Scappano dalle forze dell'ordine ma anche dalle famiglie che li vogliono picchiare perchè 'guadagnano' poco. La storia dei 12-13 enni immigrati di Torino...ma c'è un oratorio salesiano che cerca di dare loro un futuro. L'esperienza di Don Cesare Durola all'oratorio San Luigi
del 13 marzo 2007
Appena «sente» i carabinieri, Kaled parte come una scheggia, e con lui i suoi compagni. Salta giù dalle scale, raggiunge il fiume, entra nell’acqua resa bassa dalla secca e s’infila nelle fogne. In tutto, saranno 10-12 secondi, durante i quali riesce anche a togliersi le scarpe, per non bagnarle. E una volta nelle fogne, fermare lui e i suoi amici, oggi sono quattro, diventa impossibile. Kaled e i suoi non hanno ancora quattordici anni e arrivano dalle banlieues di Casablanca, Marocco.
Vendono hashish e cocaina ai piedi di piazza Vittorio Veneto, portando anche 300 euro al loro sfruttatore, che spesso è il padre, o uno zio. E da qualche tempo hanno una città tutta loro, sotterranea e proibita. «E soltanto un anno che hanno cominciato a usare le fognature — raccontano i carabinieri della Compagnia San Carlo guidati dal maggiore Massimo De Sanctis —. All’inizio, sbucavano proprio qui sopra, dove c’è il monumento a Garibaldi, e qualche volta li fermavamo li. Ma adesso proseguono per i cunicoli ed escono chissà dove, oltre il lato opposto delle piazza». C’è un racket crudele, rudimentale e familiare, dietro i baby-pusher torinesi. Lo hanno rivelato centinaia di intercettazioni, quelle che, nel 2006, hanno impegnato per mesi Paolo Borgna, pubblico ministero della Direzione distrettuale Antimafla, e Cristina Bianconi, uno dei giudici che nella Procura di Torino lavorano nel progetto che protegge minori, donne, anziani. Ora tre adulti sono in carcere con l’accusa di riduzione in schiavitù, oltre che di traffico di droga: tra pochi giorni si celebrerà il processo. E le telefonate registrate ricostruiscono storie terribili: «Quanto ti hanno dato?», chiede il padre al figlio appena fermato e portato nel carcere minorile per gli esami radiografici che stabiliscono l’età. Il ragazzino risponde al cellulare: «Questa volta, tredici anni e 8 mesi». Per il papà-sfruttatore scatta l’allarme. Parte la telefonata alla moglie, rimasta a Casablanca: «Devi mandarmi Omar, ormai ha 7 anni e deve aiutare anche lui. Devi farlo diventare più duro. Comincia a picchiano. Inizia subito, voglio sentire». Il magistrato Paolo Borgna spiega: «Sono stati proprio i cellulari a consentirci di giungere agli arresti. La cosa più difficile? Non solo fermarli mentre fuggono, ma cambiare le loro vite. In comunità, continuano a fuggire, tornano in piazza Vittorio, dove a comprare droga vanno tutti, dagli studenti ai professionisti alla fine di una giornata di lavoro. «Su dieci minori individuati, però, due ora si sono integrati, vivono in comunità fuori Torino e vanno a scuola. Si sono convinti a farlo perché padre e zio sono in carcere. Ma anche perché un maresciallo ha saputo conquistarsi la loro fiducia, anche grazie al regalo di un pallone». Fino a 14 anni, un minore non può essere perseguito, ma neppure rimandato al Paese d’origine. Per i baby-pusher, dunque, resta solo la comunità: quella super-protetta creata due anni fa dal Comune, o quella di don Cesare Durola, il prete salesiano che ogni pomeriggio inizia il suo giro, dal parco del Valentino ai Murazzi, con un furgone carico di porte da calcio, basket, palloni, libri di italiano. Qualcuno ce la fa, e resta perfino ad aiutarlo, pronto a salire sul pulmino e a far vedere ai suoi ex compagni che cambiare è possibile. Qualcun altro preferisce la strada delle fogne. Ma anche ai più duri il buio di quei cunicoli, le botte a casa quando i soldi non sono abbastanza, i carabinieri che ti inseguono, fanno paura. E allora, nascosti sotto l’asfalto, tra le pietre antiche dei Murazzi, da pusher si diventa tossicodipendenti: spinelli, ma soprattutto colla, sniffata per sentirsi più forti.
Vera Schiavazzi
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