Torna l'ora solare

(è bello sapere che saremo sempre in debito per il tempo che ci è regalato)

Di tutte le strane cose che gli uomini hanno dimenticato, il più universale e catastrofico dei vuoti di memoria è quello per cui hanno dimenticato che stanno vivendo su una stella. (G. K. Chesterton)

Ci vorrebbero giornate di 48 ore. Quante volte l’ho detto e lo dirò, perché il tempo non basta mai per fare tutto. Tutto? Sarebbe già molto se riuscissi a concludere qualcosa. Perciò adoro la domenica in cui ci si sveglia con il ritorno dell’ora solare. L’impressione di guadagnare un’ora è un benefit di lusso. Anche se coi bambini piccoli non si riesce comunque a dormire un’ora in più, quell’ora in più c’è. Lascio volutamente gli orologi impostati sul vecchio orario, per il puro gusto di vedere continuamente quell’ora in più che posso avere. E pare che si avveri il sogno di avere la macchina del tempo: fermare l’inarrestabile corsa dei minuti e spostare le lancette indietro.

So che con questo piccolo cambiamento si genera nel corpo un po’ di scombussolamento, ma non sono d’accordo con il Codacons che vorrebbe mantenere in vigore per tutto l’anno l’ora legale. Accetto di buon grado tutti i vari fastidi connessi allo sfasamento, perché per una volta mi si offre la possibilità di percepire il tempo nel modo più piacevole possibile, cioè non semplicemente come qualcosa che sfugge, ma come qualcosa che ci è dato. E questa è una percezione molto più onesta dei bilanci ansiosi che solitamente mi frullano per il cervello, del tipo «non ho tempo» o «ho perso tempo». È paradossale esprimerlo dicendo che, una volta all’anno, il sole ci fa tornare indietro, eppure è così. Il ritmo solare, che da sempre è l’emblema dell’inarrestabile corsa in avanti del progresso, per una volta ci invita a fare un passo indietro. Ci offre il piccolo benefit di un’ora guadagnata, in un orizzonte stracolmo di deficit.

Manca il tempo, mancano i soldi, manca la volontà, mancano le risorse, manca la responsabilità. Deficit. Tutto il peso di questa mancanza si traduce in una corsa in avanti, con la permanente sensazione di dover recuperare (e non semplicemente fare). E in mezzo ai ritardi permanenti con cui ci destreggiamo nel piccolo delle nostre giornate, ci giungono le voci assordanti dei mercati, che gridano che il nostro paese è ben oltre i tempi supplementari. E danno i numeri, perché si sa: quando le cose precipitano, si finisce per dare i numeri. Sono dibattiti rispetto a cui io mi sento esclusa e getto la spugna; quelli in cui c’è il politico che propone di tirare fuori miliardi di euro con una certa manovra e c’è il suo collega che lo rimbrotta sbattendogli in faccia quanti miliardi di euro si sono persi non facendo un’altra manovra. Li seguono a ruota i numeri per ridurre il cuneo fiscale, i numeri assurdi delle pensioni d’oro, i numeri statistici degli esperti che analizzano e confrontano, poi autorevolmente concludono ragionamenti catastrofici dicendo: «Dati OCSE alla mano».

C’è da sentirsi come Renzo di fronte all’avvocato Azzeccagarbugli: il giovane porta quattro capponi per chiedere consiglio su un problema grave e quello risponde col latinorum. La ricchezza portata in dote dal povero paesano si dissolve di fronte alla sontuosità di paroloni che predicano che non c’è niente da fare. Dopo quel colloquio, Renzo non solo riceve la conferma che il suo problema è davvero grave, ma guadagna anche l’impressione che lui non conti niente. I paroloni o numeri spropositati hanno il potere di lasciarti addosso l’impressione certissima di quanto vadano male le cose, pur non facendoti vedere chiaro.

Quel che si percepisce con chiarezza è il debito, il debito imponente che ci attanaglia e ci marcia contro come il gigante delle favole. Il signor Chesterton, a suo tempo (cioè circa un secolo fa), tratteggiò il profilo di un quadro economico molto simile a quello che ci circonda: «Il rapporto che corre tra l’uomo e i moderni schemi e sistemi, tra l’uomo e le istituzioni che lo governano e le influenze internazionali in cui esse si dilatano, è molto simile ai rapporti che avrebbe un uomo il quale vivesse come un pigmeo in una città di giganti. I disastri economici in cui incorriamo sono largamente dovuti al fatto che le operazioni sono diventate troppo grandi per gli operatori. Siamo tutti dispersi come spilli infilati in un’immensa mappa di affari finanziari, o meglio di finanziaria strategia» (da L’arte del ritratto gigantesco, in La nonna del drago e altre serissime storie) .

