Testimonianza su don Bosco

Certamente, don Bosco, ha rappresentato e rappresenta ‚Äì ovviamente non per mio merito ‚Äì una presenza significativa nella mia famiglia e nella mia vita: a partire da quando, egli, il 4 settembre 1881, settanta anni prima della mia nascita - con una lettera autografa lasciatami da mio padre, che conservo gelosamente ‚Äì scriveva a mio bisnonno da San Benigno Canadese; firmandosi “umile servitore ed amico in Gesù Cristo”,:

Testimonianza su don Bosco

da Don Bosco

del 18 gennaio 2008

1. Sono grato alla famiglia salesiana per avermi chiesto – nel contesto delle giornate di spiritualità, programmate da essa – di rendere una testimonianza sulla mia esperienza personale di educazione salesiana, secondo il modello proposto dal cuore di don Giovanni Bosco, per lo sviluppo integrale della vita dei giovani, sopratutto i più poveri e svantaggiati, attraverso la promozione dei loro diritti.

È una testimonianza che rendo volentieri – riproponendo ed approfondendo alcune riflessioni che ho già avuto modo di esprimere in occasione della celebrazione della presenza salesiana in Genova, e poi del conferimento della cittadinanza onoraria genovese alla Congregazione salesiana ed al Rettor Maggiore, don Pascual Chavez – nella mia qualità di ex-allievo, grazie ad un breve ma intenso periodo di formazione salesiana: una full immersion di due anni, per il periodo del ginnasio, nel collegio Don Bosco di Genova-Sampierdarena, preceduta da un primo contatto di un anno, nella scuola elementare dell’istituto Richelmy di Torino.

Di questa formazione, e dell’arricchimento che essa ha significato per la mia personalità sul piano spirituale ed umano, sono profondamente grato a Don Bosco e alla famiglia salesiana, per quanto hanno saputo dare alla mia educazione ed al mio stile di vita, significativamente segnati da quell’esperienza.

Certamente, don Bosco, ha rappresentato e rappresenta – ovviamente non per mio merito – una presenza significativa nella mia famiglia e nella mia vita: a partire da quando, egli, il 4 settembre 1881, settanta anni prima della mia nascita - con una lettera autografa lasciatami da mio padre, che conservo gelosamente – scriveva a mio bisnonno da San Benigno Canadese; firmandosi “umile servitore ed amico in Gesù Cristo”,:

“Illustrissimo signore

Allorché la S.V. compiacevasi di passare alcune ore con noi, pareva che qualche raggio di speranza spuntasse nel nostro cuore sulla guarigione del Suo figlio infermo, Dio ha disposto altrimenti e Dio sia benedetto in tutte le cose.

Quel Suo figlio dava buone speranze di un lieto avvenire, era un fiore del paradiso terrestre che Dio volle trapiantare nel paradiso celeste per cui era già maturo.

Ho pregato per lui, ed ora non mancherò di pregare per Lei o rispettabile Signore, per la Sua Signora Moglie e per tutta la Sua famiglia.

Dio li benedica tutti e tutti conservi in buona salute e nella sua Santa Grazia.

La ringrazio della offerta che fa di prestarsi in favore della nostra opera, io mi auguro qualche occasione di poterla servire in qualche cosa di cui sia capace.

Ho speranza di poterla riverire a Torino mentre ho lavori disposti in Prefettura.”

Fu proprio a seguito di quella lettera e della devozione della mia famiglia a don Bosco che quando nacqui – nel 1940, in un momento molto difficile per la mia famiglia, come per tantissime famiglie italiane e per il mio paese, all’inizio di una guerra disastrosa – mi venne imposto il nome di Giovanni Maria (legandomi a don Bosco e a Maria Ausiliatrice), che festeggio il 31 gennaio.

Confesso che quel nome – lungo; che si prestava a facili prese in giro per via della parte femminile; che mi impediva di festeggiare l’onomastico il 24 giugno, come la maggioranza degli altri Giovanni – non lo capivo e mi dava qualche fastidio. Proprio per spiegarmene il significato, una brava zia – che scriveva libri per la scuola – ne intitolò uno a “Don Bosco, l’amico dei ragazzi” (pubblicato, mi sembra, nel 1949) con la storia della vita del santo, dedicandolo a me.

