«Francesco ci porta fuori dalle catacombe. Consolidata una prassi già diffusa...»
Non è una domenica come le altre nelle parrocchie. È il giorno dell’«emersione» della comunione ai divorziati risposati. Prassi già diffusa e ora «sdoganata» dal Sinodo. A San Giuseppe nella periferica Valle Aurelia la messa è affollata. «Chiedono di fare la comunione, mi regolo caso per caso», spiega don Giuseppe Grazioli. Sempre a Roma, un altro parroco di borgata don Renzo Chiesa attende a San Gregorio Magno alla Magliana «istruzioni dal Papa dopo il Sinodo».
FINE DELLE INCOMPRENSIONI
«Continuerò a comportarmi come ho sempre fatto, ascoltando le persone perché ogni situazione è diversa dall’altra - afferma il parroco di San Pio V, don Le Pera nel quartiere romano Aurelio -. Il Sinodo conferma un modo di agire».
Due ascoltano e abbracciano il sacerdote: «Siamo grati a Francesco, è come uscire dalle catacombe», osservano. Non solo nella città eterna. Stesse reazioni a Torino: «La prima impressione? Il Sinodo ha stabilito cose che, in molte parrocchie, già si facevano. E che supera certe rigidità che forse non avevano senso». Alle sette di sera Giancarlo Andrà, membro del Consiglio pastorale della parrocchia San Giulio d’Orta, butta lì la sua impressione di uomo di fede operosa in una delle decine di chiese di Torino. Dire che è contento è un po’ complicato.
Ma lui, come tutti quei fedeli che, ieri, domenica, hanno ascoltato le parole dei sacerdoti a commento del vangelo di Matteo, dice: «È presto per capire pienamente la portata delle aperture operate dai padri Sinodali. Occorrerà del tempo per meglio comprendere la portata di questo cambiamento». Che poi, in pratica, come dice Andrà, ufficializza pratiche che già si esistevano. Ma non se ne parlava. E per capirle meglio bisogna bussare alla porta della chiesa dei padri camilliani, nel cuore della Torino storica. È qui, in questa strada del centro che i Camilliani hanno sempre accolto chi, seppur divorziato, cercava il conforto della fede e dell’eucarestia. Padre Antonio Menegon, che di questo gruppo di sacerdoti è il responsabile non nasconde le scelte - fino a ieri controcorrente - che lui, e gli altri padri, hanno sempre fatto. Dice: «Noi siamo a servizio dei malati. E salvezza e la consolazione abbiamo sempre cercato di darla oltre che al corpo anche allo spirito». Il motivo è semplice: «Chi, divorziato, chiede l’eucarestia, lo fa perché ne sente il bisogno. Perché è un’esigenza dell’anima. Come avremmo potuto dire no ad una persona che soffre, che ha fatto un percorso? La nostra Chiesa è accoglienza, e l’abbiamo praticata anche così». .
PORTE APERTE IN CHIESA
Prassi già in parte diffusa, e sulla quale ci sono delle iniziali aperture nel documento finale del Sinodo. In silenzio. E spesso guardati di traverso - ma anche aspramente criticati - da chi, purista del dogma e della legge, avrebbe voluto che questa piccola chiesa non fosse terreno di sperimentazioni che all’epoca sembravano molto lontane. «Invece Francesco ha capito - commenta ancora padre Menegon -. Questo Papa meraviglioso è andato al cuore del vangelo, perché Dio è misericordia».
Certo non è tutto così facile, così scontato. Se davanti alla Gran Madre di Dio, uno dei templi simbolo della Torino cattolica, i fedeli preferiscono glissare, parlare di apertura di «un Papa che sa parlare al cuore della gente», è nelle sagrestie che ci si interroga di più. Ancora Menegon: «La discrezionalità lasciata ai sacerdoti è forse l’unico aspetto sul quale si potrebbe discutere». Scusi, padre, per quale ragione? «Ce ne sono due», precisa. La prima è che non tutti i sacerdoti sono uguali, e pensano allo stesso modo. Così potrebbe verificarsi che qualcuno sia più aperto ed altri più intransigenti. E questo potrebbe causare quale problema». Il secondo? «Che i fedeli potrebbero andare alle ricerca di quei preti più disponibili. Ma è un guaio da poco. Ciò che conta è l’apertura». Passo dopo passo, la rivoluzione pastorale.
Giacomo Galeazzi, Lodovico Poretti
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