Noi vorremmo contro-inventare il complemento di accoglienza, quello che si verifica quando si trovano parole e cose da fare perché anche Said e Marco stiano nel gruppo alla pari con gli altri...
del 07 ottobre 2010
           Poco tempo fa abbiamo formulato una proposta grammaticale polemica: inventare il complemento di dignità e il complemento di perdòno in antagonismo al complemento di colpa, usato anche per chi è innocente. Un altro complemento discutibile è quello di esclusione (esempio: Hanno raggiunto l’obiettivo tutti tranne Said oppure Ad eccezione di Marco, gli allievi partecipano alla corsa campestre).
 
           Noi vorremmo contro-inventare il complemento di accoglienza, quello che si verifica quando si trovano parole e cose da fare perché anche Said e Marco stiano nel gruppo alla pari con gli altri, nonostante il primo sappia che fra due mesi tornerà in Marocco e il secondo cammini con qualche difficoltà.
Due posti accoglienti (?)
           Nel linguaggio solito si parla di accoglienza per dire quanto si è bravi ad accettare la presenza di qualcun altro, cioè di uno che viene guardato un po’ dall’alto in basso perché è in qualche modo “differente”. È un’accoglienza non proprio alla pari: ci si mette un certo orgoglio per la propria apertura e per la propria bontà. Infatti, nel linguaggio più formale (ad esempio nei documenti scolastici) si parla spesso di accoglienza e integrazione. Il rischio è che questo abbinamento voglia dire Ti accolgo se tu diventi come me, non Ti accolgo come sei (e magari imparo qualcosa da te).
           Nella scuola superiore si parla moltissimo di accoglienza nella prima settimana del primo anno di corso. È un termine tecnico e indica una serie di attività: gli studenti più grandi portano i primini a visitare laboratori, biblioteca e palestra, i prof danno indicazioni intensive sul metodo di studio (e intanto somministrano test sulle competenze acquisite nella scuola precedente), il dirigente stesso si dimostra amichevole e disponibile al dialogo.
           Speriamo solo che poi i test di accoglienza non diventino il primo voto negativo (non si dovrebbe, ma c’è sempre poco tempo per le verifiche…), che gli studenti grandi non facciano i bulli della caccia al primino e che il dirigente non abbia sempre il piccolo semaforo rosso acceso sulla porta chiusa dell’ufficio.
           La verità è che ci sono due posti dove l’accoglienza dovrebbe risultare costante modo di essere: la scuola e la chiesa. Non stiamo parlando degli edifici, ma delle comunità. Scusatemi, ma vorrei raccontare alcune esperienze personali. Infatti penso che ci si possa rifare ad esperti quando si parla di didattica, ma quando si tratta di valori bisogna di necessità mettersi in mezzo con la propria vita. Perciò presento un elenco di “fatti miei”.
Accogliere non è fare un test
           Parrocchia di un paese in una vallata alpina, domenica delle Palme. Da qualche mese, io vado spesso a messa lì perché abito in paese per alcune settimane all’anno. Uno dei miei zii vive nel paese da 34 anni e un altro abita lì vicino da 20. Non è difficile, per i locali, identificarmi. La nostra casa, appena finita, è stata benedetta dal parroco.
           Quando è venuto da noi, il parroco ha conosciuto il nostro amico Raffaele. Raffaele ha saputo che in una casa-famiglia dei dintorni c’era necessità di una lavatrice, l’ha procurata e portata in canonica. Questo per dire che anche Raffaele non è sconosciuto, tanto più che spesso è venuto a messa con me, perfino la notte di Natale.
           Dopo la messa della domenica delle Palme, io e Raffaele abbiamo detto al viceparroco che avremmo voluto lasciare in sacrestia alcune litografie raffiguranti don Bosco. Un pittore stimato (Francesco De Leonardis) le aveva realizzate per donarle in beneficenza. Si sarebbero potute dare ai fedeli e le loro offerte spontanee sarebbero servite per le iniziative della comunità.
           Il viceparroco ha detto sì ed è corso via a celebrare un’altra messa. È subito arrivato un responsabile della comunità a… cacciarci via. È stata una brutta esperienza essere cacciati dalla chiesa. Davanti alla comunità. Il parroco mi ha detto (quando gli ho telefonato) che c’è tanta paura dei ladri e che io e Raffaele eravamo stati scambiati per possibili ladri. Sicurezza preventiva. Un equivoco, si capisce. Però la dice lunga su come sia difficile far sì che le comunità non siano a numero chiuso. Su quanto sia facile dire che in chiesa nessuno è straniero e su quanto sia complicato accogliere chi non vedi tutti i giorni.
