Un paese fondato sul blocco stradale

L'Italia è una Repubblica fondata sul blocco stradale. Nel senso che ogni categoria collettiva, superiore numericamente a uno, è fisiologicamente orientata a far valere le sue ragioni rendendo la vita impossibile al prossimo. La logica è distruttiva e risponde alla prima legge delle cavallette: più danno si provoca, e meglio è riuscita la protesta.

Un paese fondato sul blocco stradale

da Attualità

del 25 gennaio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

          L’Italia è una Repubblica fondata sul blocco stradale. Nel senso che ogni categoria collettiva, superiore numericamente a uno, è fisiologicamente orientata a far valere le sue ragioni (reali o presunte) rendendo la vita impossibile al prossimo. La logica è distruttiva e risponde alla prima legge delle cavallette: più danno si provoca, e meglio è riuscita la protesta.           Il paradosso è che, al di là delle ragioni di chi fa chiasso – e pare che attualmente non siano poche – le vittime di queste piazzate sono i soliti noti: pendolari che vanno al lavoro, professionisti, artigiani, automobilisti imbufaliti, casalinghe indaffarate. In più, il blocco del Paese rischia di acuire gli aumenti dei beni di prima necessità e quindi di mettere ancora più alle strette le famiglie.           Vero è che in tutte le manifestazioni cui stiamo assistendo in queste ore c’è qualcosa di nuovo, anzi di antico.          Qualcosa di nuovo, perché la sensazione è che tiri davvero una gran brutta aria. I blocchi stradali che stanno martoriando gli italiani sono insieme il sintomo di un malessere terribile, e la causa di altri, peggiori malanni. La scelta di “sospendere la democrazia” svoltando verso un governo tecnico ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi; i vantaggi consistono nel fatto che i partiti di opposizione e la pletora dei sindacati “indipendenti” e delle “società civile”, i quali fiancheggiano le opposizioni, abbaiano un pochino ma se ne stanno sostanzialmente buoni. Anche se una nave affonda a cento metri dalla battigia, ed è appena successo, queste agenzie della protesta non ne attribuiscono la colpa al Governo: Berlusconi non c’è più, e le navi tornano ad affondare autonomamente. In una parola: al primo ministro tecnico si perdona quello che non si perdonerebbe, mai, all’avversario politico.          Lo svantaggio di questa afonia della politica, però, si vede guardando le autostrade bloccate e i forconi agitati in Sicilia: e cioè, che la gente si aggrega in altre forme, difficilmente identificabili, e scatena il suo malcontento, infischiandosene dell’autorevolezza professorale del presidente del Consiglio e di tutti i suoi colleghi. Le immagini di queste ore sono il funerale dell’Europa dei burocrati, e certificano che l’Europa dei popoli è altrove. In questo senso, la situazione appare fuori controllo e difficilmente prevedibile nei suoi esiti.          Che dire di fronte a questa esplosione di blocchi stradali che stanno paralizzando il Paese? Un buon cattolico di sana e robusta formazione direbbe che il disordine non è mai una buona cosa; né nella vita di una singola persona, né nella vita di una società. L’importante è che questo giudizio sia pronunciato sempre, ogni volta che qualcuno si arroga il diritto di impedire a gente ignara e innocente di percorrere qualche chilometro di strada. Ci furono infatti tempi in cui chi invocava ordine e rispetto delle leggi finiva iscritto, senza tanti complimenti, nel grande club dei fascisti, dei reazionari, dei nemici del popolo.          E’ giusto allora ricordare che le manifestazioni di questi giorni hanno, come dicevamo, anche qualcosa d’antico. Nel senso che sono le “nipotine” di una cultura del disordine che in Italia è stata tollerata da tutti, autorità comprese, per decenni.          Sono nato letteralmente dentro una grande fabbrica del nord, e ogni tanto, la mattina, andando alla scuola elementare con la mia brava cartella, incappavo nel picchetto degli scioperanti – visibile a distanza grazie alle numerose bandiere rosse che garrivano nel vento della rivoluzione - che impedivano letteralmente a migliaia di colleghi di entrare in fabbrica; i carabinieri si assestavano a trecento metri di distanza, e non intervenivano, benché il picchetto fosse fatto mettendo un’auto di traverso che impediva di entrare dal cancello dello stabilimento a chiunque. “Possiamo fare qualcosa – dicevano le forze dell’ordine – solo se scoppia qualche incidente fra chi vuole entrare e chi vuole vietarglielo”. Erano i primi anni Settanta. Ecco: questa è la storia del nostro Paese, e queste sono le tessere che compongono il puzzle – tutt’altro che esaltante – dei nostri retoricissimi 150 anni.          Quando oggi vedo pezzi del Paese letteralmente paralizzati da una protesta proteiforme e quasi violenta, non posso non ripensare a quella lunga notte della Repubblica, in cui la violenza e la sopraffazione è stata sostanzialmente legalizzata. E non posso dimenticare tutte le manifestazioni e gli scioperi che negli anni successivi hanno bloccato treni, metro, stazioni, aeroporti, autostrade, strade provinciali e bocciofile di quartiere, nella totale inanità dello Stato e delle sue forze dell’ordine.          Certo, è impensabile che l’autorità costituita oggi assista impotente a forme di protesta che sconfinano nella violenza, anche solo passiva. Ma per favore: che almeno taccia quella parte del Paese che è nata, cresciuta e ha prosperato nella cultura del disordine, della protesta e della sopraffazione corporativa. Solo chi è senza blocco stradale nel suo dna scagli la prima carica della polizia.

Mario Palmaro

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