Mi è sempre sembrato paradossale che tanti ragazzi si riuniscano con dei professori in uno spazio creato e ri-creato da un classico della letteratura. Fuggono da scuola e poi ci vogliono tornare. Come mai? Ho deciso così di trasformare la mia comunicazione in un'avventura con i miei ragazzi del quarto anno...
del 28 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Quando mi hanno invitato a parlare ai ragazzi che in questi giorni partecipano ai Colloqui Fiorentini, ho pensato di portare anche una delle mie classi tra i 1800 studenti di scuola superiore che da tutta Italia affollano il capoluogo toscano per assistere e contribuire a un convegno su un autore letterario. Mi è sempre sembrato paradossale che tanti ragazzi si riuniscano con dei professori in uno spazio creato e ri-creato da un classico della letteratura. Fuggono da scuola e poi ci vogliono tornare. Come mai?
          Mi hanno chiesto di parlare dell’Ortis di Foscolo, autore designato per i Colloqui di quest’anno. La cosa mi piaceva meno, perché non ho mai letto per intero quel libro, accontentandomi di farlo – antologicamente – “a pezzi”. Ma nulla accade per caso e ho visto una sfida e un’occasione.
          Ho deciso così di trasformare la mia comunicazione in un’avventura con i miei ragazzi del quarto anno, leggendo per intero l’Ortis in classe e scoprendo insieme a loro, come in una passeggiata con un amico, su cosa posare lo sguardo e lasciarsi sorprendere. Abbiamo anticipato lo studio di Foscolo di qualche mese e ci siamo buttati dentro la sua prosa e poesia intrisa di una musica che spesso costringe a fermarsi, quando non è troppo appesantita dalla retorica del tempo.
          Ho letto «Le ultime lettere di Jacopo Ortis» ad alta voce e ci fermavamo se venivamo sollecitati da qualcosa che ci riguardava. È stata una lunga passeggiata, spesso con tratti in solitaria (il tempo non consentiva la lettura di tutto il libro in classe) ma con indimenticabili bivacchi, fatiche, scoperte. Sino alla cima, dalla quale vedevamo tutto il percorso fatto, il panorama che Foscolo ci regalava e una specie di compimento nelle nostre vite. Charles Péguy la chiamava «una lettura ben fatta»: «Una lettura ben fatta non è nientemeno che il vero, veritiero, e persino soprattutto reale compimento dell’opera, una specie di coronamento, di grazia particolare e sovrana. (…) Vi è un destino meraviglioso, e quasi spaventevole, nel fatto che tante opere di grandi uomini possano ricevere un perfezionamento, un compimento da noi dalla nostra lettura. Che spaventosa responsabilità per noi». Io amo chiamarla una lettura «responsabile», una lettura che risponde al testo letto per intero, in prima persona, con una matita in mano. Forse per questo George Steiner proponeva qualche anno fa, in ironica polemica con le scuole di scrittura creativa, l’inizio di «scuole di lettura creativa», scuole in cui si impara a leggere davvero. Questo in effetti dovrebbero fare le scuole di scrittura e la scuola in generale: insegnare ai ragazzi a leggere bene. Oggi arrivano alle superiori ragazzi che fanno fatica a leggere bene un testo ad altra voce. Quale comprensione di un testo e del mondo possono maturare senza una lettura ben fatta? Intelligenza è legere intus, leggere dentro, ma chi non sa leggere non riuscirà a penetrare la superficie del testo per leggervi dentro e incontrare nello spirito chi ha scritto quella lettera.
          Questo accade ai Colloqui fiorentini, nella cornice della Firenze che foscoliamente “beata in un tempio accolte serba l’itale glorie”. Così è accaduto in classe. Non posso dimenticare quando Ambrogio ha detto: “Si doveva intitolare Jacopo Mortis”. Non posso dimenticare il momento in cui Luca ha interrotto la lettura è ha esclamato: «In fondo la letteratura tutta è un combattimento contro la solitudine», cogliendo il nucleo essenziale del romanzo epistolare foscoliano in cui lo scrivere lettere, aldilà dell’imitazione dei modelli, è la ricerca di un «tu» che raccolga i frammenti di un uomo il cui cuore e la cui mente si sono dati battaglia sino a frantumarlo e a renderlo un enigma a se stesso. Ne nasce così una confessione di stampo agostiniano, in cui però la ricerca di senso rimane senza risposta sino al gesto estremo del suicidio.
          Non posso dimenticare le lacrime di Carolina, ferita dal fatto che Foscolo considerasse illusioni del cuore le cose per cui lei cerca di vivere e lottare ogni giorno. Non posso dimenticare le parole di Benedetta che faceva sue quelle di Foscolo quando traduce Pascal «Io non so né perché venni al mondo; né come, né cosa sia il mondo, né cosa io stesso mi sia. E s’io corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’un’ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la mente questi immensi spazi dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove». 
Non posso dimenticare Chiara, la mia collega di storia dell’arte, che ha deciso di darmi una mano per la parte artistica e venire anche lei, portandosi dietro anche la famiglia. 
          Quante cose ho scoperto di Foscolo, quante cose ho scoperto di me, quante cose ho scoperto dei miei ragazzi grazie a questa lettura “ben fatta”. Che cosa è la letteratura se non un modo per origliare noi stessi quando non sappiamo o non vogliamo ascoltarci, che cosa è se non uno scoprire se i pensieri che abbiamo sono veramente nostri e per imparare a guardare gli altri attraverso le parole che fanno proprie o in cui si riconoscono?
          Non potrò dimenticare soprattutto che quando ho detto che sarei andato a Firenze per una comunicazione hanno deciso di venire anche loro, benché i Colloqui cadessero nei giorni delle vacanze di Carnevale e avrebbero dovuto rinunciare alla settimana bianca. Per tornare a scuola.
Alessandro D'Avenia
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