“Già a otto anni volevo diventare "medico d'educazione". I miei genitori mi domandavano: "e che cos'è?" Ed io rispondevo: "Non lo so, ma bisogna che ci sia”... La vicenda umana e professionale di una celebre figura di educatrice e terapeuta. Con una spiccata capacità pratica, F. Dolto ha lavorato tutta la vita con i bambini (e gli adulti).
del 14 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
Françoise Dolto (1908-1986) Una educatrice degli educatori
          Scrivo un ricordo di Françoise Dolto dopo la sua morte (a Parigi il 25 agosto 1986), accompagnata da due sentimenti divergenti: il desiderio di parlarne, sostenuto dalla straordinaria energia che F. Dolto ha alimentato e trasmesso a chi, come me, si occupa di educazione, perché l'energia continui a circolare: e resistenza a farlo per la difficoltà di raccontare in poche parole la qualità della sua pratica terapeutica, del suo pensiero, del suo impegno nella formazione [1].
          Queste pagine non sono la sintesi di un'opera, sono piuttosto una serie di flashes e vorrebbero far nascere il desiderio in chi legge, di saperne di più.
“Medico d’educazione” 
          F. Dolto è nata a Parigi nel 1908, quarta figlia di una famiglia alto-borghese e numerosa. Ricordava sempre come la sua “vocazione” fosse nata proprio nell'ambiente familiare.
          “Già a otto anni volevo diventare 'medico d'educazione'. I miei genitori mi domandavano: 'e che cos'è?' Ed io rispondevo: 'Non lo so, ma bisogna che ci sia”... Alcuni dei miei fratelli erano sensibili alle discussioni che capitavano in casa, all'umore della persona che si occupava dei bambini. Apparivano eruzioni cutanee o qualcuno si rifiutava di mangiare. Mia madre si preoccupava e chiamava il medico che ordinava sempre di far restare il bambino a letto. Io pensavo: 'Se la gente sapesse cos'è successo mezz'ora fa (quel litigio, quell'incidente. quella sgridata) lo lascerebbero in pace; capirebbero che la sua reazione è l'unico modo che aveva a disposizione per manifestare che qualcosa non va nel suo rapporto con la persona che si occupa di lui. Perché mai i medici non capiscono che i bambini si ammalano invece di dire quello che li disturba? All'epoca della guerra del '14 avevo quasi sei anni, osservavo e riflettevo. E mi rendevo conto che anche le reazioni caratteriali degli adulti, le depressioni e le aggressività dipendevano dal fatto che si preoccupavano senza dirlo, del 'comunicato' o del mancato arrivo di una lettera da parte del marito o del figlio al fronte e mi dicevo che il morale influenza la salute più che ogni altra cosa e non capivo perché il medico consigliasse delle medicine” (Informations catholiques Internationales (ICI) 15,2,'74).
          Questa vocazione è stata oggetto di un lungo negoziato coi genitori che non vedevano di buon occhio, per una ragazza, gli studi di medicina. Ha quindi iniziato studiando e lavorando come infermiera. Si è iscritta a medicina a 25 anni. Negli anni di università si è interessata soprattutto della pediatria e si è sottoposta ad analisi. Ha sostenuto la tesi nel '39, appena in tempo per poter essere iscritta all'ordine dei medici e trovare lavoro a Parigi prima del divieto imposto alle donne, durante tutta l'occupazione, di accedere a posti di lavoro “da uomo”. Durante la guerra ha lavorato come medico generico, come pediatra e si è occupata di psichiatria infantile in ospedale. Sotto la guida di Sophie Morgenstern (la prima psicanalista di bambini francese, suicida al momento dell'occupazione tedesca di Parigi) è stata una pioniera della psicanalisi infantile con Jeanne Aubry.
          Per trent'anni ascolta bambini e madri in difficoltà. All'inizio degli anni '70 pubblica la sua tesi e un testo clinico (Psychanalyse et pédiatrie - la sua vocazione! - Seul 1971 e Les cas Dominique, Seuil 1973, tradotti entrambe da Bompiani e attualmente non disponibili); lavori apprezzati dai colleghi, ma che non le danno nessuna notorietà fra i non addetti ai lavori. La notorietà arriva alla fine del decennio, quando le viene chiesto di partecipare ad una trasmissione radiofonica nel corso della quale risponde a domande poste da genitori relativamente alla vita quotidiana coi bambini. A partire da questa trasmissione, mantenuta per cinque anni, Françoise Dolto diventa un personaggio di primo piano della cultura e del mondo dei media (i testi delle conversazioni radiofoniche sono pubblicati in libri di grande diffusione: Lorsque l'enfant parait, voll. I. II. III. Seul 1977, 1978, 1979; trad. it, presso la Emme, attualmente non disponibili).
