Un infinito pomerigio isolano

E' raro che non si cerchi, nella vita, di lasciare un piccolo segno duraturo, qualcosa che resti quando ce ne saremo andati... Non ho mai capito l'essere qui senza l'ombra del sempre e del mai, l'ombra dell'impensabile... Rivedrò il sorriso di chi ho amato, giocherò a scopa con mio nonno e forse, qualche volta, lo batterò...

Un infinito pomerigio isolano

da Quaderni Cannibali

del 10 settembre 2007

Le case dell’infanzia sono dolorose. Non ci torni più per anni, e quando capiti all’improvviso la forza evocativa degli oggetti ti riporta indietro in un attimo, senza che tu possa difenderti.

Forse è un bene che la mia casa in Sicilia non ci sia più, che il passato sia stato cancellato da una impietosa demolizione di muri e mattoni. Esiste solo nella mia mente, disabitata come un sogno mai condiviso. Non c’è più nemmeno una maiolica, un qualunque residuo visibile su cui immalinconirsi come su una madeleine inzuppata. A volte – molto, molto di rado – trovo qualcuno che ricorda; così scopro che è stata reale anche per altri, e mi sorprendo.

Ci si abitua ad essere soli, a perdere il passato, e alla fine tutto è confuso, le cose tornano alla mente solo perché sono state raccontate mille volte. E’ la narrazione già narrata che si riaffaccia alla memoria; le emozioni vive, quelle che fanno mulinello nello stomaco e ti fanno scoppiare di turbamenti, si perdono in un attimo. Resta il mito, manipolato e contaminato, un falso vero che ci appartiene ma al quale quasi non crediamo più; e quando lo scopriamo vero nel ricordo di un altro è un colpo al cuore (impossibile che abbia falsificato anche lui, non si può sognare in due lo stesso sogno). E’ terribile incontrare qualcuno che ti dice: sì, era dolce quel giardino colmo di profumi acuti, di rose, cedrina, gelsomini e artemisia. Ma è peggio, molto peggio trovarsi tra le mani qualche brandello di realtà, un oggetto sopravvissuto e solo. Allora sono lacrime. Mai, mai più. Mai più vedrò il mio nonno amatissimo, mai più le scale, il caffé, le voci, mai più voi così vivi sarete vivi. Solo io, ancora per un po’. Poi mai più, anch’io. Del dopo, come tutti, non so nulla, però conosco il passato.

L’eterno si vive in negativo, è il buco nero che inghiotte il presente, i fatti, le persone e persino le cose, persino il paesaggio e tutto ciò che dovrebbe essere duraturo e solido, nato per sfidare lo sgretolamento del tempo. E’ la smemoratezza contro cui lottiamo per salvare, più che i nostri ricordi, noi stessi. La memoria svanisce, e non sarà più a contatto con l’evento da ricordare. I fatti perdono odori e sapori, calore, vita, immediatezza, e poi sbiadiscono senza che noi possiamo trattenerli, e puoi cantare per ammansire le fiere, puoi essere un poeta e chiamare Euridice, Euridice: inutilmente. Ti volti indietro e vedi Euridice allontanarsi, mentre tu resti lì inebetito, con la cetra in mano.

Aveva ragione Annamaria Ortese quando diceva che la letteratura non è che il ricordo di patrie perdute, la malinconia dell’esilio. Si scrive per ricongiungersi all’origine, e per tendere una mano a chi verrà dopo di te; insomma per radicarsi nel tempo, e non fluttuare come trucioli sull’acqua. Penso all’archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, allo sforzo di tante persone comuni di narrare, narrare, narrare la propria vita, di lasciare il segno scrivendo storie private che alla fine magari si perderanno e che forse nessuno leggerà. C’è un racconto di Kundera su una donna che ha lasciato, nella patria in cui non può tornare, le lettere e i diari del marito morto. Lei vuole disperatamente riaverli, perché le sono necessari. Solo quegli scritti possono fermare la perdita della memoria: “Giacché se il malcerto edificio dei ricordi crollasse come una tenda mal montata, a Tamina resterebbe solo il presente, questo nulla che avanza lentamente verso la morte”. Il volto del marito pian piano si sfoca, perde dettagli, nonostante l’esercizio quotidiano sull’unica foto di lui che le è rimasta, quella, logora e poco somigliante, del passaporto. Ma tutti gli sforzi le confermano soltanto che l’immagine dell’uomo amato si sta irrevocabilmente dissolvendo. Per questo vuole rientrare in possesso dei preziosi documenti rimasti a Praga. “Naturalmente sapeva che nei diari c’erano molte cose non belle, giorni di insoddisfazione, di litigi, o anche di noia, ma non era questo il punto. Non voleva restituire al passato la sua poesia. Voleva restituirgli il suo corpo perduto”.

Per riavere il corpo perduto della sua storia d’amore, Tamina accetta di fare l’amore con il corpo fin troppo presente di un estraneo che la disgusta, un uomo che potrebbe recuperarle il pacco con i diari e le lettere. Ma i desideri dei due sono sfasati, ognuno chiede ottusamente all’altro qualcosa che non può dare, e Tamina non riavrà il suo tesoro.

