Se la dimensione religiosa è recepita e in qualche modo vissuta, i giovani per lo più, però, la condividono in forma privata, a uso e consumo del singolo: una sorta di «fai da te», senza una specifica identificazione con l'istituzione o la tradizione, lontano da percezioni...
del 12 ottobre 2009
Gli Italiani credono meno nelle istituzioni. Anche la Chiesa viene investita dallo tsunami sfiducia. E i giovani, in cosa credono? Ha ancora senso per loro parlare di Dio.
 
Come si pongono i giovani di fronte alla religione? Il loro bisogno di Dio come viene soddisfatto? Quale religione, quale Chiesa per i giovani?
Secondo l’Istituto di indagine Iard è trapelato che il 70% dei giovani coinvolti tra i 15 e i 34 anni afferma di credere nella religione cattolica. Il 5% (un giovane su venti) dice invece di avere una fede cristiana, ma senza appartenere a una chiesa. L’1% professa altre fedi cristiane. Il 18% ha affermato di essere non credente. In relazione ad altre religioni anche non cristiane, l’82% dei giovani del nostro Paese ha un rapporto costante con il divino, il trascendente, risponde in positivo a una crescente domanda del sacro, mentre l’11% si dichiara ateo e un 6% ha ammesso di non sapersi decidere a riguardo. Queste percentuali farebbero ritenere che una gran parte dei giovani italiani non riconosce come essenziale o importante per la loro vita il fatto di credere o meno in Dio, di essere più o meno sensibili alla dimensione religiosa della vita. Solo il 30% dei giovani la considera necessaria. Inoltre tra molti giovani italiani che dicono di credere vi è la tendenza a credere che esista un Dio, ma ne hanno solo una vaga idea, la persona e la figura di Gesù non è conosciuta in profondità.
 
Una religione «fai da te»
 
Se la dimensione religiosa è recepita e in qualche modo vissuta, i giovani per lo più, però, la condividono in forma privata, a uso e consumo del singolo: una sorta di «fai da te», senza una specifica identificazione con l’istituzione o la tradizione, lontano da percezioni, mediazioni e condizionamenti ecclesiali, a tal punto da rendere arduo ai ministri della Chiesa riuscire a intercettarne la domanda di religiosità che comunque esisterebbe sotto forme diverse nell’universo giovanile. Il fascino esercitato dalla figura di Gesù, o di altri tramiti del trascendente non cristiano come il Budda, tra i giovani resterebbe indubbio. Ma il relazionarsi con la fede cristiana attraverso i modelli tradizionali e formali istituzionalizzati diventa per una certa parte dei giovani difficile, se non fonte di perplessità e frustrazione. Molti sono i giovani che tendono piuttosto a un dialogo o legame con il divino manipolati in una dimensione intima o intimista, alquanto personalizzata, riservata, individuale, privata, avulsa da manifestazioni rituali imposte dal clero o riconosciute ufficialmente da esso. A questa religione «fai da te» aveva fatto riferimento anche Papa Benedetto XVI, durante la XX giornata mondiale della Gioventù, celebrata a Colonia nell’agosto del 2005, invitando i giovani a non cadere in questo gap. Il rapporto con il Trascendente resta valido se l’interlocutore è Cristo e al timone c’è la Chiesa.
 
La preghiera individuale
 
In Italia, l’indagine Iard ha dimostrato che più sensibili a un’esperienza di fede profonda sono le ragazze rispetto ai maschi, e il rapporto con Dio è più sentito nel Sud della penisola e meno nel Nord e nel Centro. Anche se, in questi ultimi anni, i giovani del  Centronord hanno manifestato una sete del divino più accentuata rispetto al passato. Il senso di appartenenza alla religione cattolica è caratterizzato, tuttavia, presso la gran parte dei giovani che si definiscono cristiani cattolici, da un sedimento di spiritualità dai contorni sfumati, non chiari, lontani da una precisa identità ecclesiale e comunitaria. Se il 70% di essi si dichiara cattolico e il 30% attribuisce alla religione molta importanza, solo il 15% tra questi partecipa assiduamente alle cerimonie liturgiche di culto, mentre quasi il 50% riceve solo di rado il sacramento dell’Eucaristia durante le messe. La partecipazione alla preghiera comunitaria può in tal caso far sospettare un calo, anche marcato. A differenza della preghiera individuale, che risulterebbe un appuntamento a cui i giovani non intendono rinunciare: uno su 5 tende a pregare per conto proprio ogni giorno. Il rapporto con il trascendente è dunque vissuto abbondantemente nel privato, senza che intervengano mediazioni da parte di ministri di culto o con riti liturgici.
 
