Una generazione di senza voce

Rompiamo il silenzio dei giovani italiani. Se sei ultratrentenne e la tua condizione, se va bene, è il precariato perenne, c'è poco da fare i conti. La tua vita è già bella e spremuta. E questa, per chi ha ancora un minimo di coscienza civile, ha un solo nome: ingiustizia.

Una generazione di senza voce

da Attualità

del 20 luglio 2010

 

 

Ci sono tanti modi per raccontare la crisi. Possono bastare le cifre, magari inanellate con perizia tecnocratica. Può servire il racconto in prima persona. Possono venire buone le voci degli esperti e dei tecnici che, pur con alterne fortune, non fanno mancare mai la loro opinione e previsione. Può venire utile un sondaggio con i crismi della scientificità.

 

 

Ma questa volta abbiamo pensato che ci fosse qualcuno che questa crisi epocale la sta vivendo sulla propria pelle, con un’intensità forse sconosciuta alle generazioni precedenti, ma il cui silenzio è assordante. Ecco perché, invece di parlare dei giovani e del loro impatto con la crisi, abbiamo preferito dare voce ai giovani. Tutti scrivono di tutto sui giovani, ma ascoltarli no. Noi proviamo a metterci in ascolto.

 

Qualche tempo fa avemmo modo di scrivere che c’è un’autentica bomba sociale pronta a esplodere: due milioni di giovani italiani fra i 16 e i 29 anni non lavorano, non studiano e non si aggiornano (dati Istat). Nel corso di un dibattito pubblico è capitato di offrire questa riflessione alla valutazione di uno scrittore come Erri De Luca che ha vissuto in prima persona la ribellione sessantottina sino agli esiti nefasti degli Anni di piombo.

 

La sua risposta è stata senz’appello: impossibile una nuova esplosione sociale, non ci sono le condizioni. Non che la realtà non offra elementi di seria preoccupazione, ma sono totalmente cambiate le circostanze, prima fra tutte l’attuale irrilevanza dell’Italia sullo scacchiere geopolitico che allontana i rischi dal nostro quadrante geografico. In sostanza, l’Italia degli anni Sessanta/Settanta era il crinale su cui si confrontavano i grandi blocchi in un contesto internazionale segnato dalla Guerra Fredda. Qui si combatteva, anche con lo spargimento del sangue, un conflitto sociale che era eminentemente politico.

 

Un’analisi stringente e a suo modo rassicurante, perché dovrebbe tranquillizzarci sull’uscita democratica dalla crisi in cui viviamo. Ma è esattamente così? Quanto bisogno ci sarebbe, nel nostro Paese, di un’opposizione sociale? Magari un’opposizione sociale responsabile, tale da non farci correre brutte avventure, ma pur capace di immettere nel discorso pubblico parole e progetti nuovi. In fondo, non si può chiedere ai giovani di sognare l’insognabile, ma non li si può neanche illudere nella prospettiva del tirare a campare che sembra il marchio distintivo delle nostre classi dirigenti. Tutte in attesa che qualcuno (i tedeschi, gli americani, i cinesi?) o qualcosa (una scoperta scientifica rivoluzionaria o una più banale innovazione tecnologica) venga a tirarci fuori dai guai.

 

Ora, proviamo ad ascoltare i nostri giovani. Può darsi che in pentola stia bollendo qualcosa di cui noi non abbiamo neanche lontanamente il sentore.  A proposito di tirare a campare, ci sembra che anche per i nostri giovani, non valga più il detto “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Molti (troppi) di loro… le cuoia se le sono già belle e giocate. Se sei ultratrentenne e la tua condizione, se va bene, è il precariato perenne, c’è poco da fare i conti. La tua vita è già bella e spremuta. E questa, per chi ha ancora un minimo di coscienza civile, ha un solo nome: ingiustizia.

 

Domenico Delle Foglie

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