«la libertà di espressione è il cuore del problema circa il futuro del cyberspazio». Internet è una «rivoluzione», anche per chi vuole tenersene fuori. Ha innovato il modo di lavorare, governare, partecipare alla società. La Rete è un servizio di pubblico interesse, un «bene pubblico globale», un «ecosistema» da proteggere.
del 29 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
 
          Internet è una «rivoluzione», anche per chi vuole tenersene fuori. Ha innovato il modo di lavorare, governare, partecipare alla società. La Rete è un servizio di pubblico interesse, un «bene pubblico globale», un «ecosistema» da proteggere. Nel primo eG8 (Parigi, 24-25 maggio 2011), un forum con ben pochi inviti alla società civile, la presidenza francese intendeva «civilizzare internet» e supportarne l’impiego contro i tiranni. Ma è stata accusata di voler ingabbiare la Rete per proteggere la proprietà intellettuale, cioè di non rispettarne la natura di «spazio pubblico». Ma internet, pur essendo, non pienamente, una e condivisa, non è assimilabile al concetto di diritto romano di res communis omnium. Suoi «territori» essenziali, come Twitter, YouTube, Facebook, pur aperti a tutti (salvo blocchi governativi), sono di proprietà privata, come gli internet providers e molte infrastrutture di telecomunicazione.
          Riguardo alla geopolitica di internet, non è indifferente parlare di utenti, consumatori, cittadini e netizen/cybercitizen, perché si accentua il focus, rispettivamente, sui diritti umani fondamentali, su un rapporto privatistico contrattuale con un’impresa, sui diritti costituzionali all’interno di uno Stato, su un nuovo cosmopolitismo di una comunità transnazionale innestata sulla Rete, che però include anche posizioni anarchiche o utopistiche sulla democrazia in internet.
          Tuttavia sembra difficile distinguere che cosa non rientri nella libertà di espressione. Il Primo Emendamento statunitense e le normative europee in genere tutelano la libertà di espressione anche per i giochi di azzardo online e la pornografia e, quindi, la loro distribuzione globale sulla Rete. In altri Paesi questi «servizi» sono censurati dallo Stato. Così per la satira politica, culturale e religiosa. In diversi Paesi essa è considerata un attentato alle istituzioni o diffamazione o incitazione all’odio e alla violenza. E la Cina, nonostante i filtri del Great Firewall e l’apparato pubblico-privato di controllo e repressione, resta vulnerabile alla «propaganda politica sovversiva» su internet. Esiste un ampio consenso internazionale soltanto per criminalizzare la pedopornografia (ormai ius cogens, norma consuetudinaria a tutela di valori fondamentali e mai derogabile) e l’adescamento di minori online (grooming, con una direttiva dell’Europarlamento che aspetta l’approvazione del Consiglio) e il cyberterrorismo. Anche l’anonimato su internet, difeso dall’Occidente, non equivale al sostegno di criptografia e steganografia (software per trasmettere segreti tramite foto o video «innocui») perché ostacolano l’intercettazione di criminali e terroristi.
          Di fatto i Governi sono sempre più intenzionati ad avere un ruolo incisivo su internet (60 di loro bloccano la Rete ai propri cittadini), anche per difendersi dallo spionaggio industriale e militare e da attacchi online alle infrastrutture dei propri Paesi. Nel frattempo gli Stati Uniti risultano ancora i «custodi della Rete» che hanno lanciato. Barack Obama, che aveva usato intensamente il web 2.0 nella campagna presidenziale, nel suo programma elettorale ha sostenuto una governance nazionale, globale e condivisa della Rete, l’internazionalizzazione di internet, la «neutralità della Rete» (cioè la non discriminazione nell’accesso, anche in base ai contenuti o al prezzo pagato o al tipo di utente). Il suo segretario di Stato, Hillary Clinton, il 21 gennaio 2010 ha presentato, e rilanciato lo scorso 15 febbraio, l’Internet Freedom Agenda. Essa prevede la diffusione, presso gli oppositori politici in Stati autoritari, di sistemi di connessione alla Rete (o per creare intranet tra cyberattivisti) distinti da quelli nazionali, al fine di eludere intercettazioni, blocchi e altre interferenze governative. Per questo l’Internet Freedom Agenda è considerata dagli avversari uno strumento dell’«imperialismo americano».          In parallelo gli Usa hanno, inutilmente, cercato di impedire a Wikileaks di diffondere materiale diplomatico e militare riservato. Con il paradosso che neppure il «criminale» Julian Assange è riuscito a tutelare la riservatezza delle fonti informative. Nel frattempo sono scoppiate le «primavere arabe», catalizzate dai social networks; e Anonymous (una cybercomunità di attivisti anonimi) ha colpito, ad esempio, siti governativi anche italiani o quelli di carte di credito, ha aiutato i cyberattivisti yemeniti ad aggirare le censure governative, e sta aggredendo tramite la Rete gli interessi di un clan di narcotrafficanti messicani.          