La sfida
 
La Chiesa come «comunità di credenti» non ha nella maggioranza dei giovani ancora molta presa. L’istituzione, la tradizione, il senso della comunità sono dinamiche di religiosità avvertite come estranee, non del tutto ben comprese dalla sensibilità giovanile. E su questo l’attività pastorale di sacerdoti, suore, catechisti e animatori sta lavorando per evitare che l’identità del giovane singolo credente non si smarrisca, non si ripieghi su se stessa. I vertici della Chiesa si propongono di far sì, invece, che il giovane credente possa, pur salvaguardando la sua esigenza di spiritualità interiore e personale, diventare una risorsa della chiesa, un protagonista all’interno di una comunità. Una sfida a cui la Chiesa non può sottrarsi nel ridefinire tra i giovani nuovi e più consoni modelli di adesione comunitaria, attenti alle loro aspettative, senza inficiare il rapporto stretto e diretto con la tradizione e la sfera ecclesiale. Esiste una percentuale di giovani consistente (45%) che ammette di sospendere il giudizio sulla Chiesa, pertanto non la disapprova o rifiuta di primo acchito, e riconosce in alcuni sacerdoti dei punti di riferimento notevoli e apprezzabili. Dati tali presupposti, la situazione attuale appare promettere che tra i giovani e la Chiesa si instaurerà presto un’interazione proficua sull’orizzonte della fede pratica e della ritualità formale collettiva. C’è dunque da sperare che la Chiesa non perda l’occasione di aprirsi all’universo giovanile, accogliendone istanze ed esigenze, e sappia indirizzare e guidare questa fetta di giovani verso una relazione con Dio più vera e profonda.       
 
Una testimonianza
 
A padre Antonio Rovelli, missionario della Consolata, animatore giovanile, nativo della provincia di Lecco, abbiamo posto alcuni interrogativi riguardo ai giovani che lui incontra preso il Centro di animazione missionaria (www.missionariconsolata.it) e la Scuola per l’alternativa (www.scuolaperl’alternativa.it) di Torino. 
 
P. Rovelli, che tipo di rapporto hanno con la religione i giovani che frequentano il vostro Centro?
 
«Ai giovani, noi proponiamo una via alternativa. Chiediamo loro di formarsi per servire i più poveri. Inoltre abbiamo proposte specifiche di carattere religioso per un gruppo di giovani che vengono da noi ogni giovedì sera. Alcuni giovani, tra quelli che frequentano la scuola per l’alternativa, la domanda di Dio non è chiara e diretta, evidente, palese, ma essi dimostrano una notevole sensibilità per i valori della giustizia, della pace, del rispetto dei diritti umani e un’apertura all’«alterità». E dentro questa parola, non esito a intravedere anche alterità come mistero, divinità, spiritualità, cioè un richiamo a una realtà che trascende tutto quello che noi viviamo e ai valori evangelici. Personalmente sono contro un tipo di religione fatalistica, che non dà spazio al protagonismo e al cambiamento della realtà, e tendo ad accogliere l’invito dei giovani o a stimolare in loro il desiderio di non subire passivamente ciò che succede, ma di animarsi di energia e speranza per apportare dei cambiamenti nel mondo che li circonda e nella realtà di tutti i giorni. Un altro settore di giovani, quelli che frequentano il Cam (Centro di animazione missionaria), proviene in genere da realtà parrocchiali, o è aperto alla dimensione spirituale della vita e vorrebbe approfondire il rapporto con il trascendente. I nostri percorsi di formazione sono incentrati sul rapporto tra fede e vita. Molti di questi giovani sono sì battezzati, ma la loro maturità spirituale si è fermata all’acquisizione sacramentale dottrinale e catechistica della cresima. Insieme a noi viene portato avanti un impegno maggiore, a livello di stili di vita fondati sugli ideali evangelici, nutriti dalla lettura del Vangelo e dalla preghiera».             
 
La Chiesa, come istituzione, come realtà ecclesiale, in che modo   viene recepita da essi?
«La Chiesa come istituzione, i nostri giovani la sentono in generale purtroppo molto lontana. Da parte loro, si confonde spesso la Chiesa come solo e semplice gerarchia e clero, un mondo composto solo di vescovi, preti e suore. Alcuni criticano apertamente la gerarchia e il clero, per diversi motivi. Sentono i nostri pastori molto distanti, nel modo di esprimersi e confrontarsi. Vorrebbero una Chiesa più compagna di viaggio, più serva umile, più esposta, più coraggiosa nella difesa dei valori evangelici. Vorrebbero che la Chiesa assumesse più chiaramente le istanze per la giustizia e la pace. I giovani che frequentano il nostro centro sentono molto la dimensione dell’universalità, di una nuova evangelizzazione, ma da parte di una Chiesa che non si chiuda in se stessa, arroccata su posizioni di privilegio o sterile formalismo».
 
Il Vangelo suscita sempre curiosità, interesse, fascino nei giovani che vengono da voi?
 
«Sì! Quando presenti la figura di Cristo, attraverso il metodo della Lectio divina, come un Dio incarnato che si prende cura dell’uomo fino al dono totale di sé, i giovani ne rimangono attratti a 360 gradi. Il Vangelo è la chiave di svolta. Noi proponiamo loro una sequela esperienziale, e loro la condividono appieno; partecipano assiduamente agli incontri, e rispondono positivamente alle nostre sollecitazioni per una conversione di vita coerente con i contenuti del Vangelo».
 
Nicola Di Mauro
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