«Dobbiamo essere onesti e ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità: se il cristianesimo è declinato come religione civile, se i suoi valori culturali ed etici sono difesi anche da Cesare, se ha una funzione sociale ridotta al semplice fornire un supplemento di anima alla società, allora si troverà progressivamente svuotato della capacità di pronunciare parole profetiche e di annunciare la venuta del regno di Dio».
del 01 gennaio 2002
Ci sono parole della Lumen gentium, la costituzione del Vaticano II sulla Chiesa, che restano ancora oggi, a quarant’anni di distanza, come norma e giudizio anche per la Chiesa che è in Italia: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a percorrere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza” (LG 8). Sì, noi come Chiesa di Dio che è in Italia dobbiamo tornare a queste parole e attuare un autentico “esame di coscienza” davanti a Dio per verificare se stiamo percorrendo la via percorsa da Gesù o se tentiamo di percorrerne un’altra. Soprattutto al Convegno di Verona la Chiesa dovrà interrogarsi ancora una volta sulle parole di Gesù: “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (Mt 28,21). Di fronte alla condizione di minoranza che può spaventare e far temere per il futuro della fede, di fronte anche alla crisi e alla mancanza di principi della società secolarizzata eppure bisognosa di rimediare alla perdita di senso, la tentazione oggi presente nella compagine ecclesiale è quella di nutrire una nostalgia della cristianità e di accettare o addirittura favorire il processo che conduce la fede cristiana a declinarsi come “religione civile”, cioè come sistema culturale capace di fornire alla società quella morale comune che si ritiene deducibile solo a partire dalle religioni. La tentazione è antica e può essere espressa in un progetto che vede le Chiese correre in aiuto e supporto alle società per fornire e alimentare valori di cui esse hanno bisogno per il loro ordine ed equilibrio, svolgendo la funzione che era quella della “religione dei padri” nella teocrazia giudaica o della religio pagana nella res publica romana.
È così che oggi molti vogliono un connubio tra religione cristiana e società, nella prospettiva che il cristianesimo come fede e come cultura è stato e può tornare a essere il cemento di un popolo, persino la sua identità, e può quindi dare un forte contributo al bene e al progresso della nazione. Offerta seducente quella che viene fatta alla Chiesa, tanto più quando è avanzata da non credenti che ricoprono cariche politiche, ma offerta che, se accettata, rischierebbe di minare la laicità dello stato e il pluralismo democratico accentuando inoltre la pericolosa e falsante identificazione tra cristianesimo e occidente.
In questa ottica, le Chiese propugnano un’etica e concentrano tutte le loro energie affinché essa sia assunta dalla società, si mostrano capaci di quei “servizi” necessari ai quali lo stato non sa dare attuazione, soprattutto in risposta ai diversi tipi di povertà ed emarginazione, offrono la loro esperienza e qualità di intervento nell’educazione giovanile, chiedendo però che il riconoscimento del loro ruolo si traduca in un’attenzione particolare del legislatore non sui bisogni inevasi delle fasce più svantaggiate della popolazione, bensì sulla difesa teorica di alcuni valori cari alla fede cristiana. Raramente però i cristiani riescono poi a far percepire a quanti non condividono la loro fede lo spessore e la qualità “umana” di questi valori, che non sono quasi mai presentati e spiegati in termini antropologici.
Certo, sono in molti a riconoscere che così “la Chiesa serve alla società”, che ha una funzione educatrice e culturale efficace, che, di conseguenza, la Chiesa è presente nella vita della nazione, che il cristianesimo appare “un fatto popolare”, che società e Chiesa sono unite di fronte ai grandi temi: un’icona frequentemente riproposta di questa simbiosi l’abbiamo in liturgie che non si limitano a celebrare la morte cristiana nello spazio e nella luce illimitati della risurrezione, ma che cercano di unire nella stessa celebrazione il mistero eucaristico, la morte per la patria, l’onore reso dal potere politico, il riconoscimento civile...
Qui dobbiamo essere onesti e ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità: se il cristianesimo è declinato come religione civile, se i suoi valori culturali ed etici sono difesi anche da Cesare, se ha una funzione sociale ridotta al semplice fornire un supplemento di anima alla società, allora si troverà progressivamente svuotato della capacità di pronunciare parole profetiche e di annunciare la venuta del regno di Dio, che non è di questo mondo. Sarà la sconfitta dello statuto escatologico della Chiesa, della sua libertà e parresia, e la fede sarà trasformata in un “bene di pubblica utilità” in mezzo agli altri e, come tale, subordinato ai bisogni via via mutabili della società, alle opportunità storiche e politiche, ai condizionamenti dei potenti di turno.
Per questo è molto importante che per il Convegno di Verona si siano invitate le Chiese locali italiane a meditare sulla Prima Lettera di Pietro, che indica chiaramente lo statuto del cristiano come “straniero e pellegrino”, un credente che sa vivere la propria fede come differenza cristiana e che sa essere “evangelizzatore” innanzitutto mostrando un “bel comportamento” in mezzo ai non cristiani. Come cristiani nel nostro paese, infatti, non dovremmo dimenticare che non solo non siamo né perseguitati né osteggiati (condizione che invece dovrebbe essere per noi costitutiva se, fedeli alla parola del Signore, non fossimo “del mondo, mondani!), ma che rischiamo addirittura di essere adulati e privilegiati, con grave danno della nostra testimonianza resa al Vangelo.
Enzo Bianchi
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