UNIONE 1. La via mariana

Che significa unione? Che significato cristiano può avere questo traguardo di tutti i metodi di meditazione inventati? Infatti ininterrottamente la meditazione cristiana ha fatto propri i tre gradini neoplatonici del cammino verso lassoluto: «via della purificazione», «via dell'illuminazione» e «via della unione».

UNIONE 1. La via mariana

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Che significa unione? Che significato cristiano può avere questo traguardo di tutti i metodi di meditazione inventati? Infatti ininterrottamente la meditazione cristiana ha fatto propri i tre gradini neoplatonici del cammino verso lassoluto: «via della purificazione», «via dell'illuminazione» e «via della unione». E che questa ultima via sia stata anche lo scopo di tutto lo sforzo di Gesù Cristo lo mostra chiaramente la sua preghiera sacerdotale: «Affinché essi siano uno, come noi, Padre, siamo uno... Io in loro e tu in me» (Gv 17,22 ss.). Questo rimanda a una forma dell'unione che, supera certamente l'essere-di-fronte e l'essere-per-l'altro dialogico tra Jahwe e Israele nell'Antico Testamento. Che la creatura in quanto tale non possa diventare Dio lo sa ogni cristiano e deve saperlo anche ogni mistico cristiano, qualsiasi linguaggio unitivo egli possa fare proprio. Altrimenti la creatura diventerebbe il proprio creatore e, ancor più problematico, diverrebbe il proprio redentore. Ma come si può superare questo essere-di-fronte senza cadere in questa impossibilità? Dovremmo accontentarci dell'illusione di un'unità della coscienza con Dio in cui la creatura si sentirebbe talmente sprofondata in Dio da perdere la conoscenza della differenza, che tuttavia essenzialmente rimane e alla quale necessariamente ritorna dopo l'esperienza unitiva? Oppure questa differenza tra la coscienza e l'essere può essere superata ancora in altro modo? L'interrogativo è decisamente importante per la meditazione cristiana, pur astraendo dal suo dialogo con altre forme di meditazione, che non includono una concezione della creazione e della redenzione e che perciò possono lavorare direttamente verso una esperienza di unione intesa perfino quale massimo criterio della verità dell'essere.

 

Non è possibile dare una risposta cristiana a questo interrogativo se non partendo dal mistero trinitario che domina tutta la religione cristiana. Infatti senza di esso non ci sarebbe una dottrina su Cristo, né sulla redenzione, né sulla Chiesa, né sullo Spirito Santo, né sui sacramenti, né sulla comunione dei santi, né sulla vita eterna. Ma il mistero trinitario ci dice ciò che per la nostra ragione è incomprensibile: che

 

[Si potrebbe sempre, prima di affrontare una soluzione cristiana del problema, preporre una considerazione generale pre-cristiana sulla natura umana, di cui i Padri greci hanno fatto continuamente uso per illuminare un poco il mistero trinitario e quello cristologico-ecclesiale. Come stanno dunque le cose circa l'unità della natura umana che esiste pur sempre soltanto in persone distinte? L'unità è perfetta; ogni uomo è uomo al cento per cento, e lo è anche l'handicappato mentale e chi ha un'amputazione. Ogni uomo ha la stessa costituzione corporea, che è anche l'ovvio presupposto di una medicina umana. Egli ha inoltre una struttura dell'anima fondamentalmente uguale, il che permette una valida e generale psicologia, e tuttavia le persone umane sono ognuna per sé e di fronte alle altre unità contrapposte. Questo ha colpito talmente un greco come Gregorio di Nissa che egli pensò di poter prendere l'unità della natura e la differenza delle persone umane come valida immagine della Trinità. I teologi gli rimproverarono ciò perché l'unità della natura umana sarebbe «astratta» dai singoli individui, mentre in Dio essa deve necessariamente essere compresa come «concreta», poiché altrimenti noi poniamo tre dei contrapposti l'uno all'altro. Questo è naturalmente esatto, ma non coglie il concetto di natura di Gregorio e neanche degli altri Padri greci, per i quali, per esempio l'incarnazione di Cristo influisce già, in quanto tale, su tutta la natura umana (santificando, «divinizzando»). Gregorio di Nissa usa volentieri per la natura umana l'immagine della «pasta» (phyrama) che nella sua totalità è «lievitata» da Cristo, oppure quella del corso d'acqua che scorre dalla fonte, da Adamo ed Eva, attraverso tutte le generazioni per fecondità sessuale in una continuità non solo «concettuale» ma reale ovvero fisica. Non si tratta qui tanto della continuazione dei pensieri platonici («unità ideale») quanto piuttosto di pensieri stoici, secondo i quali il Logos è sia spirituale che materiale. Quando leggiamo in Is 58,7: «Vesti l'ignudo e non disprezzare la tua carne», allora possiamo comprendere meglio il punto di vista dei Padri greci. Essi non negano con ciò che lo spirito personale di ogni singolo discenda da Dio. Possiamo comprendere benissimo questo aspetto naturale del rapporto di sostanza e persona come un primo e indispensabile preannuncio di ciò che - oltre la considerazione del mistero trinitario e cristologico - ci potrà condurre alla comprensione del corpo mistico di Cristo e ai molti misteriosi aspetti della «comunione dei santi». Senza questa mediazione teologico-cristologica questo pensiero rimarrebbe pre-cristiano nella misura in cui l'accentuazione dell'unità fisica della natura umana impedisce una compiuta comprensione dehunicità e dignità della persona. Ciò diventa evidente a partire dalle religioni pagane e monoteistiche non-trinitarie come pure dal comunismo ateo post-giudaico e post-cristiano e dalle analoghe ideologie umanitarie(«occidentali»).]

