Compito del teologo non è di aumentare il numero della affermazioni e delle conoscenze, ma saper negare, facendosi quasi garante dell'insufficienza di ogni ragionamento, di ogni esperienza, di ogni percezione. Occorre compiere un'opera di purificazione delle immagini divine. Dio è al di là di ogni immagine.
del 14 novembre 2006
Il silenzio conosce mille volti, può essere ignorante, ascetico, penitenziale, meravigliato, mortificante, amoroso, ambiguo. Nella teologia si possono distinguere tre forme principali: il silenzio che fa tacere su-Dio, forma privilegiata per non dire ciò che si vuole dire (Is 45,15: «In verità, tu sei il Dio nascosto»), il silenzio con-Dio, tensione della comunicazione orante (Sal 27,7: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui») e il silenzio di Dio, in cui egli si ritira e sembra abbandonarci (Sal 28,1: «Non restare in silenzio mio Dio»). Il primo fa dire “non so” e riguarda la conoscenza, il secondo fa dire “non riesco” e anima la preghiera, il terzo fa gridare “non ci sei!” e angoscia l’esistenza. I primi due possono perciò essere interpretati come santi, mentre il terzo è tenebroso e può frantumare la fede.
Poiché ho già considerato il terzo in un precedente articolo (cf. Settimana 16 marzo 2003), vorrei qui soffermarmi sul primo, lasciando ad un eventuale approfondimento il secondo. Per silenzio intendo qui il limite conoscitivo, il Deus absconditus, tema dai molti aspetti che attraversa la storia del pensiero. I teologi danno a volte l’impressione di non amare molto il tema del silenzio, preferendo isolarlo oppure relegarlo nell’ambito della mistica e della spiritualità.
La nostra cultura dà molta importanza alla parole, alle immagini e alle azioni, eppure ognuno di questi campi ha un suo limite. Chi non conosce la fatica di trovare le parole giuste, di interpretare e difendersi da un’immagine invadente, di produrre un’azione compiuta che raggiunga il suo scopo? Le parole, le immagini e le azioni, che non si vogliono certo sminuire, costituiscono, inoltre, un terreno di potenza. Se è vero che solo pochi uomini possono contare su un numero adeguato di vocaboli con cui sapersi esprimere, su una visione che catturi l’oggetto o su un patrimonio di gesti in grado di imporsi, il silenzio è la ricchezza di tutti. È sempre lì, disponibile, innocente, patrimonio del povero e dell’indigente.
 
La tradizione apofatica
Nei detti dei padri si racconta che alcuni monaci navigavano sul Nilo per andare a trovare il famoso padre del deserto Antonio. Un vecchio a loro sconosciuto li accompagnò nel loro viaggio. Questi monaci, per passare con profitto il tempo, cominciarono a predicare a turno, raccontandosi i detti dei santi ed edificandosi a vicenda con ammonimenti spirituali tratti dalla Scrittura. Il vecchio, invece, guardava l’acqua del fiume e restava in silenzio. Giunti a destinazione, il padre Antonio si rivolse al vecchio dicendogli se aveva avuto una buona compagnia durante il viaggio. Al che il vecchio finalmente aprì bocca e disse: «Sono buoni, sì, ma il loro cortile è senza cancello, chiunque può entrare nella stalla e portarsi via l’asino». E disse questo perché buttavano fuori tutto quello che veniva sulla loro lingua.
In un’epoca contrassegnata dalle grandi dispute teologiche in Oriente con riflessioni cavillose (il bizantinismo) e dai grandi passaggi commerciali fra le due parti dell’impero, il monachesimo cristiano eleva a simbolo il deserto, l’immersione nel religioso silenzio, metodo di preghiera e scelta teologica. Il tema lo si trova spesso sulla bocca dei monaci. Barsanuffio ironizza contro la teologia verbosa, scrivendo: «A riguardo della parola, quando ti vedrai diventato quasi-teologo, sappi che il silenzio è più meraviglioso e più gioioso della teologia». Isacco il Siro consiglia invece: «Ama il silenzio più di tutto, poiché esso ti avvicina al frutto: la lingua infatti è impotente a spiegarlo. Prima di tutto, costringiamoci a tacere, e allora dal silenzio nasce in noi qualcosa che ci conduce al silenzio stesso. Dio ti conceda di percepire qualcosa di ciò che nasce dal silenzio. Se cominci con questo modo di agire, io non so dirti quale luce sorgerà in te da questo».
