L'umiliazione può portare alla vittimizzazione, alla ribellione, ma anche a un desiderio di incontrare il diverso su un piano di uguaglianza, da persona a persona, e non dall'alto al basso. L'umiliazione può condurre anche a quello che io chiamo il «sacramento dell'incontro». Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire...
del 20 febbraio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Dopo aver visto per ben due volte il film Des hommes et des dieux, sui monaci trappisti di Tibhirine, sto ora leggendo un libro che parla dei martiri d’Algeria (M.Mc Gee, Christian Martyrs for a muslim people, 2008). La loro storia mi dà una chiave di lettura della situazione dei cristiani un po’ ovunque. L’aspetto che mi colpisce di più è che, in Algeria, la colonizzazione prima e la decolonizzazione poi hanno lasciato dietro di sé un grande senso di umiliazione. Nelle nostre conversazioni, quando parlerò di umiliazione, non penso tanto a situazioni in cui qualcuno interviene dall’esterno per umiliare di proposito un altro, a situazioni in cui ci sarebbero per così dire degli umiliatori e degli umiliati.
          Voglio piuttosto evocare situazioni in cui le circostanze della storia hanno portato con sé, nei confronti di un gruppo, di una Chiesa, di una cu! ltura che si trovava in posizione dominante o per lo meno riconosciuta, un ribaltamento e quindi un’umiliazione. In Algeria i francesi avevano fatto anche del bene, costruito scuole, ospedali, belle opere. Le gestivano, trasmettendo però un messaggio implicito: che gli Algerini non sarebbero stati capaci di fare altrettanto. Il senso di umiliazione ha provocato negli algerini la rabbia e la ribellione, come anche la depressione e la vittimizzazione. Quando ci si vittimizza, contemporaneamente si accetta e si approfitta di una determinata situazione pur passando alla rivolta. Ci fu così tutta la violenza della guerra d’Algeria: la Francia ha fatto uso di torture, gli algerini hanno preso il potere cacciando i francesi. Stavolta l’umiliazione passava dalla parte dei francesi e della Chiesa d’Algeria. Tutte le cose belle fatte, le opere che i cristiani avevano costruito sono state chiuse e loro sono stati espulsi. La Chiesa, che prima stava in cima alla scala sociale, si è tro! vata giù in fondo; allora ha sperimentato la stessa situazione! di umil iazione che gli algerini avevano vissuto precedentemente nei confronti dei francesi. Ed è solo a partire da quel momento che la Chiesa d’Algeria ha potuto scoprire l’importanza dell’incontro.          L’umiliazione può portare alla vittimizzazione, alla ribellione, ma anche a un desiderio di incontrare il diverso su un piano di uguaglianza, da persona a persona, e non dall’alto al basso. L’umiliazione può condurre anche a quello che io chiamo il «sacramento dell’incontro». Tale passaggio fondamentale nella storia della Chiesa algerina mi pare una chiave straordinaria per capire tutta la storia della Chiesa. Credo che potrebbe essere proprio ciò che ci è chiesto di vivere oggi, come cristiani. Non si può negare che ai nostri giorni la Chiesa romana viva un tempo di umiliazione. C’è lo scandalo scoppiato attorno ai problemi di pedofilia. Questa umiliazione può diventare l’occasione di una scoperta simile a quella descritta per la Chiesa d’Algeria. A condizione però di non irrigidirci nel voler continuare ad affermare che l’unica missione dei cristiani, preti o laici, che l’unico modo che abbiamo di 'fare del bene' sia 'la conversione' dell’altro alla nostra fede cristiana. Il «sacramento dell’incontro» esige essenzialmente una cosa: che io sia in Gesù e Gesù in me. Richiede una trasparenza e una purificazione delle nostre vite. Chiede che siamo cristiani non per cambiare gli altri e per convertirli, ma per incontrarli con umiltà e rispetto lì dove sono. Il «sacramento dell’incontro» rende presente Gesù «mite e umile di cuore».          L’incontro accade solo tra persone. E questo implica che ci si scopra uguali, fiduciosi l’uno nell’altro: la mia persona e la tua persona, semplicemente. L’incontro rivela all’altro il suo valore e comporta un ascolto con tutto il proprio essere. A questo proposito voglio rileggere e trovare ispirazione profonda in quanto il Concilio dice della coscienza personale: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Que! sta voce , che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Gaudium et Spes 16 ,1).          