorno al cristianesimo è volare più alto. Guardare alla destinazione invece che soffermarsi sull’origine.

 

Anche perché il discorso sull’origine si è fatto troppo schematico. Il metodo genealogico che va per la maggiore è quello strumento per cui davanti a una perla, al termine di una ricostruzione molto scientifica e rigorosa, concludo che essa non è altro che un’irritazione della mucosa dell’ostrica. Questo è falso. Così non si trova l’origine, si perde la realtà. Perché chiunque, messo di fronte all’irritazione di una mucosa, non vede nulla che abbia a che fare con una perla. Assolutamente nulla. C’è qualcosa di miracoloso nel passaggio dall’origine alle destinazioni della realtà. Ci siamo accaniti troppo sull’origine: l’origine dell’universo, dell’uomo, dell’anima… Questo metodo genealogico che sfoglia la realtà conduce a un’origine che è origine di niente. Spieghiamo sempre meno la realtà e sempre più fantastichiamo sull’origine.

 

Forse la perdita di trascendenza produce anche questo. E siccome di mito abbiamo sempre bisogno, ci si accanisce nei confronti dell’atomo per rivestirlo di tutto il fascino possibile. Il metodo genealogico è l’ultimo degli strumenti per riconoscere l’origine, almeno nel senso che mi interessa: come significato di tutto ciò che abbiamo davanti. Perciò io parlo di destinazione. Anzitutto perché spariglia le carte. L’origine sta alle nostre spalle e la maggior parte delle cose interessanti di questo pianeta, me compreso, non si lascia dedurre da un’origine, per quanto alta sia. Questo è il punto su cui oggi dobbiamo fare la differenza nei confronti di un pensiero che tende a inquadrarci nello schema dell’organismo libidico in cerca della sua saturazione: non abbiamo più destinazione ma ottimizzazione, non percorsi di vita ma carriere.

 

E poi c’è questa ostinazione nel farci percepire come individui dalle origini infime: microbi, virus, microrganismi cellulari. Ma vivendo noi, scienziati compresi, infinitamente più di questi c’è un problema di destinazione: qualunque sia stata la nostra origine, adesso siamo questo, dunque che facciamo? Pensiamo all’affetto per i figli. Non parlo del gene della riproduzione. Il fatto è che noi ci affezioniamo, soffriamo, siamo persino entusiasti all’idea che i nostri figli siano migliori di noi, che non corrispondano affatto all’origine.

 

Io sono fiero di essere in grado, più di quanto lasci pensare la mia natura pigra e vigliacca, di mettermi di traverso per le cose che desidero. Forse non so rispondere alla domanda sull’origine, ma certo mi pongo un interrogativo sulla destinazione: per cosa siamo venuti al mondo?”. La domanda fondamentale. “Esatto. Mentre chiedersi ‘chi sono io?’ è un trucco. In questo senso, penso che Socrate fosse veramente un corruttore di ragazzi quando insegnava il conosci te stesso, se poi l’oracolo di Delfi voleva veramente dire questo. Perché così sprofondo dentro me stesso e vedo il buio.

 

Ma cosa devo guardare? cosa devo trovare? Quale che sia la nostra origine, cammin facendo sviluppiamo una quantità di cose straordinarie che ci pongono il problema della destinazione. Altrimenti non avremmo mai avuto la Divina Commedia o la Quinta di Beethoven. Una volta che queste cose ci sono è cruciale domandarsi: chi si prende la responsabilità di dire che sono nate per nessuno e per niente? Io voglio sollevare questo interrogativo”. Domande situate in un contesto preciso, l’occidente. “Occidente è anche un mito che si è caricato di simboli.

 

Cristianesimo è anche la tenera giovane signora thailandese o cinese che porta il suo bambino in chiesa rischiando la vita come traditrice del popolo o della razza: giù il cappello. Detto questo, noi abbiamo scoperto lo schema dell’origine e della fine delle cose. L’origine/fine è l’eredità del logos greco, la storia del cristianesimo, ma i due piani finora non hanno giocato allo stesso modo. L’impulso cristiano dell’inizio, la creazione, si è unito all’origine greca. Il concetto greco è alto, nobile, teologico. Platone, Plotino, Aristotele stesso: la sostanza infinita che regge il mondo perché è attratto da essa. L’origine è il divino e noi riusciamo a percepirlo: in questo confronto ellenismo-cristianesimo si è giocata una partita alta.

 

Che invece è stata molto asimmetrica sull’altro versante, quello della destinazione. Per il greco la fine è definitiva. O corruzione delle cose terrene – e già qui il cristianesimo è un po’ in imbarazzo – oppure semplice dissoluzione: ritorniamo a essere una parte della sostanza, l’irritazione della mucosa di Dio che eravamo. Il cristianesimo ha assunto la potenza di questo schema e, diversamente dalle altre tradizioni religiose, la consapevolezza del carattere finito del mondo, ma ha inserito la storia come passaggio dall’origine alla fine: storia come incremento di senso.