Questa soluzione sta alla base di quella corrente teologica nota come apofatica – dal greco apóphemi, che vuol dire “negare” – ed è quindi nota anche come via negativa. Secondo questa teologia nessuna parola, nessuna immagine e nessun fare possono essere in grado di comprendere ed esprimere il divino. L’esito è il riconoscimento del silenzio come via perfetta per accostarsi al trascendente. In molti autori esso confluisce in un silenzio mistico che non è il vuoto assoluto, non sbarra ogni porta comunicativa, ma una via che apre spazi inesplorati. Se Dio è il silenzio è nel silenzio che lo si incontra.
La corrente apofatica non può essere ridotta ad un unico paradigma. Presente già nella filosofia indiana delle Upanishad, essa attraversa la filosofia greca più arcaica per giungere al neoplatonismo plotiniano. In rapporto al mistero divino, il suo nucleo può essere trovato in un passaggio del Parmenide di Platone: «L’Uno né è uno né è» (141e). Ne consegue il fallimento di ogni percorso intellettivo, discorsivo, visivo. Il suo maggior esponente greco fu però Plotino († 270) che, pur presentandosi come un commentatore di Platone, compie un passaggio ulteriore sostenendo l’assoluta trascendenza dell’Uno, che è oltre l’essere stesso (me-ontologia). Per questo è inconoscibile e impronunciabile. Plotino si accorge della contraddizione perché, in effetti, sta parlando di ciò di cui dice che non si può parlare; riporta allora un’altra frase che percorrerà la corrente apofatica: «Diciamo ciò che non è e non ciò che è» (Enneadi, V, 3, 14).
I padri cristiani hanno praticato una teologia positiva, partendo dall’assunto che l’absconditus è divenuto il revelatus in Cristo; tuttavia non dimenticano di sottolineare i limiti della conoscenza e dunque lo spazio da dare al silenzio. Ignazio di Antiochia, uno dei primi apologisti, nella Lettera ai Magnesi definisce il Cristo «la Parola uscita dal silenzio», precisando però nella lettera agli Efesini che «chi possiede il Cristo deve anche possedere il suo silenzio». La grande autocomunicazione che in Cristo si fa parola, non lascia quindi svanire la dimensione silente del mistero. C’è sempre un lato oscuro che impedisce di possedere completamente l’oggetto. Ragione e rivelazione hanno entrambe un limite invalicabile, una frontiera oltre la quale non possono andare. Efrem Siro denuncia «la stoltezza di chi si lambicca il cervello intorno a Dio».
La linea apofatica dei padri si rafforza soprattutto in reazione all’ariano Eunomio che era addirittura giunto a sostenere: «Dio non conosce il proprio essere meglio di quanto lo conosciamo noi e la sua essenza non gli è più manifesta di quanto lo sia a noi». Giovanni Crisostomo risponde con dodici omelie cui dà il titolo Sulla incomprensibilità di Dio, ma sono i cappadoci ad opporsi a Eunomio, sostenendo l’inconoscibilità della natura divina e l’inadeguatezza di ogni discorso teologico. Rifacendosi all’episodio di Mosè sull’Oreb, Gregorio di Nissa dice che Dio può essere visto solo «di spalle» e quando è già passato oltre. La natura divina supera ogni presa del pensiero, comprenderla non è alla portata dell’uomo e un metodo per accedervi non è stato ancora trovato. Giovanni Damasceno si preoccupa di dire che questa inconoscibilità non significa che Dio non esista, ma perché l’essenza divina è al di sopra dell’essere e, dunque, al di sopra della conoscenza. Damasceno sposta il problema sul piano trinitario ricordando il fallimento delle immagini e afferma che ogni tentativo di voler rappresentare il mistero trinitario con delle figure costituisce un errore.
 
Le tenebre luminose
È quasi impossibile affrontare tali argomenti senza accennare all’Areopagita, protagonista esemplare e influente dell’anima silenziosa e contemplativa della teologia cristiana. Di lui si sa molto poco, alcuni lo identificavano con Dionigi membro dell’Areopago di cui parla At 17,34, altri con il primo vescovo di Parigi del III secolo, altri ancora con un monaco siriano del VI secolo. Quest'ultima ipotesi sembra la più verosimile anche perché le opere risalgono a questo periodo, ma il vero autore porta con sé il destino di quella teologia di cui si fa maggior interprete e resta contrassegnato dal nome anonimo di Pseudo-Dionigi.