Fu allora che cominciai a intuire l’importanza e il significato di don Bosco e soprattutto il suo messaggio di gioia e di allegria: un messaggio particolarmente affascinante e nuovo per me, bambino abituato a considerare la santità come un qualcosa di estremamente lontano, inarrivabile e sacro, che incuteva un timore reverenziale.

È un messaggio che ritrovai nel collegio di Genova-Sampierdarena, quando frequentai nel 1954 e nel 1955 la quarta e la quinta classe del ginnasio, in un momento particolarmente importante per la mia formazione. Era un convitto serio e impegnativo (noi interni tornavamo a casa soltanto per le vacanze di Natale, di Pasqua e per quelle estive: ciò che era ostico per chi, come me, abitava in Genova a poca distanza dal collegio); si studiava parecchio (ho imparato, e ricordo ancora, il greco e il francese; ho ricominciato a studiare la matematica, che avevo trascurato completamente nelle scuole medie); ma vi era anche tanta allegria.

Si trattava, io credo, dell’allegria di cui Don Bosco ha impregnato la sua vita e il suo apostolato: da quando, ai Becchi, faceva l’acrobata e il prestigiatore per catturare l’attenzione degli altri, utilizzando già allora il proprio istinto, il carisma, la concretezza e la capacità di organizzazione; da quando, allora, aveva insegnato ad un merlo a cantare, fischiando; da quando a Chieri, alla scuola secondaria, aveva fondato la società dell’allegria, il cui statuto prescriveva a ogni socio di “introdurre conversazioni e divertimenti che contribuiscano a far stare allegri; è vietata la malinconia e ciò che è contro la legge di Dio”; da quando, sempre a Chieri, nel 1834, concluse vittoriosamente la sfida lanciatagli da un acrobata che scherniva gli studenti: ma la concluse con un pranzo, in cui l’acrobata riebbe il suo denaro perduto con la sconfitta e ritrovò la serenità.

È la stessa allegria, credo, che il santo riuscì a conservare, non ostante le difficoltà, nel 1845, quando spedì in carrozza al manicomio, con un’astuzia, i due gentiluomini saggi che erano venuti a trovarlo per ricoverare lui, nella convinzione della gente per bene che il suo entusiasmo e il suo ottimismo – per l’opera che aveva in testa e in cui ben pochi credevano – fosse frutto di allucinazioni e non di un disegno provvidenziale.

È l’allegria che don Bosco non abbandonò mai e che nel 1884, durante un’intervista - la prima, cui un futuro santo si sottopose, ed anche questo è significativo - a un giornalista del Giornale di Roma, che gli chiedeva cosa pensasse dell’avvenire della Chiesa, gli suggerì di rispondere “i profeti siete voi giornalisti!”

Ma è un’allegria importante e profondamente significativa, come momento essenziale dell’istruzione e soprattutto dell’educazione, della vita in comune; è l’allegria che

dall’ottimismo, dalla fiducia nella Provvidenza (e tanti interventi di quest’ultima accompagnarono lo sviluppo di Valdocco) e negli altri, soprattutto nei giovani; è l’allegria – antitetica alla paura e all’invidia – che scaturisce dall’entusiasmo e dal coinvolgimento in un’impresa comune, e che è contagiosa.

Ed è l’allegria – sintetizzata da Domenico Savio, con l’avvertimento ad un amico che frequentava l’oratorio per la prima volta, “noi facciamo consistere la santità nello stare allegri” – delle accademie, delle castagnate, dei carnevali, del cinema all’oratorio nel pomeriggio della domenica, dell’orchestrina di armoniche a bocca, che ricordo tutti come momenti significativi del mio soggiorno a Samperdarena: non meno significativi della consacrazione della chiesa parrocchiale di san Gaetano, e della partecipazione alla schola cantorum in tale occasione, o dell’impegno quotidiano nello studio.