Lo scorso settembre, il ramo tedesco del «Partito Pirata» svedese (che conta un eurodeputato) ha conquistato il 9% dei voti alle elezioni regionali di Berlino. Il suo programma include la riforma del diritto d’autore, la privacy dei dati, l’anti-censura, la partecipazione politica diretta. Oltre al voto di protesta, quel successo elettorale mette in evidenza almeno tre domande molto pratiche che riguardano tutti: chi garantisce che i miei dati su Facebook e Twitter non scompaiano? Chi può assicurare che il mio account su Skype non sarà bloccato per una nuova politica commerciale degli operatori telefonici privati? Chi assicura che le mie autorità non mi toglieranno l’accesso a internet?          Di recente (1-2 novembre) il Foreign Office ha organizzato la London Internet Conference sulla cybersicurezza. Come sostenuto dalle organizzazioni della società civile, il ministro degli Esteri britannico, William Hague, ha affermato che il libero accesso a internet è un diritto fondamentale. Ha pure dichiarato che «la libertà di espressione è il cuore del problema circa il futuro del cyberspazio», dato che la Rete ha ridotto le distanze tra i politici e i cittadini. Eppure, la libertà di espressione su internet è minacciata in quei Paesi che reprimono gli oppositori politici. «Ma non può essere tenuta dietro le sbarre, non importa quanto sia forte il chiavistello», ha annunciato il capo della diplomazia britannica.***          Il 24-25 novembre a Vienna si è tenuta una conferenza del Consiglio d’Europa (CoE) dal titolo: Our Internet - Our Right, Our Freedoms. Discuterà la bozza, dello scorso 20 settembre, di una strategia del CoE per l’Internet governance 2012-2015 dei 47 Stati membri. La strategia è stata elaborata per proteggere i diritti umani, lo Stato di diritto e la democrazia su internet, e potrebbe essere adottata dal Comitato dei ministri nel gennaio 2012. Il documento è stato pure accompagnato, il 23 settembre, dalla dichiarazione del Comitato dei ministri sui 10 Internet governance principles, che ci auspichiamo possano essere inglobati in un trattato internazionale.          La richiesta di elaborare e formalizzare, in modo giuridicamente e universalmente vincolante, i contenuti dei diritti umani su internet (Rights for the Net) era stata già avanzata da Stefano Rodotà e da altre personalità nella seconda fase del World Summit on the Information Society (Wsis) dell’Onu (Tunisi, 2005). Questo appello è stato recepito all’interno dell’Internet Governance Forum (Igf), una consulta, con diramazioni regionali e nazionali, tra governi, imprese e società civile, che fu istituita dal Wsis ed è convocata annualmente dal Segretario generale delle Nazioni Unite. All’interno del’Igf opera un coordinamento denominato Dynamic Coalition on Internet Rights & Principles. Ha offerto una bozza di discussione sul tema. La versione 1.1, articolata in 21 punti, è stata sintetizzata, lo scorso marzo, in «10 diritti e princìpi»: universalità e uguaglianza; diritti e giustizia sociale; accessibilità; libertà di espressione e associazione; privacy e protezione di dati; vita, libertà e sicurezza; diversità; uguaglianza del network; standard e regolamentazione; governance.          Riprendendo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (artt. 12, 18, 19, 20, 26, 27), è pure intervenuta l’Association for Progressive Communications (Apc), un attore primario della società civile. Essa ha proposto una Internet Rights Charter per la giustizia sociale e lo sviluppo sostenibile. Si specificano 30 diritti sulla Rete; ad esempio, a sviluppare le competenze per usare internet, all’accesso gratuito all’open source software, all’anonimato, alla criptografia, alla libertà dalla sorveglianza e dalla censura, alla governance multilaterale, democratica, trasparente, neutrale (cioè senza favoritismi) della Rete, alle proteste online, alla protezione giuridica, se i diritti sono violati.          