Dionigi distingue due teologie: catabatica, che procede per affermazioni, e apofatica che procede per negazioni. La prima ritiene il linguaggio capace di esprimere la verità divina e porta ad elaborare una serie di proposizioni dottrinali, la seconda ritiene invece che Dio è «in una divina oscurità», in «luoghi inaccessibili» che escludono la possibilità di dare nomi a Dio: nessun concetto umano può raffigurarlo e nessun termine è in grado di esprimerlo. L’unico processo autorizzato è la negazione, così sintetizzato nella Teologia mistica: Dio non è né materia né corpo, né figura né forma, né qualità né massa; né anima né intelligenza, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né ineguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non rimane immobile né si muove. La sua natura schiva ogni conoscenza, «nessuno la conosce quale è; sfugge a ogni ragionamento, a ogni sapere; non è né tenebra, né luce, né errore, né verità; di essa non si può assolutamente nulla affermare e nulla negare».
Il ragionamento di Dionigi è apparentemente complicato, perché egli parte da una constatazione intuibile: il conoscere e il dire dell’uomo si fondano sull’esperienza di tutto ciò che esiste, ma Dio non è fra le cose che “esistono”, egli è oltre, per raggiungerlo bisogna superare tutte le esistenze e dunque riconoscere l’ignoto. Solo chi vive in uno stato totale di ignoranza (agnosìa) e dice di non sapere sa veramente, la trascendenza è assoluta ed è più facile intuire l’assenza che la presenza. Ancora nella Teologia mistica, Dionigi giunge a sostenere che Dio non-esiste, che è il Nulla, il non-essere: «Se capita che, vedendo Dio, si commenta ciò che si vede, è perché non si è visto Dio stesso, ma qualcuna di quelle cose conoscibili che a lui devono l’essere. Perché in sé egli sorpassa ogni intelligenza e ogni essenza».
Trovandosi al di là di ogni affermazione o negazione, la teologia apofatica non è però in conflitto con la teologia catabatica, ha persino bisogno della seconda perché deve negare tutto ciò che essa afferma. Una teologia assolutamente negativa sarebbe, inoltre, una contraddizione, perché, se non si può affermare, non si può neanche negare, per cui le due teologie si sostengono. Tuttavia per Dionigi la via catafatica è imperfetta, mentre quella apofatica è più vicina alla verità. A questo scopo egli insiste sull’estrema limitatezza del linguaggio: «Ogni attributo può essere predicato di lui e tuttavia egli non è nessuno di essi». Il teologo apofatico deve semplicemente dire che «non sa».
Dionigi parla del Dio cristiano e questa caratteristica lo allontana dai neoplatonici; ciononostante, anche la conoscenza della fede in Gesù Cristo, non dà all’uomo la possibilità di esaurire la conoscenza. La vera conclusione dell’itinerario è l’ingresso nel silenzio mistico. Il silenzio su-Dio diventa la porta del silenzio in-Dio e apre gli spazi della comunione. Non si può quindi sostenere che Dionigi sia un apofatico in senso radicale. Rimossi tutti gli schermi, il credente è pronto ad entrare nella tenebrosa luce della contemplazione e dell’adorazione.
 
Una corrente continua
Può apparire strano, ma anche Tommaso d’Aquino, il più grande protagonista di una teologia positiva, non solo subisce l’influenza di Dionigi, ma tematizza l’Ignotus che fonda sull’inesauribilità della natura divina e sulla sproporzione tra il conoscente umano (finito) e il conosciuto divino (infinito). Lo conferma un suo leit motif che troviamo nel commento al primo capitolo della lettera ai Romani: «C’è una cosa riguardo a Dio che resterà a noi sconosciuta, quella di sapere ciò che Dio è». Lo dice anche nella Summa: «A proposito di Dio non possiamo sapere che cosa egli sia, ma che cosa non sia (De Dio scire non possumus quid sit, sed quid non sit».
