Si parla di crocifissione dei cristiani, al Sinodo per l'Africa che si sta riunendo in Vaticano. E non è una metafora: «Il 13 agosto i ribelli sono entrati nella chiesa della mia parrocchia ed hanno preso tante persone in ostaggio. La denuncia al Sinodo africano: «Attacchi e persecuzioni da parte delle milizie governative»
del 17 ottobre 2009
CITTÀ DEL VATICANO — Si parla di crocifissione dei cristiani, al Sinodo per l’Africa che si sta riunendo in Vaticano. E non è una metafora: «Il 13 agosto i ribelli sono entrati nella chiesa della mia parrocchia ed hanno preso tante persone in ostaggio. Mentre fuggivano nella foresta, ne hanno uccise sette: li hanno crocifissi agli alberi». Monsignor Hiiboro Kussala è vescovo della diocesi di Tombura Yambio, nel Sud del Sudan.
 
Il suo racconto a Radio Vaticana , la voce dolente e ferma, testimonia come l’odio e i massacri non siano certo finiti con l’incriminazione del presidente Al Bashir decisa in marzo dal Tribunale internazionale dell’Aja per crimini contro l’umanità, il genocidio nel Darfur. Le violenze continuano anche su un altro fronte, quello che divide «un Nord prevalentemente arabo che ha imposto la legge coranica», il governo di Al Bashir a Khartoum, «e un Sud cristiano animista», riassume l’emittente della Santa Sede. Le elezioni politiche, previste dagli accordi di pace del 2005, dovrebbero svolgersi entro il 2010, mentre nel 2011 si attende il referendum per l’autodeterminazione del Sud. Appuntamenti messi in pericolo dai «ripetuti attacchi contro i cristiani», violenze «perpetrate da gruppi ribelli legati a Khartoum»: non soltanto «stanno ricevendo aiuti dal governo del Nord», accusa il vescovo, ma «alcuni di loro sono stati istruiti da Al Qaeda in Afghanistan: sono contro la Chiesa, il progetto è intimidire i cristiani». La crocifissione dei sette parrocchiani di monsignor Kussala non è un orrore isolato, «si verificano tanti drammi come questo», e d’altra parte «tutti questi gruppi hanno fucili, armi: credo ci sia la volontà di lasciare il Sud Sudan in difficoltà perché non abbia quella pace necessaria per preparare il referendum».
 
Quando gli si chiede se testimoniare il Vangelo, in Sudan, significhi rischiare il martirio, il vescovo non ha esitazioni: «Sì. Noi viviamo proprio in questo senso, per­ché stanno uccidendo la gente, bruciano le loro case, le chiese: questo è martirio». An­dare in parrocchia, partecipa­re alla messa, sono cose che fanno paura: «Paura, sì: per­ché i ribelli continuano ad uc­cidere la gente. Ma noi non vogliamo morire: tutto que­sto rafforza la fede della gente, la gente continua a venire in chiesa». Del resto la situazione non nasce ora, spiegava al sinodo il cardinale Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum: «Il problema tra il Sud e il Nord del Sudan è vecchio quanto il Sudan stesso: una rete di questioni complesse, dalle disuguaglianze nello sviluppo alle disparità nelle opportunità concesse dal governo centrale, cui si aggiungono le differenze etniche e religiose tra i due popoli». La stessa complessità del Darfur, raccontava la settimana scorsa ai vescovi Rodolphe Adada, già rappresentante congiunto Onu-Unione africana della missione di pace: «La situazione è cambiata radicalmente rispetto al 2003-2004. Ma questo non significa assolutamente che il conflitto, assai più complicato della descrizione manichea comunemente diffusa, sia concluso».
 
E pensare che l’assemblea per l’Africa, fino al 25 ottobre, riunisce 244 padri sinodali «a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace». Non è facile. Monsignor Kussala allarga le braccia: «Questo è il nostro motto. Dopo sei secoli, il cristianesimo è stato praticamente distrutto nel Nord del Sudan, e noi ne soffriamo in nome del Signore » . Certo, ieri i vescovi esortavano l’Africa a «prendere in mano il proprio destino». Ma lo stesso Benedetto XVI si rivolgeva agli «uomini e donne » della Terra perché «volgano i loro occhi all’Africa». Così il vescovo di Tombura Yambio sospira: «Vogliamo i Buoni Samaritani: i nostri fratelli, i nostri amici nella comunità internazionale possono venire in nostro aiuto. Ma più ancora di questo, chiediamo preghiere, tante».
 
Gian Guido Vecchi
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