Nella riflessione di un professore laico con quarant'anni di militanza comunista s'affaccia la “questione ineludibile”. Che precede il pensiero e fonda l'esperienza. Anche se il “mondo adulto” fa finta di niente
del 04 giugno 2009
Viviamo in un “mondo adulto”, che ha relegato Dio all’epoca delle favole e delle superstizioni e che si propone di spiegare tutto con i propri apparati cognitivi e scientifici. Un mondo privo di mistero e di enigmi, dove ogni evento, ogni “apparire”, può essere agevolmente spiegato dai vari saperi che analizzano i singoli elementi dell’agire umano nelle loro specifiche funzioni. Eppure stupisce che, nell’epoca della morte di Dio, della morte del soggetto, della fine della psicoanalisi e della stessa filosofia (trasformata in ausiliaria del sapere scientifico) si continui a produrre letteratura e saggistica intesa a mostrare logicamente come l’idea di Dio sia poco più che un reperto archeologico di coscienze attardate e suggestionate ancora da mitologie e superstizioni.
Francamente, provo un senso di fastidio verso quanti non sentono alcuna emozione di fronte alla questione dell’esistenza di Dio, ma si vantano soltanto del loro perfetto e appagato ateismo. L’ateo è un personaggio sostanzialmente ottuso e allo stesso tempo altezzoso, che non riesce a sopportare l’idea di non essere padrone assoluto dei propri pensieri e della propria volontà; che usa le posizioni, spesso politiche e opportunistiche, della Chiesa, per alimentare uno stolto dibattito ideologico sulla laicità della legislazione statale. Il problema di Dio non ha nulla a che fare con quello del riconoscimento mondano della Chiesa di poter intervenire sulle regole di convivenza. Il problema di Dio non è certo quello di una positiva determinazione dei precetti da seguire secondo l’istituzione ecclesiale, né quello di legittimare una qualche istituzione religiosa, bensì quello di dare dignità e rispetto a tutto ciò che, in una determinata epoca storica, gli esseri umani mettono in campo per “resistere” all’esperienza dell’indifferenza del mondo e del dolore soggettivo e all’insignificanza di ciò che appare nella sfera della cosiddetta contingenza. Dio non è un problema della logica e della filosofia teoretica, come se all’origine di ogni cosa vi fosse un sillogismo o un’evidenza del pensiero, ma un problema dell’inspiegabile all’interno dell’esperienza umana.
Dio appartiene al campo dell’esistenza, non già a quello del pensiero metafisico, giacché anche il pensiero metafisico è un’insorgenza creativa della nostra condizione esistenziale. Da quando, nella notte dei tempi, l’essere umano ha istituito la parola che interroga, la domanda sul perché della sofferenza e della gioia è iscritta nella consapevolezza della scissione tra pensiero e essere, tra io e mondo: l’uomo si è posto come colui che non sa “perché” e che attende risposte dall’altro da sé per dare senso al proprio agire. L’affermazione di Heidegger che l’esperienza umana è quella di essere “gettati” nel tempo e nello spazio del mondo, è felicemente espressiva di una condizione in cui ciascuno non decide nulla del proprio venire al mondo, né delle caratteristiche del mondo in cui si colloca l’evento della propria nascita. All’inizio di ciascuno di noi, non c’è né la logica razionale, né la libertà di decidere, ma una dipendenza fisica, affettiva, culturale, dalla madre che ci ha tenuti per tanti mesi nel ventre. Veniamo da un ventre di donna e da lì risaliamo la corrente della vita, sperimentando il lutto della separazione da un corpo accogliente e da una voce rassicurante. Diventiamo quello che siamo a partire da questa dipendenza assoluta da un processo che ci plasma senza darci alcuna possibilità di scelta. Da questo abisso senza luce veniamo al mondo e siamo “educati” a chiedere perché, educati al diritto di domandare, in nome di un piccolo io che si è costruito una provvisoria identità guardando il volto della madre e ricevendone il nutrimento. Cosa c’è oltre l’orizzonte di quel corpo protettivo e avvolgente? Se si perde il contatto con questa esperienza primordiale dell’ex-sistere, si rischia un aberrante capovolgimento che fa nascere la vita dal pensiero e non dalla vita stessa, in quanto vita che ha incorporato, nella notte dei tempi, le parole e l’interrogazione come dati costitutivi del venire al mondo degli esseri umani. (...)
Dio non è qualcosa che l’uomo può costringere entro i confini del suo pensiero e dei suoi concetti. E tuttavia, proprio perché gli esseri umani sono coloro che pongono domande a tutto ciò che si mostra ai loro sensi, il problema di Dio è anche il limite inesorabile delle nostre capacità di conoscere. L’esistenza di Dio è, infatti, un problema che si pone come enigma della nostra esistenza. Chi ci ha gettato nel mondo dell’accadere, visto che non possiamo dominare l’origine di ciò che esiste davanti ai nostri occhi? Non pretendo di avere risposte e non credo che le abbiano neppure le istituzioni religiose, la Chiesa e il papa. So, però, che mi sono trovato più volte a subire il problema dell’esistenza di Dio come un necessario presupposto per poter porre le domande che mi assillano, a partire dall’elementare questione del significato destinale dell’essere venuto al mondo. A chi pensa che questa mia dichiarazione sia frutto di una senile debolezza di fronte al pensiero della morte che si avvicina inevitabilmente, rispondo non solo che l’angoscia di morte è la prima verità da cui occorrerebbe partire, ma che questo senso della ricerca di un “oltre” mi ha spinto, sin dall’adolescenza, come un motore nascosto nelle viscere del mio “racconto personale”.
 
 
Tratto da: “Un mondo senza Dio” del professore Pietro Barcellona dal libro L’ineludibile questione di Dio, scritto dal filosofo catanese insieme a don Francesco Ventorino.
 
Pietro Barcellona
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