Ogni percorso è difettoso e per questo, secondo Tommaso, l’uomo ha bisogno della rivelazione, cioè che sia Dio stesso a comunicarsi. Tuttavia, anche seguendo questa via, non si raggiunge il possesso dell’oggetto. Conosciuta una cosa, rimane l’impegnativo compito di determinare che cosa sia e questo non ci è dato. Tommaso accoglie quindi il principio della teologia negativa che porta a confessare: «Noi non conosciamo l’essere divino in se stesso (Intellectus autem noster non potest ipsam Dei essentiam cognoscere secundum quod id est»). L’aquinate ridimensiona però l’apofatismo quando sostiene la plausibilità di una teologia affermativa che ci fa conoscere e parlare di Dio. Sostenere il contrario sarebbe stolto. Per farlo, oltre naturalmente alla rivelazione, valorizza il metodo analogico per cui la dissomiglianza è anche somiglianza che si raggiunge per via di eminenza.
Tuttavia anche l’analogia, quando è correttamente intesa, comprende in sé il momento negativo e la conoscenza di Dio non è mai totalizzante. Tommaso valorizza una teologia del silenzio, scrivendo nel trattato su Boezio: «Dio si onora col silenzio non perché per niente si parli o si indaghi su di lui, ma perché prendiamo coscienza che rimaniamo sempre al di qua di una sua comprensione adeguata». Nella sua biografia si racconta l’episodio che, prossimo alla morte, avesse chiesto al segretario di bruciare tutte le sue opere perché non erano che «paglia» di fronte al mistero divino. Storia o leggenda, dimostra che l’atteggiamento apofatico non era assente nemmeno nel più grande rappresentante della scolastica.
Il magistero ecclesiastico non è stato meno accorto. Il Lateranense IV (1215) parla di una dissomiglianza sempre maggiore della somiglianza (DS 806) e il Vaticano I, il concilio che, nella Dei Filius, ha insegnato che Dio può essere conosciuto mediante le cose create, relativizza persino la conoscenza che si può ottenere tramite la rivelazione: «I misteri divini, per loro intrinseca natura, sorpassano talmente l'intelligenza creata che, anche se trasmessi per divina rivelazione e ricevuti mediante la fede, rimangono avvolti nel velo della fede e avvolti in una caligine, fino a quando, in questa vita mortale, siamo in esilio, lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione» (DS 3004). Intento conciliare è di porsi a metà strada tra i razionalisti che con Gioberti († 1852) sostenevano che Dio è il primum intellectum, immediatamente intuibile dalla ragione, e i fideisti che con Lammenais († 1854) affermavano invece l’unica via possibile della rivelazione.
La Dei Verbum è su questa linea quando dice che la Bibbia non elimina l’aspetto incomunicabile di Dio che rimane il Deus absconditus anche nel libro sacro. Questo riproduce il mistero della condiscendenza divina per cui, pur restando in essa sempre intatta la verità e la santità di Dio, le sue parole «sono espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo» (n. 13).
 
Mistero inesauribileProviamo a tracciare alcune conseguenze pratiche di tutte queste considerazioni. Dire che Dio è mistero (da myein = chiudere la bocca), esprime una grande verità e porta a precisare la nostra posizione davanti a lui: «Sto in silenzio, non apro bocca perché sei tu che agisci» (Sal 39,10), «sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui» (Sal 37,7). Su Dio non si può dire tutto, egli non dice tutto, la fede non cammina nell’evidenza, fa vedere ma «confusamente» (1Cor 13,12). Dio abita nel chiaroscuro, sta dentro e al tempo stesso fuori della storia, semina in essa le sue tracce, ma non si identifica con essa. È venuto, ma è oggetto di speranza, è il vicinissimo e l’altissimo, colui che si concede e che si allontana, il comunicatore e l’incomunicabile, il rivelato e lo sconosciuto, la parola e il silenzio. Non sarà mai possibile nutrire la pretesa di afferrarlo e, quando pensiamo di averlo fatto, ci sfugge. Assomiglia all’essere heideggeriano che si nasconde, svela, si ritira, rifugge e viene. Il Dio di Heidegger è più cristiano del Dio di Hegel.
Non si tratta del mistero-ricatto con cui mortificare le obiezioni della ragione, ma un mistero che rispetta l’originalità della natura divina. A. Nesti nel suo libro il silenzio come altrove, cita questo bel testo di Giovanni il solitario che, ponendo in dialettica voce, parola e silenzio, prega con un senso di nostalgia: «Fino a quando sarò nel mondo della voce e non nel mondo della parola? perché quanto è visibile, è voce e con voce è detto, ma il mondo che non è visibile non è affatto voce, cosicché non è possibile che la voce dica il suo mistero? Fino a quando diverrò parola nella percezione delle cose nascoste? Quando sarò innalzato al silenzio vicino a ciò che non rendono presente voce e parola? Verso il silenzio tende infatti l'anima quando si sia spogliata di quanto è visibile e si sia mossa nelle cose nascoste e abbia meritato le rivelazioni, quelle su cui non è possibile alla natura dei suoi sensi produrre una parola di voce».