Che forza in queste parole! Di recente ho partecipato a un incontro e mi è capitato di citare questo testo. Un cristiano mi ha detto di non aver mai sentito parlare della coscienza personale! La coscienza non è la legge e non nega il ruolo del magistero ecclesiale. Il beato John Henry Newman dice che il Magistero esiste proprio per aiutare i c! ristiani a seguire la loro coscienza personale ben illuminata dalla verità. Nelle nostre società il criterio dell’azione non è più tanto la coscienza del bene. Il criterio è diventato il successo, il fatto di riuscire e di ottenere l’approvazione altrui. La motivazione dell’agire non è il bene, ma il successo. Ma allora, se il risultato non è una riuscita, ci sarà ancora posto per me nella società? Se non ci riesco, sarò umiliato, ad esempio perché sono portatore di un handicap. Nei nostri Paesi la paura dell’umiliazione ci spinge a entrare in una normalizzazione fatta di tutte quelle norme che vengono stabilite in vista non del bene ma del successo. Ecco allora perché, nella storia della Chiesa, i momenti di umiliazione – come è accaduto alla Chiesa d’Algeria – sono chiarificatori. Rivelano quali siano i criteri della nostra coscienza. Nelle comunità dell’Arca noi viviamo con persone che sono state umiliate in profondità. Nel 1973 abbiamo accolto P! auline, che, all’epoca, aveva 40 anni. Era epilettica, emipleg! ica, dia betica, con un braccio e una gamba paralizzati. La famiglia e i vicini la trattavano come «un’handicappata». Non è potuta andare a scuola ed era la delusione di tutta la famiglia. Non aveva diritto alla parola e neppure ai desideri. Quarant’anni di umiliazioni. Come stupirsi poi che fosse violenta? Quarant’anni di umiliazioni l’hanno portata a credersi priva di qualsiasi valore. La violenza era il grido con cui chiedeva la vita: «C’è qualcuno che crede in me?». Solo attraverso degli incontri in cui veniva rispettata e ascoltata, incontri fatti di umiltà, in cui la persona profonda che era veniva riconosciuta, Pauline ha trovato pian piano la pace, ha scoperto chi fosse. Ed è riuscita a incamminarsi verso una maturità reale. Quando i cristiani si trovano in situazione di umiliazione, che cosa fanno?          Ho dialogato con una donna di grande cultura che si definisce atea e dice di far fatica con quei cristiani che stanno a sinistra con le idee, ma te! ngono nella mano destra tutti i fili della finanza. Le ho risposto che questa situazione mi ricordava quella della famiglia di una certa Chiara di Favarone d’Offreduccio d’Assisi, discepola e amica di san Francesco. I suoi nutrivano per lei un progetto di matrimonio aristocratico, meglio se ricco, un matrimonio che preservasse – e se possibile aumentasse – il potere della famiglia. Lei è scappata, ma sono venuti a cercarla non tanto con la forza delle armi, quanto con la forza delle «norme in vista del successo». E lei, a diciotto anni, è fuggita passando tra le maglie di una rete che si chiama normalizzazione. In questa storia ci sono due culture che si combattono. Da una parte c’è la cultura del Vangelo e della coscienza personale, dall’altra la cultura della classe sociale, con le sue regole in vista della normalizzazione e del successo.          Eppure, la famiglia di Offreduccio d’Assisi andava a messa tutte le domeniche, onorava il vescovo, erano tutti quanti «buoni cristiani». Ma la fuga di Chiara li ha f! atti sen tire umiliati, perché anche per loro l’importante era il successo. Questa doppia cultura attraversa i confini della Chiesa, s’infiltra in noi. Ecco il perché dei problemi che alcuni di noi incontrano oggi, fra l’altro anche alcuni preti. Ci sono preti che fanno fatica a decidere a quale cultura vogliono appartenere: quella del Vangelo e dell’umiltà o quella del successo e dell’approvazione dei superiori? Certo, bisogna anche che siano al corrente di quanto accade, che guardino la televisione e abbiano Internet, entrando così in contatto con tutta la cultura del successo veicolata dai media. Sono particolarmente sensibile a quanti tra loro vivono da soli, abbandonati a se stessi, senza il sostegno di una comunità. Sono preti che vivono una grande solitudine e possono sentirsi persi. In questi casi il pericolo è quello di rifugiarsi in un culto del potere; perché la paura dell’umiliazione spinge a dominare gli altri e le situazioni.          Oggi i preti in realtà non godono più! di potere, se non in questo o quel paesetto sperduto e solo in certe regioni. Incontrano perciò difficoltà di identità molto profonde.E perfino i modelli che vengono loro proposti possono sorprendere.          