Limitatamente al diritto di libertà di espressione, ricordiamo la Giornata mondiale, il 12 marzo scorso, contro la cybercensura, lanciata da Reporters sans frontières; e, il 18 aprile, dopo l’«edizione pilota» del 2009 su 15 Stati, la presentazione di una ricerca sulla libertà in Rete (Freedom on the Net 2011) curata dalla ong statunitense Freedom House su dati pre-rivoluzioni/rivolte arabe. Su 37 Stati — Italia e Russia inclusi, ma senza Corea del Nord, Eritrea, Sudan, Libia — è stata applicata una metodologia basata su tre pilastri: gli ostacoli all’accesso, i limiti ai contenuti (auto-censura, blocco dei siti web, manipolazione dei contenuti ecc.) e le violazioni dei diritti degli utenti (sorveglianza, ritorsioni per i cyberattivisti, come prigione, intimidazioni extra-giudiziali, attacchi informatici). Freedom House sostiene che i controlli e gli apparati governativi si fanno ovunque più sofisticati e, in diversi Paesi, politicamente motivati, quando il blocco dell’accesso avviene in occasione di campagne elettorali o di dimostrazioni di piazza. La Rete non è considerata libera, in ordine crescente di gravità, per Thailandia, Bahrein, Bielorussia, Etiopia, Arabia Saudita, Vietnam, Tunisia, Cina, Cuba, Myanmar, Iran.          Quest’anno inoltre ha fatto notizia il Rapporto di Frank La Rue (A/Hrc/17/27) del 16 maggio. È lo Special Rapporteur «per la promozione e la protezione del diritto di libertà di opinione e di espressione» del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu. Le sue analisi, denunce e raccomandazioni hanno riguardato l’estensione di quel diritto in Rete. Si afferma che internet è indispensabile per realizzare una serie di diritti umani, contrastare le disuguaglianze, accelerare lo sviluppo umano. Quindi, garantire l’accesso universale a internet deve essere una priorità per tutti i Paesi. Anzi, per alcuni Paesi in via di sviluppo, dovrebbe essere dichiarato un diritto costituzionale.* * *          Internet ha i suoi lati oscuri. Si afferma l’esistenza del «dilemma del dittatore», cioè, per avvantaggiarsi dei benefici economici della Rete, i regimi autoritari dovranno rinunciare al controllo sulla libertà di espressione. Ma non sappiamo se le sanzioni attuate (o pianificate) in Occidente per i reati contro la proprietà intellettuale o gli abusi della libertà di espressione, informazione e associazione saranno un esempio di democrazia in Rete. Internet rischia di essere catturata anche dagli interessi economici di un capitalismo sfrenato (più che auto-regolamentato) e irrispettoso delle dignità dell’uomo e del bene comune. Anche le corporations occidentali possono censurare su internet, per esigenze di marketing o in base alle proprie idee, il legittimo esercizio della libertà di espressione in Rete, senza averne l’autorità legale.          Un rapporto commissionato dalla National Religious Broadcasters (NRB), con sede in Virginia (Usa), dal titolo True Liberty in a New Media Age: An Examination of the Threat of Anti-Christian Censorship and Other Viewpoint Discrimination on New Media Platforms, esamina le principali piattaforme di comunicazione su internet. Si conclude che «le idee cristiane e gli altri contenuti religiosi si trovano chiaramente di fronte a una censura».          Ricordiamo, inoltre, un altro diritto fondamentale, che si scontra duramente con i diritti economici dei distributori delle opere d’arte e d’ingegno, pur essendo più facilmente bilanciabile con la semplice tutela del diritto d’autore e della sua equa remunerazione. L’art. 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo afferma: «Ogni individuo ha diritto a prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, a godere delle arti e a partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici». Ma è difficile goderne se i prezzi di acquisto di musica, film, libri, materiale scientifico escludono dalla vita culturale. E il file-sharing tra utenti non può essere sempre e banalmente chiamato furto, visto che anche l’art. 26 afferma il diritto all’educazione.          Tuttavia il diritto alla libertà di espressione è il cuore del problema del futuro del cyberspazio. E come ogni diritto fondamentale, da esercitare responsabilmente, non può essere sacrificato mediante «ingenui» o pretestuosi bilanciamenti con altri valori politici ed economici. La libertà di espressione può essere ristretta soltanto per difendere i diritti fondamentali delle altre persone e nel rispetto congiunto di tre condizioni, come affermato dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (art. 19) e ribadito, il 16 maggio 2011, dallo Special Rapporteur dell’Onu per la promozione e la protezione del diritto di libertà di opinione e di espressione. Ogni limitazione della libertà di opinione ed espressione deve essere prevista da una legge che sia chiara e da tutti conoscibile. Tale norma può essere finalizzata soltanto a difendere i diritti e la reputazione degli altri, oppure la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico o la salute o la morale pubbliche. Infine, occorre provare che tali limitazioni legali siano necessarie e le meno restrittive tra quelle possibili per ottenere il loro scopo.
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