 

2. Quell’allegria, che è l’espressione dell’agire insieme, è strettamente connessa all’altro messaggio peculiare che ho ricevuto dall’educazione salesiana e che conservo gelosamente: il rispetto della dignità dell’altro, l’impegno alla solidarietà verso di esso, l’accettazione della responsabilità da parte di quest’ultimo.

La pari dignità e la solidarietà sono momenti essenziali, fra loro inscindibilmente connessi, dell’identità umana e del rapporto sociale, della relazione con gli altri, quindi dell’educazione e della formazione del giovane a questo rapporto.

La pari dignità di tutte le persone – sia che essa, nell’ottica cristiana, venga fatta discendere dalla considerazione della persona come immagine di Dio; sia che, nell’ottica laica, venga fatta discendere dalla natura stessa della persona, dalla sua capacità di autocoscienza e di autodeterminazione responsabile – è la base e la premessa di tutti i diritti umani fondamentali; ed è l’espressione più alta dell’uguaglianza, formale e sostanziale, che vi è fra tutti gli uomini, al di là delle molteplici differenze che caratterizzano l’identità personale di ciascuno di essi. Queste differenze – inevitabili, legate alla natura umana, e in sé capaci di arricchimento reciproco, nell’ottica del pluralismo – proprio in nome della pari dignità di tutti e di ciascuno di noi, e in nome dell’uguaglianza fra di noi, non possono e non devono mai diventare fattori di discriminazione e di sopraffazione, o per contro di inferiorità.

La pari dignità sociale e l’eguaglianza formale e sostanziale (sia quella davanti alla legge; sia quella nella realtà sociale e di fatto, non ostante le differenze e gli ostacoli alla sua realizzazione effettiva) sono un impegno tanto più forte e vincolante, quanto più sono riferite ai soggetti più deboli, più svantaggiati, più poveri: a quei soggetti, cioè, che proprio per le loro condizioni di disagio possono essere o sono più facilmente discriminati, lasciati indietro, abbandonati a se stessi e alla loro debolezza, così da risolvere quest’ultima in una condizione di discriminazione e di inferiorità.

In sostanza, i più deboli e svantaggiati sono “più eguali” degli altri; ed il rispetto reciproco, in cui si sostanzia e si traduce la pari dignità, deve se possibile essere ancor più forte e vincolante nei confronti di essi. Da ciò la stretta connessione fra la pari dignità, la solidarietà e la responsabilità che ne deriva: i miei diritti vengono rispettati se ed in quanto gli altri adempiono ai loro doveri verso di me, e viceversa i diritti altrui si risolvono nell’adempimento dei miei doveri verso gli altri.

La solidarietà, come obbligo di aiuto al più debole, e la pari dignità, come impegno di rispetto anche e soprattutto nei confronti di esso, sono strettamente sinergiche. Senza solidarietà, non può esservi realizzazione effettiva dell’eguaglianza e quindi della pari dignità; senza pari dignità non vi sarebbe ragione per l’impegno alla solidarietà; senza il rispetto della dignità dell’altro e senza un rapporto di solidarietà con esso e con le sue difficoltà, è ben difficile che nell’altro si svegli il senso della responsabilità, cioè la consapevolezza che – per ciascuno di noi – accanto ai nostri diritti, di cui chiediamo il rispetto, vi sono i doveri, per rispettare i diritti degli altri.

Questo discorso è essenziale anche e soprattutto nel rapporto con una categoria “privilegiata” di soggetti più deboli, per definizione e per ragioni di natura: i minori. Soltanto un’educazione che rispetti la pari dignità del minore destinatario del messaggio educativo, e che non si risolva esclusivamente in un’imposizione o in una manifestazione di autorità, ma si esprima anche e soprattutto attraverso il dialogo con esso; un’educazione che si traduca, nell’ottica della solidarietà, in una comprensione ed in aiuto effettivo a quel minore, per superare le lacune e le difficoltà connaturate alla sua posizione di soggetto in divenire ed in crescita: soltanto quell’educazione è in grado di preparare e formare quel minore alla capacità di affrontare ed assumere le proprie responsabilità, che è condizione essenziale per consentire al minore stesso di entrare a pieno titolo e con risorse adeguate nella realtà sociale.