 

 

 

Dio è uno (una «sostanza», dicono i teologi) ma appunto vivente e amante per il fatto che in Lui le ipostasi (le «persone») del Padre generante, del Figlio generato e dello Spirito Santo che procede da entrambi sono una di fronte all'altra. Il mistero si svela per noi un poco solo a partire dalla figura di Cristo che non solo come uomo posto di fronte a Dio ma come totalità, dunque anche come eterno Figlio del Padre, lo prega e lo interpella con «tu», sebbene possa dire contemporaneamente: «lo e il Padre siamo uno» (Gv 10,30). E: «Affinché sempre più riconosciate che il Padre è in me e io sono nel Padre» (Gv 10,38). A questa unità non si oppone la differenza nella quale egli riconosce «l'essere più grande» del Padre (Gv 14,28), nella misura appunto in cui il Padre è origine del Figlio, che prima ha sottolineato la sua unità col Padre, una unità originaria impensabile, poiché il Logos dalla origine era presso il Dio generante. P- perciò estremamente buono e positivo sotto ogni aspetto che in Dio stesso esista un'alterità, in forza della quale Dio innanzitutto è interiore e infinita vita di donazione e perciò anche ha la libertà di creare il diverso da sé, che a sua volta ottiene da lui la bontà dell'essere diverso da lui.

 

Ma ottiene solo questa bontà della diversità e non anche la partecipazione all'unità interdivina? La mistica cristiana primitiva si è appoggiata fortemente sulla «immagine» di Dio impressa nello spirito creato, che attraverso purificazione e meditazione, attraverso il procedere nella propria interiore profondità può essere purificata dalla sporcizia depositata dal mondo ed essere condotta a brillare. Essa ha poi aggiunto quasi impercettibilmente il secondo passo: che noi siamo immagine solo nell'immagine originaria, che è il Figlio. A partire da qui due vie sono possibili: che attraverso la meditazione ci possiamo trasferire nel luogo del Figlio, che è sia la nostra immagine originaria, così come egli pure la contiene (come il mondo delle «idee» di tutte le singole cose). Ma è questa via veramente percorribile se non ci è aperta dall'immagine originaria in libera grazia, e la concreta forma di questa grazia non è appunto l'incarnazione del Figlio, che così diventa per noi Via, anzi ancor di più: Vita e Verità?

 

Se è vero che cristianamente il «ritorno» all'Idea, che è il Figlio, si apre sulla base della sequela dell'Incarnato e mai sulla base di un rifiuto di questa, per innalzarsi in un mondo delle idee puramente spirituale, allora appare in piena e focale luce il «luogo» personale della incarnazione: la vergine-madre Maria. E con ciò la «via della unione» perde ogni astrattezza, ogni stravaganza e fuga dal mondo. Infatti la unione che l'uomo cerca si offre ora proprio inversamente nella incarnazione del Figlio.

 

E così il misterioso processo nel grembo di Maria diventa qualcosa di comparabile - nel mondo - al mistero interdivino. Certamente il «seme» del Padre immerso dallo Spirito Santo nel grembo della Vergine non è identico con la sostanza della madre. Tuttavia questo «seme» si nutre esclusivamente della sua sostanza per diventare colui che a pieno diritto sarà chiamato suo figlio. E ciò che fisiologicamente avviene in lei - l'offerta della sua sostanza corporea che diventa sostanza del figlio - si realizza contemporaneamente e non successivamente, ma perfino anteriormente nel suo spirito («prius concepit mente quam ventre»), che si dona in pieno abbandono al figlio - vero modello di meditazione cristiana - che le fu annunziato come «Figlio dell'Altissimo» e che dunque è il suo Dio. La sua totale sostanza spirituale e fisica è a disposizione della formazione del suo bambino, ma in questo dono non si impoverisce, ma viene arricchita da lui nella misura in cui si dona. Anzi questo arricchimento deve perfino essere l'elemento primario in questo scambio (questo afferma il detto dell'Immacolata concezione) poiché le deve già essere stato dato in pienezza di potersi donare in tale pienezza.