          Si interessa sempre alle vicende delle istituzioni della psicanalisi e si occupa della formazione dei nuovi analisti. Viene allontanata dalla Società di psicanalisi francese che ne giudica incompatibile l'esplicito impegno politico comunista. Fonda con Daniel Lagache e Juliette Favez-Boutonier la Società francese di psicanalisi dove incontra Lacan, che segue nell’École freudienne. Concorda con la dottrina di Lacan che raggiunge però attraverso un percorso di concretezza; quando affermava di non capire tutto il percorso teorico di Lacan, questi le rispondeva che quanto lui diceva lei lo metteva in pratica e funzionava e questo era l'importante.
Il metodo di lavoro
          Convinta che la garanzia della moralità di un discorso teorico non è il suo riferirsi a dottrine illustri o a valori rispettabili, ma la pertinenza e il riferimento al qui e all'ora, ha caratterizzato il proprio lavoro con lo stretto collegamento fra pratica e teoria, cioè con l'esperienza, propria e altrui. Così è stata fino alla fine. Ai primi di luglio ('88) aveva già rischiato di morire. Ripresasi, ai figli riuniti attorno a lei aveva detto di aver fatto nell'agonia l'esperienza della dipendenza e che ora si sentiva capace di diventare una vera psicanalista per bambini. Una prova della coerenza con cui ha proceduto tutto la vita: provare per capire, subire per afferrare (cf. B. Fappat; Le Monde, 4-5 sett. 1988).
          I suoi scritti, quelli clinici (Le jeu du desir, Seuil 1981;trad. it. Il gioco del desiderio, SEI, Torino 1987; L'image inconsciente du corps, Seuil 1984; Seminaire de psychanalyse d'enfants, Seuil 1982; trad. it. presso la Emme, attualmente non disponibile; La sexualité féminine, Scarabée 1982) come quelli che raccolgono le numerose conferenze e conversazioni, non sono una storia di idee, ma storie di vita dentro le quali il suo apporto teorico appare come la continua apertura dell'impasse (presente) al futuro (possibile).
          F. Dolto ascoltava a partire da una teoria nutrita di riferimenti vari, oltre a quello, fondamentale, a Freud: a Kant, a Wittgenstein, a Leroi-Gourhan, a Lévi-Strauss. Alla ricerca di modi di comunicazione oltre il linguaggio verbale, capaci non solo di “significare” l'esperienza, ma di fare esistere la soggettività (F. Guattari, Le Monde, 28-29.8.'88). “Uno psicanalista non può far niente. Sono le persone che fanno il lavoro. Devono essere convinte che c'è, in loro, uno spirito che si cerca e noi serviamo a capire, con loro, dove sono state le loro prove. Ma non possiamo fornire loro delle protesi... ” (ICI, idem).
          Che il suo ascolto fosse attirato dalle contraddizioni  che i suoi interventi toccassero i nodi di resistenza, che impediscono all’insieme di trovare un equilibrio più soddisfacente, ed individuassero i punti di appoggio che potevano sostenere nel migliore dei modi il peso del passato, è quanto le viene riconosciuto come genio clinico. Lei diceva che la psicanalisi le aveva dato un metodo: “La psicanalisi è un metodo di studio di quanto sta alla base di quello che viviamo attualmente, il risultato di qualcosa che non ha nome, che non è stato detto... Allora questo qualcosa si vive, si vive nel corpo o nel carattere, se non si arriva ad esprimerlo nella parola, questo è il problema! I bambini assorbono gli effetti dei comportamenti familiari, accumulano quanto c’è attorno a loro di relazione non detta e lo esprimono in un ordine - ordine del buon sviluppo fisiologico - se tutto va bene attorno a loro, o in un disordine... Potremmo dire che il bambino è lo psicoterapeuta del gruppo in cui vive. Solo che purtroppo non sempre riesce a cavarsela,..” (Id, idem).