L’impegno al rispetto della pari dignità del minore, e quindi alla sua comprensione ed al dialogo con esso, nella sua educazione; quello alla solidarietà nei confronti suoi e della sua “minorità” (non inferiorità), e quindi all’aiuto per la sua formazione e crescita; l’appello alla sua responsabilità: sono gli elementi essenziali del rapporto educativo, prima e al di là del pur necessario contributo all’arricchimento culturale del minore stesso. E sono questi gli elementi che conservo gelosamente come frutto della mia educazione salesiana, e che ho colto nel messaggio educativo che don Bosco ci ha lasciato con la sua vita, con il suo esempio, con il suo insegnamento.

 

3. Mi hanno sempre colpito – da quando, bambino, mi portavano al santuario della Consolata a Torino, non molto lontano da Valdocco e da Maria Ausiliatrice – la figura di San Giuseppe Cafasso e il suo apostolato con i carcerati e i condannati a morte; così come, dai racconti che ascoltavo e poi da una visita a quell’ospedale, rimasi fortemente impressionato dalla Casa della Divina Provvidenza di San Giuseppe Benedetto Cottolengo, dedicata all’accoglienza di soggetti con gravissimi handicap. Erano, sin da allora, sensazioni e immagini di profonda civiltà e di una tradizione di solidarietà piemontese, viepiù necessarie in una città che si confrontava con lo sviluppo industriale e con tutto il suo seguito di ingiustizie sociali e di alienazione: una città investita dalla febbre della prima industrializzazione, con decine di migliaia di immigrati, fra cui moltissimi ragazzi abbandonati a se stessi, sfruttati nel lavoro, spesso destinati al carcere; in un contesto di moti risorgimentali, di restaurazioni e rivoluzioni, di turbamenti ed avvenimenti, in cui la Chiesa era talvolta considerata alleata e più spesso nemica da contrastare, ma in cui destava rispetto – anche negli avversari – la santità degli “evangelizzatori dei poveri”.

Ho trovato – e non io soltanto – uno stretto collegamento fra don Cafasso, don Cottolengo e don Bosco, che d’altra parte si conobbero, si aiutarono e si influenzarono reciprocamente; fu proprio don Cottolengo (che si definiva “il manovale della Provvidenza”) a dire profeticamente a don Bosco, toccandogli la veste: “È troppo leggera. Procuratevi una veste più resistente, perché molti ragazzi si appenderanno a questo abito”. È il collegamento che esprime la solidarietà, l’attenzione agli emarginati, ai più deboli, ad alcuni fra i “meno uguali”, per usare il linguaggio attuale dell’articolo 3 della Costituzione italiana: i carcerati, i malati, i ragazzi. E vale la pena di ricordare, a questo proposito, una delle tante “pazzie” di don Bosco – per il clima politico e sociale dell’epoca – che legavano allegria, concretezza, solidarietà e responsabilità: quando egli riuscì a portare fuori dal carcere – sulla parola e senza nessuna sorveglianza – più di trecento giovani carcerati, per una giornata di svago, riconducendoli a sera senza che ne mancasse nessuno.

È un messaggio di solidarietà che mi ha accolto nella mia formazione, nel collegio di Genova-Sampiedarena.Quel messaggio ha continuato ad accompagnarmi anche dopo, particolarmente quando sono stato chiamato al compito istituzionale di ministro della giustizia, che riguardava molto da vicino una di quelle categorie di soggetti deboli (i carcerati); ed ancora, quando sono stato chiamato ad un altro compito istituzionale, nel quale sono tuttora impegnato: il compito di giudice delle leggi e della loro conformità alla Costituzione italiana, per il rispetto e per la tutela dei diritti fondamentali, di cui quella Costituzione è garante.

La solidarietà che don Bosco ha praticato ed insegna è una solidarietà moderna, concreta, operosa; che coltiva il senso sociale del lavoro, il rispetto reciproco e l’aiuto fra compagni, la sinergia fra studio e lavoro, il senso civile e sociale; che salda fra di loro la dimensione religiosa e quella umana, al pari della sua allegria. Ed è una solidarietà strettamente associata al costante rispetto della dignità dei giovani, nonché all’altrettanto costante appello alle loro responsabilità.