Le cose che ricordo (sempre meno) sono momenti che emergono qua e là come atolli assediati dal mare dell’incoscienza. L’incoscienza viene sempre definita come una condizione, invece è un movimento, un’onda leggera, continua e insistente, che tutti i giorni della vita sciacqua la memoria e si porta via un po’ di te. Il buio degli occhi, il buio della mente non mi spaventano. O forse solo un istante, come vedere una macchina che ti arriva addosso, sapendo che non la puoi evitare. Mi spaventa invece che la pellicola dei ricordi possa sgranarsi, annerirsi, fino a non poter più essere proiettata. Però se esiste il mai, esiste il sempre. Nessuno può averne esperienza, ma se ne trovano tracce evidenti nel tentativo umano di produrre cose che possano durare nel tempo, opere d’arte e monumenti, scrittura e imperi, famiglia e amori. La felicità astratta del sempre si può intuire al rovescio, attraverso il dolore concreto del mai, ma anche attraverso la tensione che ci porta a lottare contro la precarietà degli affetti, delle cose, e del nostro passaggio sulla terra. Sì, certo, si può aspirare a perdersi nella pura presenza, essere tra quelli per cui la vita significa “to-be-visible-now”, ma è raro che non si cerchi, in qualche momento della vita, di lasciare un piccolo segno duraturo, di costruire qualcosa che resti anche solo per un po’, dopo che ce ne siamo andati. La memoria, e il culto che ne abbiamo, è il baluardo che fabbrichiamo contro il nulla, la bandiera della nazione umana che passa di mano in mano, perché deve assolutamente essere salvata.

Va bene, ma come lo immagini il dopo? Questa è la domanda. La memoria come argine al nulla vuol dire che sei disperatamente rassegnata al nero totale dell’annientamento? Che non c’è un dopo, ma solo un breve adesso? No, io lo so che esiste il sempre, se non altro perché lo immaginiamo. Esiste nell’affannoso tentativo di ricrearlo in terra, di goderne il baluginìo, di prometterlo e sentirsene invasi. Esiste nel terrore di dimenticare ed essere dimenticati, di non saper tenere nel cuore la vita degli altri. Esiste nel selvaggio desiderio di generare, nella volontà cieca di perpetuare la fragilità e mortalità umana per poter amare. E allora come non credere che ci sia un invisibile luogo del sempre, esattamente come in fondo all’isola c’era quella casa in cui non potrò più abitare? Tornare alla casa del padre, è stato detto: il dopo come un nostos definitivo. E’ lì che tutto tornerà intero e ricomposto, e la pace non sarà assenza di conflitti ma pienezza del desiderio che non desidera più. Come un lungo assolato pomeriggio estivo di paese, in cui non c’è proprio nulla da fare se non giocare a carte con gli amici, fare due passi in piazza, consumare una granita al bar. La noia felice senza strappi al cuore, perché ho tutto quello che voglio, le persone (e gli animali) a cui ho voluto bene.

Non c’è niente da rincorrere, non c’è assenza, non c’è male, non è nemmeno necessaria la pietà. L’eterno lo penso come un pomeriggio passato nell’attesa pigra di ombre che non arrivano; un luogo bulgakoviano, dove si scioglie il rimorso e il tormento. Come la passeggiata nel plenilunio che regala a Ponzio Pilato, il feroce quinto procuratore della Giudea, il perdono e la pacificazione: “Dal letto fino alla finestra si stende una vasta strada illuminata dalla luna, e lungo questa strada sale un uomo dal mantello bianco foderato di rosso sanguigno, e si mette a camminare verso la luna. Accanto a lui cammina un giovane col chitone lacero e il volto deturpato. Camminando, parlano con calore, discutono, vogliono accordarsi su qualcosa. – Numi, numi! – dice, rivolgendo il volto altero al compagno, l’uomo col mantello. – Che supplizio triviale! Ma tu, ti prego, dimmi – il suo volto, qui, da altero si fa implorante – non c’è stato, il supplizio! Ti scongiuro, dimmi che non c’è stato. – Ma certo che non c’è stato – risponde con voce roca il compagno, – ti è apparso soltanto. – E lo puoi giurare? – prega insinuante l’uomo col mantello. – Lo giuro! – risponde il compagno, e i suoi occhi, chissà perché, sorridono. – Non ho più bisogno di nulla! – grida con voce esausta l’uomo col mantello, e sale sempre più in alto verso la luna, traendo con sé il compagno. Dietro di loro cammina, tranquillo e maestoso, un gigantesco cane dalle orecchie aguzze”. Il male che abbiamo fatto, e quello che abbiamo subìto, non c’è stato. Nessuno ha mai lasciato che uccidessero l’Innocente, e Pilato può passeggiare al suo fianco, conversando di filosofia e di morale, senza avere più bisogno di nulla.

Non so, forse tutto questo è troppo poco, una visione un po’ terra terra. Ma non ho mai capito l’essere qui senza l’ombra del sempre e del mai, l’ombra dell’impensabile. Sbarrare la porta di fronte al mistero che non sappiamo indagare e decifrare, per esempio non ammettere la possibilità che Dio esista, mi sembra profondamente irrazionale. I popoli che non sanno contare conoscono solo quello che toccano; si passa dall’uno al due, al massimo al tre, e poi subito si salta al “molti”. Molti “come i capelli in testa” o come “il gregge”, o “le stelle in cielo”, sempre riferito a un’esperienza concreta, a qualcosa di visibile. Cercare di contare oltre il due o il tre provoca in loro disorientamento, confusione emotiva, a volte panico: un’equivalenza è impossibile, ogni proposta di scambio può celare la truffa. Noi, invece, sappiamo contare benissimo. Eppure di fronte a quello che non tocchiamo, o che non possiamo conoscere con i rassicuranti strumenti della scienza, ci turbiamo, neghiamo, ci difendiamo con l’arroganza di chi non sa di non sapere. Io non so, ma immagino. E la capacità di immaginare è per me la prova che l’eterno è possibile, se non altro perché è costitutivo dell’umano pensarlo.

Sarà il mio infinito pomeriggio isolano, vissuto senza fretta, in cui rivedrò il sorriso di chi ho amato; giocherò a scopa con mio nonno, e forse, qualche volta, lo batterò.

Eugenia Roccella

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