          La funzione del terapeuta ha successo se risulta che genitori e bambino possono crescere come soggetti, gli uni diversi dall'altro, ognuno diverso da come l'altro si aspetta, sviluppando autonomia e responsabilità invece di macerarsi in sensi di colpa debilitanti perché non si fa quello che l'altro desidera. Frequentemente interrogata sull'apparente bizzarria di avere un figlio famoso in tutt'altro modo che la madre (Jean Crisosthome, noto come Carlos, cantante di cabaret), F. Dolto rispondeva: “Perché dovrei meravigliarmi? I figli non ci appartengono!” (Le Monde, idem). “Bisogna che i genitori adottino i propri figli e, purtroppo, molto spesso non lo fanno. Non si ha mai un figlio come lo si è sognato, si ha un certo tipo di bambino e bisogna lasciare che cresca secondo la sua verità: spesso invece facciamo il contrario” (ICI, idem).
Che significa educare
          Negli ultimi dieci anni, quando aveva quasi interrotto la sua attività terapeutica con pazienti, F. Dolto ha impegnato la sua competenza in un'attività di formazione, educazione degli adulti che non ha precedenti. La qualità dell'attenzione, dei consigli e commenti che esprimeva di fronte ai problemi che le venivano sottoposti nel corso delle trasmissioni su France Inter erano apparse agli ascoltatori come un aiuto, un sostegno, un incoraggiamento che alimentavano l'autonomia dell'interlocutore. La gente non tratteneva, dall'incontro, la soluzione di un problema, ma più comprensione e più saper fare. Da allora le richieste di interventi e seminari non avevano cessato di crescere e F. Dolto le accettava, nei limiti del possibile; quando già Apostrophes aveva dedicato a lei sola un'intera trasmissione, rispondeva personalmente al telefono di casa sua.
          Lasciando perplessi alcuni colleghi che giudicavano queste occasioni divulgazioni rischiose o volgari, F. Dolto le considerava occasioni di accesso ad una conoscenza reale. Diceva che l'intervento dello psicanalista è lo smuovere una puntina incantata nel solco di un disco: smuoverla senza per questo intervenire nella melodia che è la vita dell'altro. L'esperienza clinica permetteva di intervenire nello stesso senso anche al di fuori della situazione terapeutica, sciogliendo incomprensioni o malintesi così normali nelle relazioni, soprattutto in quelle che si costruiscono fra genitori e figli, ma che, trascurate e incancrenite, sono alla base di gravi disturbi e patologie nei futuri adulti.
          Nelle situazioni di formazione procedeva per domande e risposte: non ha mai avuto paura o giudicato poco formative le situazioni colloquiali. Anzi, ha sempre valorizzato la presenza e la partecipazione di ogni genitore o educatore con il suo particolare interrogativo. Non si rivolgeva genericamente a un pubblico o a una categoria.
          Il tema di tutti gli incontri è stato l'educazione (La cause des enfants, Laffont 1985, trad. it. parziale Le parole dei bambini e l'adulto sordo, Mondadori 1988; Solitudes, Vertiges 1985, Tout est langage, Vertiges 1987, ecc.). Essa consiste nel riconoscere nell'altro il soggetto di un proprio desiderio nello stesso momento in cui è oggetto delle nostre cure; in particolare in quelle occasioni della vita -  l’inizio e poi i momenti di sofferenza psichica o fisica - in cui chi ci sta di fronte ha particolarmente bisogno di noi o addirittura dipende completamente da noi.
          Quello che caratterizza l'educazione e la differenzia dalla violenza o dall'addestramento è il linguaggio. Non sono i casi della vita, buoni o cattivi (che danno piacere o sofferenza), che possono fare il bene o il male di un bambino o di una persona (cioè costituirlo vivente e in dinamica o paralizzarlo), ma la qualità della parola con cui questi casi sono detti attorno a lui. Non la ricchezza o la povertà, la salute o la malattia, la nascita di un fratello o la morte della nonna, ma l'autenticità della comunicazione che vi si realizza attorno. 'Quello che cerco di fare è fare riflettere i genitori sul fatto che la più grande sofferenza dell'essere umano (anche neonato) è non comunicare con gli altri”.