Penso, a questo proposito, al feeling fra don Bosco e un mio lontano predecessore, il ministro della giustizia piemontese Rattazzi, che – non ostante la meritata fama di anticlericale e di mangiapreti (la legge Rattazzi del 1855 decretava la soppressione degli ordini religiosi) – fu sempre favorevole al santo; fu anzi lui a suggerirgli, con un’intuizione geniale, di organizzare la sua opera non come una congregazione, ma come “una società religiosa che davanti allo Stato fosse una società civile”.

Penso all’impegno dei giovani dell’oratorio, nell’estate del 1854, durante l’epidemia di colera che investì Torino: un impegno in cui l’aspetto religioso (don Bosco promise ai ragazzi che, se fossero rimasti in grazia di Dio, non avrebbero preso il colera; e in effetti nessuno di essi si ammalò) era strettamente connesso all’impegno sociale del trasporto e dell’assistenza dei malati.

Quando rifletto sull’evoluzione dell’oratorio, dai 35 giovani del 1852 ai 1200, fra interni ed esterni, del 1862; quando penso alla realizzazione, in quel periodo, di laboratori (di calzoleria e sartoria, di legatoria, di falegnameria, di tipografia, di fabbro ferraio), di una società di mutuo soccorso operaio, di un convitto, di scuole domenicali, serali e di musica; quando considero che alcuni dei primi contratti di apprendistato stipulati in Italia (un vero e proprio fatto di rivoluzione sociale) furono predisposti e sottoscritti da don Bosco; quando guardo alle dimensioni attuali dell’impegno salesiano nel mondo: mi sembra che il suo messaggio di solidarietà sia una anticipazione pragmatica, moderna e concreta, di alcuni fra i principi fondamentali della Costituzione del 1948, e cioè il principio solidaristico, quello personalistico, quello lavoristico. E – anche per questo – non mi stupisce il fatto che don Bosco sia stato il primo santo per il quale lo Stato italiano, il giorno dopo la sua canonizzazione nel 1934, abbia sentito il dovere di una celebrazione civile, a Roma, in Campidoglio.

 

4. Proprio per tutte queste ragioni il messaggio di allegria, di solidarietà e di rispetto della dignità, proposto da don Bosco - che ho avuto la fortuna di ricevere nella mia educazione salesiana - mi ha colpito allora e continua a colpirmi oggi, per la sua attualità e la sua universalità. Entriamo nel terzo millennio, con un mondo che è diventato un villaggio globale nel quale – grazie all’evoluzione scientifica e tecnologica – sono forse aumentate le risorse disponibili, ma certamente sono anche aumentate le disuguaglianze nell’utilizzazione di quelle risorse e quindi la fascia dei soggetti e dei popoli deboli, emarginati e “meno uguali”; un mondo nel quale è sempre più difficile – ma è sempre più urgente – realizzare una globalizzazione dal volto umano e conciliare le prospettive di essa, troppo unilaterali e mirate alla dimensione economica e del mercato, con i valori della solidarietà; un mondo nel quale l’insicurezza e l’incertezza, insieme con la paura, l’invidia e la violenza, appaiono predominanti. Quindi, un villaggio globale nel quale il messaggio – di allegria, di solidarietà, di rispetto della pari dignità, di assunzione della responsabilità – che don Bosco ci ha lasciato, diventa una traccia fondamentale.