 

Qui il cristianesimo ha creato astutamente un’asimmetria: il mondo è fine, come dicono i greci, per quel tanto che è destinato a finire, ma è anche ritorno in Dio. E questo ritorno si carica delle tracce del nostro passaggio, non è pura dissoluzione. Insomma, lo schema dell’origine ha più risorse per diventare strumento del pensiero cristiano, mentre lo schema della fine è più debole. Qui sta una ragione del pensiero di Severino: la marcatura dell’occidente come terra del tramonto. Il meglio e il peggio dell’occidente sta in questo: l’origine assoluta ed eterna, la fine è nientificazione, distruzione. Questo significa che l’occidente è destinato a congedarsi, in fondo lo sa fin dall’inizio perché applica a sé questo schema; le altre civiltà non ce l’hanno e quindi non lo applicano.

 

Perciò è possibile che l’occidente e il cristianesimo in occidente abbiano realizzato l’avventura cosmica di generare, a prezzo della propria vita la percezione irreversibile per tutto il resto del mondo di tutto ciò che sta in mezzo. La verità che ci deve stare più cara, dunque, non sta nella riconduzione dell’uomo alla sua origine (noi non siamo Dio, siamo il fuori di Dio) né nell’essere destinati alla fine come un premio per la nostra dipendenza dalla terra. Noi non siamo né riducibili a questa finitezza né riconducibili all’origine. O finire in niente o dissolverci in Dio è una falsa alternativa”. La via d’uscita è altrove. “La verità sta nel mezzo, dice il cristianesimo. L’equazione l’ha formulata Agostino: ciascun singolo essere umano, compreso il più analfabeta, è nella facoltà nel diritto e nel dovere di decidere la propria destinazione. Per lungo tempo Agostino ha pensato che questa fosse l’unica novità cristiana – si legga il ‘De libero arbitrio’ –, per il resto bastavano i greci: dalla finitezza ci mettiamo nel solco dell’ascesa a Dio.

 

Poi però ha letto san Paolo e ha aggiunto: le condizioni di questa decisione non sono in nostro potere. Nei greci non c’è ricerca, non c’è preghiera ma solo restituzione di culto. La preghiera dei salmi, invece, è un corpo a corpo con Dio, dove il credente osa dire: svegliati, mi pare che dormi”. Pietanza per palati forti. “La maggior parte dei teologi non legge, si adegua al canone che si forma mediaticamente: l’interlocuzione con l’uomo contemporaneo”. L’impresa teologica è invece più ambiziosa. “In questo momento il magistero non ha un grande interesse per la teologia”. Strano, avrei pensato il contrario con un Papa come questo. “Non c’è grande attenzione per una teologia intesa come avventura del pensiero. E dire che abbiamo avuto un san Tommaso che non stava indietro da niente. Il punto è che bisogna far fare bella figura al cristianesimo.

 

L’onestà intellettuale il teologo non se la conquista rimuovendo la fede: facciamo finta che non ci sia e parliamo di quello che resta. Invece, io la metto in gioco come potenza del pensiero”. Eppure sembra che il discorso di Ratzinger sia sulla stessa linea d’onda. “In effetti va benissimo, è il meglio che si può fare con gli ingredienti ereditati dalla modernità: fede e ragione. Ma forse potrebbe venire il giorno in cui si va un po’ oltre e non le si presuppone più come separate e fondamentalmente alternative, anche se si cerca in tutti i modi di tenerle insieme. Dietro, nella creazione di Dio, c’è qualcosa che io chiamo coscienza, o anima, il luogo in cui si forma la regia di ciò che nelle operazioni della mente, dello spirito e dell’anima, chiamiamo fede, ragione, sentimento: la costellazione degli effetti dell’anima”.

 

L’anima e il suo destino, direbbe Vito Mancuso. “Ma il suo destino non è di tornare indietro e dissolversi… Comunque, l’istituzione ecclesiastica cerca di semplificarsi il proprio compito e non le dò torto. Avendo di fronte un interlocutore politico e culturale che torna a ringhiare un po’, muso contro muso, percepisce le avventure del pensiero come un lusso. Invece, fino a tutto l’Ottocento la teologia era un luogo ecclesiastico rispettato e rispettabile perché faceva parte del congegno della ragionevolezza: il magistero ecclesiastico non è un puro potere coercitivo precisamente perché argomenta, si serve della mediazione del sapere e del conoscere.