Rispetto a quest’ordine di grandezza sembra non esserci partita per noi, quelli che devono tenere in piedi la baracca con i loro quattro (capponi) soldi. Ma è anche vero che la nostra partita ce la giochiamo in un campo in cui – a ben vedere – la crescita non è in discussione. Me lo ha ricordato qualche sera fa la maestra di mio figlio durante l’assemblea di classe. Sono parole che ho capito molto bene, senza latinorum e mi hanno spiazzato. La maestra ha invitato noi genitori ad aiutarla nel suo compito, che è quello di accompagnare i nostri figli a diventare gli uomini e le donne di domani. Per questo, ci ha ricordato che noi mandiamo a scuola i nostri figli perché abbiamo a cuore la loro crescita e, quindi, il primo passo educativo nei loro confronti dovrebbe essere quello di mostrare loro che crescere è un’esperienza che vale la pena affrontare con impegno lieto. Siamo noi gli adulti, quelli che sono cresciuti. Immediatamente ho pensato alle nostre facce di prima mattina quando portiamo i figli a scuola. Volti tirati e stanchi, passo veloce, nervoso incombente. È questo il frutto del crescere che li attende?

Di colpo le visioni economiche degli esperti mi sono parse lontane anni luce, perché la maestra mi ha indicato una crescita molto più concreta che mi tocca da vicino. Mi sono resa conto che, pensando ai nostri figli, noi vediamo la vita come una promessa ricca di attese e, in questo modo, consideriamo il tempo nel modo giusto, cioè come un’occasione. È altrettanto vero che pensando a noi stessi, invece, diventiamo improvvisamente miopi, chiudendoci nella logica paralizzante dei bilanci. Il tempo è inquadrato, suddiviso, rincorso.

Il punto a cui mirava la maestra di mio figlio non era quello di farci promettere di avere un sorriso smagliante dalle sette di mattina alla nove di sera di fronte ai nostri figli. Ci invitava, come ha fatto l’ora solare questo fine settimana, a fare un passo indietro per ponderare il nostro guadagno quotidiano. Perché ogni giorno è fatto di ore che sono in più: da quando siamo nati a oggi ci viene elargito uno spazio di azione in cui essere, fare, crescere. Chi ha visto il film Gravity sa quale impressione sto cercando di descrivere: per quanto pesante sia la vita che ti aspetta sulla terra, faresti di tutto pur di esserci dentro e non perderti nel vuoto dello spazio. Grave e pesante è la forza che ci tiene aggrappati alla terra, eppure grazie a questo vincolo stretto stiamo in piedi e respiriamo.

Oggi la parola debito risuona drammaticamente ovunque: abbiamo un debito pubblico da record, alle stelle. Ma paradossalmente, oltre al debito che pesa sulle nostre spalle, ne abbiamo un altro enorme alle nostre spalle che anziché bloccarci dovrebbe renderci operosi. Il piacere di alzarci dal sonno notturno sapendo che abbiamo un’ora in più ci ricorda, una volta all’anno, che in realtà questo credito di tempo va avanti ininterrottamente dal momento in cui la notte del nulla ha ceduto il passo al mattino della nostra nascita. È un debito rispetto a cui rimarremo lietamente insolventi, un contratto che, visto con gli occhi del signor Chesterton, ci vincola a tenere un sincero sentimento di gratitudine sullo sfondo di ogni nostra azione – corse, ritardi, fiatone compresi:

«L’enunciazione più concisa di questa folgorazione è dire che si tratta della scoperta di un debito infinito. Può sembrare un paradosso dire che un uomo può esultare di gioia scoprendo di essere in debito. […] Dire che se un uomo è veramente consapevole di non poter pagare il proprio debito, lo pagherà per sempre, è il più elevato e il più sacro dei paradossi. Restituirà per sempre ciò che non può restituire mai e che non ci si può aspettare che restituisca. Continuerà per sempre a profondersi in un pozzo senza fondo di infiniti ringraziamenti. Chi pensa di essere troppo moderno per capirlo, in realtà è troppo meschino per poterlo capire; quasi tutti noi siamo troppo meschini per metterlo in pratica. […] Ma che lo si veda o no, la verità sta in quell’enigma: che tutto il mondo ha o è un’unica cosa buona, cioè un debito non pagato» (da San Francesco).


di Annalisa Teggi

Tratto da tempi.it

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