           Su quanta paura ci sia nella nostra vita. Paura dell’altro: davanti all’altro è sempre meglio pensare al peggio. Non ti conosco? Prima di ascoltarti, penso che sei un ladro (l’indicativo è voluto). Intanto mi cautelo: a cambiare idea c’è sempre tempo…
           Comunità di sant’Andrea, città, una domenica in cui fa freddo. Fuori della chiesa, come càpita spesso, c’è la zingara del quartiere a chiedere carità. La conosciamo tutti e la salutiamo (quasi) tutti, alcuni con un’aria di sufficienza. Che chieda carità dà un certo fastidio, tanto più che qualche volta la si vede fumare… Durante la messa, la zingara entra per scaldarsi. Ci sono due cassette per le offerte, una a ciascun lato della porta.
           La zingara mette un’offerta in entrambe le cassette e ascolta le preghiere. Al momento del Padre Nostro, c’è l’uso di prendersi per mano. Una donna riflette un po’ e poi offre la mano alla zingara. Lei è contenta. All’uscita una brava signora commenta che c’è da aver paura con gli zingari in chiesa… Un uomo dice invece con emozione dell’offerta doppia da parte della zingara… Non c’è nulla da aggiungere, se non quello che hanno scritto su un cartello scritto i bambini del catechismo: andare a messa significa accogliere ed essere accolti, ascoltare la parola di Dio, sapere che Dio ci ama.
           Grotta di Lourdes, 14 anni fa. Maria è davanti alla grotta a pregare. È una dei pellegrini dei quali, insieme a infermiere e barellieri esperti, mi occupo anche io. Maria vive al Cottolengo, dov’è andata dopo l’orfanotrofio. Ha i problemi che può avere chi è stato abbandonato appena nato. Maria, in quel tempo, ha 61 anni ed è simpaticissima.
           Davanti alla grotta fa un caldo tremendo e Maria mi dice ridendo che vorrebbe un cappello di paglia. Glielo compro e poi lei mi chiede di andarla a trovare anche dopo Lourdes. Io glielo prometto. Altro che storie! È una promessa davanti alla Madonna… Negli anni successivi mantengo la promessa e mio fratello viene sempre con me. Io voglio un bene dell’anima a Maria, ma mi rendo conto che la tratto con un po’ di superiorità. Non si sa mai che cosa può capitarti con Maria: può fare i capricci per strada, può chiedere di mangiare due gelati e tre panini.
           Mio fratello mi insegna che voler bene a Maria è volerle bene alla pari, non perché è un’ospite del Cottolengo, ma perché Maria è Maria. Maria (con indiscutibile autoironia) promette una preghiera al santo Cottolengo per ogni regalino che riesce ad ottenere. Non ha niente altro da offrire. Maria mi vuole bene alla pari anche adesso che (a 75 anni) non sta più al Cottolengo ed è stata mandata in una struttura per lungodegenti da cui non esce più… Prima mi accoglieva con gioia, adesso che non è più a casa sua al Cottolengo mi accoglie con tristezza infinita. Ma sempre alla pari.
           Casa mia, due anni fa. Porto a casa in città un gatto cucciolo. Lo ha abbandonato qualcuno nel nostro cortile in campagna. È un micio rosso con i dentini da latte, cieco (temporaneamente) per la fame. Lo porto a casa con ansia, perché c’è già una gatta di sei anni: un vero moltiplicatore d’affetto, ma di carattere forte e autorevole.
           Gli esperti dicono che una gatta ha i suoi territori, che non è bene squilibrare gli equilibri… Tant’è: Remigio (il piccolino) è affamato e senza casa, in qualche modo ce la caveremo… Sira (la grande) vede Remigio piccolo, povero e affamato e accetta subito di squilibrare i suoi equilibri, di cambiare le sue abitudini, di accogliere Remigio.
           Alla pari, ma con senso di responsabilità: tuttora Sira si preoccupa che ci sia la pappa per Remigio, prima di mangiare la propria. Accogliere con senso di responsabilità, non integrare: è lei che si è adattata all’altro. Spartendo i territori e insegnandogli a non fare troppo caos con la sabbia della lettiera.
           Scuola elementare di barriera, un anno fa. Arrivano degli adulti a svolgere un’inchiesta. Entrano in una terza in cui, su 24 bambini, gli italiani sono 8 o 9. Senza troppa attenzione a non creare disagio, un adulto ordina Si alzino i bambini stranieri. Tutti capiscono il comando, ma nessuno si alza. In quella classe (in quella e non in tutte, purtroppo) tutti sanno di essere persone di 8 o 9 anni. Nessuno è straniero.
           Il nostro complemento di accoglienza esige che inventiamo anche il complemento di responsabilità (nostra nei confronti dell’altro). Proprio quello che ha fatto Sira con Remigio cucciolo.
Fratello, ho bussato alla tua portaho bussato al tuo cuore,non sono nero,non sono rosso,non sono blu.Ma sono un uomosoltanto un uomo;ho due piedidue mani... Aprimi fratello!
 
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