          I bambini cui si nasconde la morte della nonna (“è all'ospedale“, “è in viaggio”) o di un compagno (“ha cambiato scuola”) si devitalizzano poco a poco perché non hanno le parole per dire dove è la loro sofferenza. Bisogna dire subito la verità, subito perché possano vivere le emozioni allo stesso tempo di tutta la famiglia. Non dire loro quello che succede vuol dire trattarli da animali domestici. Educare i bambini non vuol dire fare loro piacere, ma introdurli da soggetti responsabili nel mondo degli adulti. Il bambino non se ne ricorderà, ma inconsciamente; nel suo modo di percepire le cose, resterà il segno dell'essere stato associato alla famiglia come un essere umano. Perché il soggetto non ha età, è adulto subito, come a vent'anni. Se non abbiamo il coraggio di parlare noi, se ci fa troppo soffrire, possiamo dirglielo: “Mi fa troppo male, noti posso dirtelo io, chiedilo a qualcun altro”, ma indirizziamolo a conoscere la verità. Lo stesso se ci chiede cose che non ci sembrano adatte alla sua età. “Ce lo ricordiamo tutti, quando volevamo qualcosa e ci rispondevano che non era adatta alla nostra età: ce ne infischiavamo dell'età! Il bambino ha l'età del suo desiderio e noi non sempre la conosciamo. Può esprimerlo, e, se è realizzabile socialmente, possiamo dirgli che non lo aiuteremo perché non siamo d’accordo, ma che lui può provare a realizzare quello che desidera” (Tout est language, op. cit.).
La cittadinanza e la religione
          Questa funzione di messa in parola dell'esperienza vissuta non è riservata ai tecnici negli ambulatori o nelle scucile: è una responsabilità diffusa, o almeno dovrebbe esserlo. È il significato che F. Dolto attribuiva al concetto di cittadino e cittadinanza su cui tornava spesso nei suoi discorsi. È un impegno per tutti intervenire nei confronti di un altro per aiutarlo a ritrovare la sua strada senza per questo pretendere di riorganizzare la vita. L'esempio più chiaro è la parabola del buon samaritano: qualcuno che incontra un altro nel bisogno, gli dedica del tempo e dell'energia, e poi va oltre, senza diventare assistente sociale di professione. “Quando hai del tempo e un di più di vitalità, se puoi, dalla a chi trovi sulla tua strada e ne ha bisogno: Ma non strafare; non distoglierti dal tuo lavoro, non cambiare la tua strada. Non farti trattenere da colui che hai salvato. Non vincolarti per la riconoscenza da dimostrare a chi ti ha soccorso, ma fa anche tu lo stesso. Non legarti con il ricordo di colui che hai soccorso. Ricordati che la tua sopravvivenza la devi ad un altro; ama quest'altro nel tuo cuore e, quando te ne si presenta l'occasione, fai anche tu per un altro quanto egli ha fatto per te” (L'Évangile au risque de la psichanalyse, voll. I e II, Jean Pierre Delarge 1977 e 1979, trad. it. presso Rizzoli, attualmente in ristampa).
          F. Dolto, come non nascondeva il suo impegno politico, così non nascondeva di essere cattolica. Anzi, sosteneva che non avrebbe potuto fare il mestiere che faceva se non fosse stata credente.
          “Durante l'analisi, dal momento che si analizza tutto, ci si accorge, effettivamente che quello che si crede essere la fede, in realtà non lo è. Allora si crede di averla persa, ma si perde qualcosa dell'impalcatura culturale. All'improvviso ho capito che quello che io credevo la fede era solo orgoglio di classe, intolleranza, che quello che credevo essere il peccato era solo orgoglio. Quello che la psicanalisi ha scoperto come risorse dell'essere umano e come possibilità di sviluppo, non si oppone al regno di Dio: quello che Cristo ha dichiarato 'in verità” tocca sempre contemporaneamente lo sviluppo fisiologico, affettivo e spirituale: non è possibile raggiungere una meta se non ci si dedica completamente. Occuparci di noi stessi è la peggiore delle cose: 'chi ama la sua vita la perderà'” (ICI, idem).
L'educazione al senso del sacro
          “Si può insegnare a pregare, a chiedere a Gesù - che è un io ideale - di indicarci qual è la nostra verità. Che può essere anche molto sgradevole per chi ci sta vicino: il contrario della morale spicciola che ci invita a piacere agli altri... Se un bambino si sente dire “questo o qui è sacro, non si tocca”, si farà l’idea che il sacro è qualcosa di strettamente adulto, al servizio dell'adulto. Altre volte usiamo il termine 'sacro' per cose che non lo sono affatto: l'amor di patria, l'amore materno...