 

Sarà difficile inserirsi nella totale semplicità della sua meditazione, che proprio nella sua indivisibilità in singoli momenti è così incommensurabile. Ella si sa completamente espropriata verso il figlio e acconsente pienamente a questa espropriazione e insieme sa che dal figlio, da Dio, riceve in proprio un'esistenza unica che la pone - lei che è solo un'umile ancella - in una impensabile altezza presso Dio Padre, insieme al quale avrà lo stesso figlio. L'inimmaginabile di questa contraddizione non lo vuole neanche pensare fino in fondo; l'unico effetto che il mistero unito al suo essere produce è di sollecitarla a una donazione più alta e più semplice. E appunto così le viene data una nuova sovrabbondanza di grazia. Ma da questo cerchio non viene attirata in un mulinello, ma nel silenzio rimane la serva a tutto disponibile.

 

Questo tanto più in quanto la nuzialità che si realizza in lei in un primo momento non interessa tanto lei quanto (come dicono i Padri) consiste nello sposalizio della natura divina con quella umana. Lei è solo l'occasionale luogo in cui si realizza questo evento, la pienezza del Patto. L'identico evento - cosi deve pensare - si sarebbe potuto compiere in qualsiasi altra donna, in ogni altra più probabilmente che in lei. Vista così questa nuzialità appare quasi impersonale o, se si vuole, universale: infatti attraverso la discesa del seme divino nella sostanza umana, del lievito divino nella pasta umana, la totalità della natura umana è lievitata, santificata. Ma ella non può soffermarsi a lungo in questa anonimità: il raggio di luce ricade su di lei, la «piena di grazia» e lei si sa isolata, in quanto persona, dalla sostanza umana: «Egli ha guardato alla bassezza della sua serva; ecco da ora tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48). Non può sfuggire a questa luce e non lo vuole neanche. Tentarlo contraddirebbe la sua umiltà.

 

Dio si è scelto lo strumento che gli è piaciuto scegliersi e lo strumento non ne ha nessun merito. Ma come strumento e «camera nuziale» lei è nonostante tutto la sposa. Maria è così fortemente coinvolta in ciò che avviene in lei, che attraverso il suo semplice e modesto si ella prende il Posto di tutto il genere umano. In lei tutta la fede e l'obbedienza veterotestamentaria dal tempo di Abramo si riassume e si realizza. Cosi attraverso la sua semplice disponibilità alle nozze umano-divine è coinvolta pienamente nella loro realizzazione.

 

Qui si apre un cammino che invero rimane inimitabile. ma sul quale è tuttavia possibile una certa sequela. «Chi fa la volontà del Padre mio, costui mi è fratello, sorella, madre» (Mi 3,25). Questo è molto più che un modo di dire immaginifico. Certamente include l'evento ecclesiale e anche personale di cui parleremo in seguito. Ma prima di tutto c'è una vera analogia. Il Figlio di Dio vuole prendere forma umana da tutti e in tutti coloro che gli somigliano come fratelli e sorelle nella misura in cui come lui stesso si consacrano a fare la volontà del Padre. «Ah, potesse solo il tuo cuore diventare una mangiatoia, Dio diventerebbe di nuovo bambino su questa terra!». «Se Cristo nascesse mille volte a Betlemme e non da te, rimarresti perduto eternamente!» (Angelus Silesius). Perché il nostro cuore diventi un presepe, ciò esige una disponibilità che, senza una pur rudimentale meditazione, non può costituirsi.

 

E cosi si apre una semplicissima porta per penetrare nei misteri più profondi della meditazione. Come Maria pensa-a ed è semplicemente dedita al suo bambino, e in ciò indivisibilmente da lui riceve e a lui dona, così la nostra meditazione è un essere-rivolti a lui: non penso neanche un attimo di saltare la distanza fra me e Cristo, e tuttavia c'è la certezza di una sostanziale unione. L'essere-rivolta verso il bambino da parte di Maria è essenzialmente una preghiera, non importa se tematicamente pensata. espressa in parole o taciuta, abituale. L'essere-rivolta-a come preghiera accompagna ogni suo atto terreno: attingere acqua al pozzo del villaggio, cucinare, pulire: nulla disturba la sua dedizione. Noi non siamo «pieni di grazia», necessitiamo dei nostri espliciti tempi di meditazione per giungere, per quanto possibile, alla abituale dedizione al Signore, che vuole crescere in noi.