È un messaggio profondamente attuale – quello di don Bosco sulla dignità, sulla solidarietà, sulla responsabilità – che in qualche modo anticipa alcune fra le indicazioni più significative della Costituzione italiana, ed ora anche della Carta europea dei diritti fondamentali: la consapevolezza che il corpo sociale – per la stessa sopravvivenza dei valori da cui origina – deve essere coeso e quindi reagire alle situazioni le quali penalizzano, o addirittura cancellano i soggetti deboli; il riconoscimento che la solidarietà è al tempo stesso premessa ed esito naturale del valore dell’eguaglianza; l’affermazione che senza solidarietà, e con essa eguaglianza, non possono esservi né pari dignità sociale della persona, né garanzia ed effettività dei diritti inviolabili; l’affermazione, ancora, che questi ultimi – sopratutto quelli sociali – si saldano con i doveri di solidarietà, secondo la incisiva sequenza proposta dall’art. 2 della Costituzione italiana; la traduzione, infine, della solidarietà in una capacità ad assumersi le proprie responsabilità ed in un “impegno individuale per il bene comune” di cui, fra l’altro, è espressione specifica quel principio lavoristico affermato dall’art. 4 della Costituzione italiana, che don Bosco aveva precorso con il suo impegno nel sociale, con la sua attenzione alla formazione e al lavoro, con la sua concretezza.

Un impegno che don Bosco ha tradotto nell’amore verso gli altri e specificamente verso i giovani; e che è stato bene riassunto dalla testimonianza – cui, concludendo, desidero ricollegare idealmente questa mia – di un altro italiano, un laico molto amato in Italia, al pari di don Bosco: il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, il quale disse “ho imparato nella scuola salesiana un amore senza limiti per tutti gli oppressi e i miseri: la vita mirabile del Santo mi ha iniziato a questo amore”.

Mi riesce difficile trovare una motivazione più ricca e coerente, ma al tempo stesso più incisiva ed essenziale di questa, per esprimere il significato, la continuità, l’attualità del messaggio educativo attraverso il quale don Bosco ha sviluppato in modo particolarissimo – come si evince agevolmente dalla prodigiosa affermazione e crescita della presenza salesiana nel mondo – l’impegno civile e sociale di solidarietà, accanto a quello religioso di carità. E ciò viepiù se penso al significato, anzi ai significati molteplici dell’educazione, come preparazione essenziale a quel rapporto fra il singolo e la comunità, da cui nascono molteplici diritti e doveri, che segna l’appartenenza ad essa, con un arricchimento reciproco ed una sinergia, nonché con l’acquisizione di una identità.

Oggi, nel villaggio globale – caratterizzato dalla frattura e dallo scontro fra Nord e Sud del mondo; segnato dal fatto che, quasi ineluttabilmente, i ricchi sembrano diventare sempre più ricchi e i poveri, tuttalpiù, solo un poco meno poveri; afflitto dall’intolleranza, dall’odio, dal fanatismo e dal terrorismo globale; contraddistinto dalle migrazioni bibliche e dai viaggi della speranza verso il benessere, per fuggire la morte, la fame, la guerra; infine, oscillante nell’alternativa fra un’assimilazione forzata e una emarginazione sfruttata, come probabile traguardo di quelle migrazioni – l’ingresso del giovane in una comunità, attraverso il processo educativo e la sua formazione, assume un significato del tutto particolare, nel suo riferimento alle varie comunità, da quella globale a quella locale.

Da un lato, la comunità globale: quella caratterizzata dalle tensioni, dalle contraddizioni, dalle ingiustizie, delle sfide dinanzi accennate per la condizione umana. Per l’entrata del singolo in quella comunità, don Bosco ha certamente saputo proporre un messaggio forte di educazione e di formazione, attraverso l’impegno globale e missionario della sua congregazione su scala mondiale, in favore dei più deboli.

Da un altro lato – accanto alle comunità intermedie, come quella regionale europea e quella nazionale – la comunità locale. È quella in cui più si afferma e si conserva l’identità di ciascuno; in cui più si avverte – nella quotidianità e nella contiguità – il rapporto con l’altro, il suo bisogno, il suo essere al tempo stesso uguale e diverso; in cui più si tocca – concretamente e con mano – la differenza fra egoismo e solidarietà: una differenza che non sempre viene colta come un problema personale di tutti e ciascuno, quando ci si confronta astrattamente con le grandi sfide della globalizzazione. Ed anche nella prospettiva locale don Bosco ha saputo certamente proporre, con l’impegno civile e sociale – di cui è espressione il messaggio educativo salesiano, accanto al suo contenuto spirituale e religioso – una proposta di costante attualità, della quale soprattutto oggi abbiamo un profondo bisogno.

don Giovanni Maria Flick

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