 

Il sistema è ancora pensato così ma in pratica mi pare che chi di noi fa questo lavoro, dissodando il terreno e smuovendolo un po’ – è il mestiere del teologo – nel momento in cui bisogna andare alla trattativa e al nocciolo delle questioni è meglio venga riassorbito per offrire all’interlocutore un’immagine compatta. Oggi non c’è una grande vitalità teologica. La teologia medievale è la migliore che abbiamo avuto, non stava indietro da niente. La crisi è cominciata col Settecento quando per forza di cose abbiamo adottato lo schema illuministico fede-ragione. Adesso investiamo nella catechesi, nell’alimentazione intellettuale interna, con uno sproloquio di teologia. Nel Sette-Ottocento, invece, veniva adoperata per inventare nuovi attrezzi, saggiare col microscopio le monete in circolazione, giocare le avventure del pensiero a tutto campo.

 

L’inventore del sesso dei piselli è un abate, non dimentichiamolo. Oggi questo investimento è stato dirottato all’interno. Ma la teologia eccede le esigenze della catechesi, sono due registri diversi. Sarebbe come impiegare un grande economista per spiegare alla massaia come fare la spesa: meglio che qualcuno le dica l’essenziale. I nostri fedeli sono stremati. La teologia deve mirare alla bellezza dell’essenziale, spesso invece avverto la pesantezza dell’indistinto”. Questo spiega anche il ruolo anomalo della vostra facoltà nel panorama teologico italiano. “Forse sì. Difendiamo i due versanti: la teologia è un ausilio alla pastorale, ma la sua giustificazione sta più in alto”. Siete degli snob caritatevoli. “Non ci avevo mai pensato. Ma forse siamo più snob con gli altri teologi che non con la gente”. Voi di Milano ve la tirate, fate discorsi incomprensibili, dicono.

 

“Dopo tanto tempo non capisco neanche più cosa voglia dire. So solo che è difficile trovare interlocutori per una teologia alta. E’ facile arrangiare un pensiero di accudimento, mentre è difficile produrne uno che non si accontenti di fare da sponda, apologeticamente, ma provi a giocare d’anticipo, costruendo qualcosa di nuovo. Questo per onorare l’onestà intellettuale del cristianesimo, per poter dire: guarda che non lo faccio solo per lo stipendio. Forse in questo sono uno snob. Perché il lavoro ad intra sono capace di farlo con meno: a me bastano quattro incontri per il matrimonio cristiano, non diciotto. Due per spiegare il catechismo – i ragazzi che vogliono sposarsi in chiesa non lo sanno ancora – e due per mandarli in qualche famiglia. E’ vero, sono snob anche ad extra. Uno che fa questa professione, che è un sacrificio per sé e per gli altri, la giustifica onorando l’integrità morale e mentale del cristianesimo.

 

La onora dicendo: sono credente e non sto indietro da niente. Io sono un vecchio legionario: in caserma posso protestare a muso duro perché il rancio è schifoso, ma fuori di qui se provochi il più cretino dei mei sergenti te la devi vedere con me”. Teologia competitiva. “Mi infastidisce questo teologame che si parla addosso, fatto di formule che si parlano da sole come certe prediche”. Basta innestare il pilota automatico. “Come mai nei libri di teologia scopro che le letture sono solo quelle raccomandate dal telegiornale? L’intellettuale cristiano deve essere in grado di non farsi fare l’agenda della qualità dai prodotti raccomandati, di largo consumo. Questo a tutela dell’integrità delle sue vecchine a cui non spiegherà tutto il trattato sull’eucarestia, perché non è necessario, ma le proteggerà quando il primo che passa cercherà di confonderle: ma voi, sceme, cosa andate ancora in chiesa…

 

Fatti sotto con me, invece, sono qui per questo. Ma se una buona volta si deve andare alla discussione, il mio vero sberleffo è questo. Senti, caro, vedo che tu di professione fai il matematico ma qui hai scritto un libro sulla Madonna. Lasciamo per un momento da parte se è assunta o non è assunta, anche perché forse tu non sei proprio portato per questo, però qui leggo due equazioni sbagliate. Tu fai l’etnologo e discuti di fede, benissimo, però qui a pagina quarantasette leggo una cosa che un etnologo non può sostenere. Viceversa, mi aspetto la stessa passione e sono felice quando trovo uno che mi dice: guarda, Sequeri, va bene tutti i ragionamenti metafisici, però l’aggettivo greco che il concilio di Nicea usa non è quello che hai messo tu”.

 

Un confronto a viso aperto. “Appunto. I miei capi li capisco, loro devono proteggere la comunità e trattare con quelli che hanno di fronte. Ma che io debba accettare di registrarmi a un livello del dibattito così scadente, questo no. Io mi sono allenato a ragionare con Marx e Nietzsche, ne ho letto l’opera omnia scrupolosamente perché non voglio ragionare su una cosa che non conosco, senza dire: tanto so che è contro la religione…”. E poi mi devo battere con Odifreddi. “Ecco”.

 

Marco Burini

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