 

Ma di una cosa dobbiamo qui ricordarci: che Maria nel generare il bimbo-messia non solo incarna in sé tutta la fede dell'antico patto ma anche ciò che nella storia d'Israele è stato vissuto come una speranza e un'aspettativa dolorosa, come «doglie messianiche». La donna dell'Apocalisse «grida nelle sue doglie e nei suoi dolori del parto». Israele ha dovuto gridare abbastanza, e anche se Maria certamente non ha «gridato» nel suo avvento, tuttavia non le furono risparmiate le angosce che deve provare una terra quando deve generare un cielo. In ciò ella è ricapitolazione d'Israele e fino alle soglie della nascita, che alla fine dovette essere senza dolore, perché il trapasso dall'antica alla nuova e compiuta alleanza non è «opera» del vecchio patto, ma solo il miracolo della grazia del nuovo. E il nuovo non è neanche lasciato alla sollecitudine del vecchio, ma «suo figlio fu rapito verso Dio e il suo trono, ma la donna fuggì nel deserto» (Ap 12,5 ss.). Destino di colei che, riassumendo l'antico patto genera il nuovo, il quale si distanzia dalla madre verso il Padre nella misura in cui lei incarna l'alleanza carnale - «Donna, che ho da fare con te?» - e la respinge in un deserto spirituale della contemplazione. Un deserto nel quale da lontano, solo pregando e meditando, può seguire il cammino del Figlio che finisce sotto la croce, dove il figlio la cede definitivamente al discepolo che la accoglie «presso di sé», nella Chiesa, di cui sarà da allora centro e immagine, come Chiesa nel deserto di questo tempo.

 

Non vorremmo certo affermare che le innumerevoli immagini della Madonna hanno torto quando ci presentano la madre che tiene il bambino, lo nutre, lo accarezza, gioca con lui, ma esse rivelano solo un frammento della contemplazione mariana. Esse mostrano qualcosa di molto importante, di spesso dimenticato: che il misterioso dialogo all'interno dell'unica sostanza durante i nove mesi non è interrotto o anche solo diminuito dopo la nascita del bimbo. Il mistero continua inalterato- anche il ragazzo che abbandona incomprensibilmente la madre, anche l'uomo che si allontana da lei rimane il frutto del suo corpo, non solo, ma anche della sua fede e del suo amore. Il dialogo all'interno dell'unità dell'essere continua, anche se in una solitudine esteriore e dolorosa, nella «cameretta» di Nazareth, mentre Gesù attraversa il paese predicando. Ma durante questa contemplazione la sua spada, che trapasserà definitivamente il più profondo del suo cuore sotto la croce, è continuamente all'opera nella sua anima.

 

Tutto questo è di importanza decisiva per la meditazione mariana e dunque per ogni meditazione cristiana. Ciò che noi contempliamo - Gesù in uno dei suoi misteri - non è di fronte a noi, ma già da sempre dentro di noi, infatti «Cristo vive per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,16). Ma partorire lui, il già presente, nella meditazione, può esigere qualcosa come «doglie messianiche», e questo assai normalmente. Proveniamo infatti, in un senso molto più tangibile che non Maria, da un «vecchio patto» peccaminoso, sempre di nuovo alienato da Dio. Il «lavoro» della generazione del nuovo non ci è risparmiato: un affaticarsi spirituale che conosce la propria necessità e contemporaneamente la propria ultima inutilità, perché il salto verso il «trovare» - come dal peccato originale alla immacolata concezione - non può essere merito ma solo pura grazia. E Dio solo conta i mesi della nostra fatica e ci dona il frutto quando vuole, oggi, domani, fra un anno.

 

E sul cammino mariano i tempi di intima umana pienezza non sono neppure menzionati, ma solo due cose: che il dragone è in agguato già da sempre di fronte alla donna per ingoiare il bimbo e che questo è rapito verso Dio. La donna è fuggita nel deserto, dove è sostenuta da Dio, ma rimane costantemente esposta davanti al dragone con la sua «grande ira» ' La minaccia sulla donna, ora diventata Chiesa, poiché ha altri figli che «hanno i comandamenti di Dio e la testimonianza (di sangue) di Gesù» (Ap 12,17) continua e deve necessariamente anche influenzare la meditazione di questi altri figli, che siamo noi. Questa rimane meditazione nel deserto, qualsiasi forma il deserto possa assumere: persecuzione dei cristiani o solitudine carmelitana oppure semplice quotidianità profana. Essa perciò non può contare semplicemente su un rapimento al terzo cielo o su un anticipo della beatitudine o perfino aspirarvi, ma dentro il deserto minaccioso donarsi al bimbo in modo sempre e nuovamente mariano, per essergli «fratello, sorella, madre».