La comunicazione teologica dovrebbe un poco tornare a riscoprire questa sua anima silenziosa, evocando l’impotenza, la fatica del cercare, la fragilità delle convinzioni, la necessità di fare insieme, collaborando anche con altri spazi conoscitivi. A volte diamo l’impressione di averlo dimenticato, si scrivono teologie solari, dimenticando che il Verbo splende tra le tenebre (Gv 1,5). Il compimento della parola cristologica, centro e vertice della rivelazione, non elimina la penombra, Gesù stesso ha vissuto il silenzio del Padre scendendo nell’abisso della croce. «È per questo – scrive Bruno Forte – che l’accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se essa è ascolto del silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia, l'insondabile profondità di questo divino silenzio motiva l’inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo».
Compito del teologo non è quello di aumentare a dismisura il numero della affermazioni e delle conoscenze, ma saper negare, facendosi quasi garante e custode dell'insufficienza di ogni ragionamento, di ogni esperienza, di ogni percezione. Egli diventa il guardiano del linguaggio, ridimensionando col silenzio tutti coloro che vogliono costruire una nuova torre dalla quale vantarsi di aver raggiunto l'indicibile. Di ciò si deve tenere conto anche nello sviluppo del dogma, nella consapevolezza che ogni suo progresso implica anche perdita. Ne è convinto Paul Evdokimov che scrive nel libro L’ortodossia: «Ogni affermazione umana è di per se stessa una negazione, perché non va mai fino in fondo, resta al di qua del pleroma; la sua fondamentale insufficienza la nega: «L’uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,20) significa per san Gregorio Nisseno il pericolo mortale di limitare Dio con definizioni umane».
Il non sapere viene anche imposto dalla tensione del tempo, tanto da poter affermare che è proprio la perdita della teologia del silenzio che ha fatto smarrire la spinta escatologica. Per la Scrittura, solo nell’eternità si vedrà Dio «così come egli è» (1Gv 3,2). Poiché il mistero attende il compimento, la conoscenza di Dio non è solo epifanica, in virtù di una rivelazione passata, ma è protesa in avanti, è promessa di un ad-ventus nel futurum. Dio resta, dunque, colui che viene, il sempre cercato e il mai posseduto.
Un’altra conseguenza sarà quella di compiere un’opera di purificazione delle immagini divine. Non comprenderlo genera l’idolo, l’intolleranza, il fanatismo, le visione totalitarie, ma porta anche ad evitare la staticità, a moderare le visioni messianiche e gli ottimismi degli idealisti della storia. Una fede senza forze contrarie è più prossima all’illusione che alla verità. Non si tratta di distinguere immagini buone e immagini cattive, vera e falsa rappresentazione, ma dire che Dio è al di là di ogni immagine e che tutte le affermazioni su di lui possono essere deformanti e sono criticabili. Chiunque si lega in maniera unilaterale a un nome, una definizione, per quanto possano apparirgli buone e meritevoli, rischia di diventare o è un idolatra, perché si piega dinanzi a un Dio che si è creato da solo, nella profondità dei suoi pensieri e con l’arte delle sue parole. Le immagini sono importanti per superare l’astrazione, la rivelazione ci aiuta a fare discernimento (molto si dovrebbe dire sull’immagine dell’amore) ma si deve restare consapevoli che si tratta solo di strumenti. Chiedersi sempre: forse Dio non è come lo si pensa.
«Cerchiamolo per trovarlo – scrive sant’Agostino –, cerchiamolo dopo averlo trovato. Che lo si cerchi per trovarlo, significa che è nascosto, che lo si cerchi dopo che lo si è trovato significa che è infinito [...] egli sazia chi lo cerca nella misura in cui lo comprende, e rende più capace chi lo trova perché cerchi ancora di essere ricolmato quando abbia incominciato a comprendere di più».
Rivolto al popolo Mosè disse: «Fa’ silenzio e ascolta, Israele!» (Dt 27,9).
Giovanni Tangorra
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