          Il senso del sacro è il senso di un messaggio oltre l'incarnabile e l’incarnato che viene da altrove. Forse l'invisibile contiene qualcosa del sacro. Si tratta di una ricerca che parte dal concreto sperimentato per andar oltre. Quindi l’ignoto. Il bisogno si chiude sempre sul già conosciuto. Il sacro è portatore di un altrove che non è prevedibile da parte dell'educatore. Nel bambino esso è certamente sostenuto dal senso del bello: armonia estetica e musicale, che il bambino coglie molto presto, già a poche settimane di vita. Sono momenti a cui è molto importante fare attenzione. Quando i bambini, anche molto piccoli, sono affascinati da qualcosa (un'immagine, un'aiuola di fiori) hanno bisogno del nostro rispetto. Le sensazioni di armonia interna hanno qualche cosa a che fare col sacro.
          Un 'opera d'arte, nel silenzio interiore, ci tocca al di là di quello che conosciamo di noi stessi: dobbiamo riconoscere l'emozione di un bambino quando sembra superare quello che ha conosciuto fino allora. Non è necessario parlarne o farne parlare, diamogli piuttosto l'esempio di quanto ci colpisce l'esperienza dell'invisibile che è in noi.
          Parlando di morale e di educazione morale teniamo presente che esiste una morale di tutti i giorni e una morale sacra. Il nostro lavoro di educatori è trasmettere la morale di tutti i giorni, sapendo e dicendo che esiste un 'altra morale che noi non conosciamo. La morale di tutti i giorni - con i ritmi della vita e le regole della buona educazione - è diversa da quella della Bibbia. Pensiamo a Caino e Abele: la Bibbia dice che Dio preferisce il sacrificio di Abele, eppure Caino faticava ed Abele no. Pensiamo ad Esaù e Giacobbe: siamo di fronte ad una morale comune completamente aggirata. Ci appare una vicenda quasi immorale, eppure è l’insegnamento della, Bibbia, una morale sacra. La primogenitura va a chi è più astuto e calcola. È una morale che si capisce a fatica. La psicanalisi spiega qualcosa: la castrazione ci priva del desiderio di continuare a soddisfare i bisogni del momento. Un adulto la pone al bambino quando il bambino, avendo visto un adulto che fa una certa cosa e sta bene, si dice: 'Faccio così anch'io!' Di castrazione in castrazione si arriva a quella genitale: per il bambino sarebbe l'ideale fondersi col proprio modello... ebbene no: quello che la madre e il padre fanno adesso, tu non lo farai adesso, ma dopo, con altri. Adesso accumuli la possibilità, la capacità di fare poi con altri, quello che papà e mamma fanno ora. Neanche loro l'hanno fatto con la loro mamma o il loro papà.
          Fino a un certo punto condividiamo la morale con i nostri figli, ma quella sacra non siamo noi che possiamo inculcargliela, possiamo solo dire loro che esiste e che devono cercarla. E siccome il sacro non è prudente (pensiamo a Gesù), è molto difficile allevare figli. Noi proponiamo loro molti comportamenti 'per il loro bene', ma dobbiamo accettare, in nome della ricerca della loro libertà, del loro sacro, che corrano molti rischi, mentre noi non possiamo che preoccuparci perché li corrono... ” (appunti presi nel corso di un colloquio sull'autonomia del bambino, svoltosi al Centre Thomas More del Couvent Le Corbusier, L'Arbresle, maggio 1980).
Note
[1] La difficoltà non è retorica. Notissima in Francia, F. Dolto è sconosciuta in Italia. Un primo motivo può essere la pratica coi bimbi della psicanalisi, un metodo scarsamente applicato in Italia. Un secondo è la sua appartenenza all’École freudienne di Lacan, che da noi, anche grazie a Verdiglione, ha una cattiva fama. Un terzo motivo è il modo con cui praticava la sua competenza, nel dialogo diretto, nel colloquio, mentre i criteri di “scuola” stabiliscono una maggior distanza terapeuta-paziente.
 
Emanuela Cocever
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