 

La meditazione cristiana non tenterà di sottrarsi al mondo per penetrare in qualche paradiso entusiastico, ma come Maria, cercherà di seguire pregando il cammino di Gesù, per lei imperscrutabile, spesso incomprensibile, ma sempre pronta a ripercorrere questo cammino quando c'è bisogno di lei: sotto la croce. Esiste certamente in questa meditazione una pienezza, ma non isole idilliache, perché anche sugli anni giovanili di Gesù incombe la profezia di Simeone «Una spada trapasserà il tuo cuore» e, dopo le affermazioni del dodicenne Gesù, la più profonda ombra dell'incomprensione. Strano incrociarsi di terra fertile e di deserto, sperimentato nell'incrollabile pazienza dell'ancella del Signore, che non è deviata dalla pista della sua obbedienza di fede da nessuna visione insufficiente, da nessun rifiuto, da nessuna parola di diniego del figlio. Se la vita del figlio è descritta come kenosis sempre più profonda, così anche la vita della madre ne è il fedele contrapPunto.

 

Si potrebbe qui ancora porre la domanda se Maria può condividere la consapevolezza del Crocefisso di sostenere davanti al Padre il peccato del mondo (dal quale non si vuole distanziare). Sembra che lei - non toccata da alcun peccato - non possa sperimentare nulla di ciò che l'esercitante cristiano medita nella prima settimana degli esercizi: il proprio peccato nell'orizzonte del peccato del mondo che deriva da Lucifero e da Adamo. E tuttavia bisogna rispondere che ella riconosce la verità del peccato nel suo effetto sul figlio, anzi ancora di più: nel modo in cui il figlio deve portarlo e rivelarlo davanti al Padre. Ella riconosce la verità del peccato più profondamente di quanto mai un peccatore potrebbe farlo, neanche nei suoi «colloqui col Crocefisso», che non possono mai arrivare al punto dove la piena verità e il totale peso del peccato sono misurati. La Mater Dolorosa non patisce invero le sofferenze fisiche del figlio inchiodato in croce, ma soffre più profondamente in ciò che gli procura l'insopportabile dolore dell'abbandono di Dio. In ciò esperimento più seriamente di ogni peccatore le sofferenze della «prima settimana».

 

Tutto ciò ci conferma il tema accennato all'inizio: di un dialogo nell'interiorità, che silenzioso è già da sempre al di là di ogni semplice conversare: nell'unità della sostanza data e accolta, quando il poter dare contiene tutto lo spazio tra maternità e adorazione. Infatti mai dimentica la madre che il suo bimbo è il figlio dell'Altissimo, sorto in lei per la potenza dello Spirito Santo. E non si può suddividere unilateralmente la maternità dalla parte della umanità di Cristo e l'adorazione dalla parte della divinità. Entrambi gli aspetti si compenetrano, poiché il poter-dare materno di Maria si unisce con l'eterno dono di sé del Padre, ma il suo rapporto col divino non la traspone in una semplice alterità al di là del rapporto madre-figlio.

 

Per la meditazione cristiana tirare le conseguenze da tutto ciò supera certamente le possibilità di espressione. Indicativamente si può dire che l'interiorità del nostro rapporto con Cristo abitante in noi, in cui il semplice percepire verbale si approfondisce in un intendere oltre le parole, non deve mai separarsi dalla sobrietà del servizio ancillare e dalla povertà del deserto. In questo ci possono essere oasi di consolazione, nelle quali ci riposiamo con gratitudine, ma il paesaggio desertico che dobbiamo attraversare con pazienza è più grande. Ma non per questo dobbiamo equiparare il deserto apocalittico con ciò che usualmente è chiamata «desolazione» (mancanza di sole), perché il sole nel deserto può anche disseccare e il fiume d'acqua sputato dal drago, a cui forse ci vorremmo ristorare, è inghiottito misericordiosamente dalla terra (Ap 12,15 ss.) prima che ci raggiunga e ci travolga. In tale situazione è importante non dimenticare che ci troviamo su un cammino mariano e che il mistero che si nasconde in noi, e per noi e in noi vorrebbe crescere, lo dobbiamo curare con donazione sia materna che adorante.

 

Hans Urs Von Balthasar

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