Non vi può essere “vera conoscenza se non vi è un vero coinvolgimento con la realtà che si vuole conoscere”. Non basta sapere “come stanno le cose”, ma bisogna penetrare il “perché delle cose” e come esse si possano modificare grazie all'iniziativa dell'uomo.
del 15 novembre 2011(function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));
 
          L’ampia prolusione del card. Angelo Scola, arcivescovo di Milano, svolta all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica svolge tematiche e suggerisce spunti di riflessione che riguardano non solo il mondo accademico, ma incrociano il più vasto tema educativo.
Nel suo intervento il card. Scola affronta infatti alcune questioni che ben si inseriscono nell’impegno della Chiesa italiana sul terreno dell’“educare alla vita buona”.
           Mi riferisco a tre punti principali. Il primo riguarda la responsabilità del sapere e della ricerca verso la verità e la sua vitalità in rapporto alla realtà. Senza ricerca della verità non ci può essere educazione: nel migliore dei casi ci potranno essere forme di addestramento più o meno efficaci e preparazione di competenze operative più o meno utili.
          Contro l’imperante funzionalismo che accompagna i discorsi pubblici sull’educazione – formazione del capitale umano, stretta relazione tra gli apprendimenti e le esigenze del mondo produttivo, centralità delle pedagogie proceduraliste – il card. Scola oppone “la conoscenza in senso pieno”, ciò che può avvenire solo se “il soggetto si pone nei confronti della realtà con una sincera apertura e simpatia e non con un atteggiamento equivocamente neutrale”. Non vi può essere perciò “vera conoscenza se non vi è un vero coinvolgimento con la realtà che si vuole conoscere”. Non basta sapere “come stanno le cose”, ma bisogna penetrare il “perché delle cose” e come esse si possano modificare grazie all’iniziativa dell’uomo.
          La seconda riflessione riguarda il carattere “pubblico” della conoscenza e della verità, non soltanto perché l’idea cristiana di verità non è mai separabile dall’istanza missionaria, ma anche e perché il sapere e la persona “educata al bene” non hanno timore – e anzi sono vitalizzati – del confronto con altre opinioni, convinzioni, ideali. “È la dinamica stessa dell’educazione – scrive il card. Scola – che impone la necessità di un confronto a tutto campo e, quindi, per sua natura libero e pubblico, dell’educando con tutti i fattori costitutivi della realtà”.
          Ne scaturisce l’implicito e pressante invito a pensare un’educazione “in grande” capace di promuovere il senso critico, la capacità di giudizio, la libertà intellettuale contro la banalità delle formule standardizzate e il valore attribuito alla presunta neutralità, che in realtà si configura come “un espediente ideologico che priva l’interlocutore della possibilità di un dialogo franco e aperto”.
           Soltanto chi saprà muoversi in questo orizzonte ampio e libero corrisponderà all’invito del card. Newman, richiamato da Scola, di formare credenti capaci di essere “membri della società intelligenti, capaci, attivi”.
           C’è infine un terzo punto sul quale vorrei richiamare l’attenzione: le considerazioni svolte intorno al ruolo del maestro e alla funzione educativa della comunità di docenti e discepoli. Siamo nel pieno del cuore dell’evento educativo: come gestire il rapporto autorità-libertà. Scola prospetta a tal riguardo due ordini di considerazioni.
          C’è innanzi tutto una forte sottolineatura della centralità del rapporto maestro-discepoli. Non ci può essere vera educazione se non c’è esperienza comunitaria e cioè la paziente tessitura di relazioni buone, se non si sperimenta – in altre parole – l’intensità della relazione intersoggettiva come esperienza viva di incontro reciproco.
          “Senza questo consorzio, che nasce da una tensione a comunicare nella libertà doni a talenti distribuiti dallo Spirito, l’umanità di ciascuno di noi svanirebbe, magari celandosi dietro una concezione equivoca dell’oggettività scientifica”.
          Questo stile educativo si manifesta, a sua volta, con una concezione del maestro come “autorità che fa crescere” (Förster) promotrice di una “libertà filiale” che può e deve decidere in forma autonoma, ma che lo può fare solo in grazia dei legami che la costituiscono e che la fanno maturare, e non ricorrendo a ipotesi di senso senza riferimenti affidabili.
          Il vero maestro è allora colui che, ponendosi dinamicamente nel rapporto autorità-libertà, “non ha risposte prefabbricate alle domande dei discepoli, ma insegna loro a pensare, offrendo il suo aiuto a porre domande autentiche e la propria testimonianza di onestà intellettuale”.
          Solo attraverso una positiva azione magisteriale si possono creare le condizioni per neutralizzare i due grandi rischi che minacciano – ben più severamente della drammatica crisi economica – la temperie del nostro tempo: le perdita di memoria e il venir meno della speranza al futuro.
Giorgio Chiosso
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