Come il santo curato d’Ars o Padre Pio. Sono modelli da prendere in quanto percorsi di umiltà e di abbandono a Gesù. Perché diventino imitabili, occorre leggerli come esempi di preti che sono stati strumento del perdono di Gesù. Ma non fermarci lì. E chiederci: come essere strumenti del perdono di Gesù oggi? A proposito di modelli vi confesso che faccio un po’ fatica con una certa rappresentazione di Madre Teresa! Siccome ci conoscevamo, di recente mi è stata chiesta una conferenza su di lei.E ho risposto: «Non posso proprio farvi una conferenza sulla 'beata' Teresa di Calcutta.          Ma se volete vi faccio una conferenza sulla 'piccola' Madre Teresa». Perché era piccola davvero! A Calcutta, quando andavo da lei a far colazione! , mi faceva le uova che nella mia comunità non mi danno mai. A! llora er o felicissimo ogni volta che andavo a trovarla! Mi ricordo di aver parlato con Madre Teresa di una cosa che considero come un segno straordinario del nostro tempo. C’erano diverse donne musulmane che volevano diventare Missionarie della Carità, ma restando musulmane, senza diventare cattoliche. E anche diverse donne induiste volevano diventare Missionarie come le sue suore. Madre Teresa mi ha detto che aveva ricevuto da Roma il permesso di creare un ramo induista della sua Congregazione. E mi ha chiesto se potevo predicare i loro primi esercizi alle sorelle induiste. Le ho risposto: «Sì e con molta gioia!». Poi non si è fatto più nulla. Però è proprio in ragione di tali sogni folli di questa piccola Madre che io non posso parlarvi della 'beata Madre Teresa', ma soltanto della 'piccola Madre Teresa ', di quella che aveva tanta audacia e tanta speranza nel cammino verso l’unità.          Quando si mettono le persone sugli altari, il rischio è di non andare più a cercarle dove so! no realmente: cioè là dove hanno vissuto e dove continuano a rimanere per sempre.Io dico a chi la cerca: «Se oggi volete incontrare Madre Teresa, non andate a cercarla sugli altari, andate fra i poveri, in mezzo a chi muore per le strade. Non bisogna cercarla da altre parti!».
          Ed eccoci di nuovo di fronte alla questione delle due culture che si insinua nelle nostre vite, alla questione dei modelli che presentiamo, delle visioni di santità che proponiamo. Che cosa mettiamo davanti agli occhi della gente: il successo o il Vangelo? Un segno autentico di santità oggi è il 'sacramento dell’incontro'. Niente a che vedere con il successo, neppure ecclesiale.Nel corso della storia la Chiesa ha conosciuto molte situazioni di umiliazione.          Le crociate alla fine che cosa furono se non un’umiliazione? Lo scisma d’Oriente è stato un’umiliazione per Roma. Così come la Riforma fu un’altra umiliazione per la Chiesa romana, pe! rché con Lutero e Calvino la metà della popolazione europea ha! abbando nato la comunione con Roma. La separazione della Chiesa anglicana costituisce un’altra umiliazione. Oppure, se volete, prendiamo un altro esempio umiliante per la Chiesa: quello della schiavitù. Il Parlamento inglese ha condannato la schiavitù con un notevole anticipo rispetto alla Chiesa di Roma. Sì, la Chiesa di Roma si è trovata a essere profondamente umiliata in varie epoche della storia. Ma chiediamoci: ha saputo riconoscere la propria umiliazione oppure ha iscritto tutti questi momenti nel capitolo dei 'tradimenti' che lei ha dovuto subire da parte degli 'altri'? Umiliazione o tradimento? E come si posiziona la Chiesa di fronte all’umiliazione? È un cammino per crescere in una nuova unione con Gesù, anch’egli abbandonato e umiliato? Se posso parlare di umiliazione, non è forse perché dalla Chiesa ci si aspetta che sia quello che è: cioè il volto e il cuore di Gesù? La Chiesa è – e lo è sempre stata nel corso della storia – fonte di santità, fonte del dono dello Spirito! Santo. Oggi come ieri, ci sono tanti preti e laici che sono davvero il volto di Gesù, che continuano a vivere accanto ai poveri, ad annunciare loro la buona notizia, a liberarli dalle oppressioni di ogni tipo.          Oggi, da un secolo a questa parte, ci sono stati più martiri di quanti ce ne furono nelle grandi persecuzioni dell’Impero romano, nei primi secoli del cristianesimo. L’umiliazione è sempre anche un richiamo a quella luce che nel corso del tempo può velarsi, a quella fonte d’amore che può non essere più visibile. L’umiliazione è un invito a guardare oltre, più in alto, per scoprire il vero senso della Chiesa. L’umiliazione può condurre anche a quello che io chiamo il «sacramento dell’incontro».          Credo che potrebbe essere proprio ciò che ci è chiesto di vivere oggi, come cristiani. A condizione però di non irrigidirci nel voler continuare ad affermare che l’unica missione dei cristiani, preti o laici, che l’unico modo che abbiamo di 'fare del bene' sia 'la conversione' dell’altro alla nostra fede cristiana .
Jean Vanier
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