Un viaggio che passa da Sfera Ebbasta, Gio Evan e San Paolo: può venire fuori qualcosa di buono dall’essere fragili?
La gente molto spesso mi odia, mi critica, Ma fondamentalmente penso che non abbia capito il mio, il mio modo di vivere, Pensano che ostento in quello che ho, ostento i miei risultati, Perché voglio fare il figo, ma in realtà, Io spero solo di motivare tutti quei ragazzi che come me non hanno mai avuto niente, E che sbattendosi sanno di poter arrivare a qualcosa.
L’ultimo disco di Sfera Ebbasta, “XDVR”, si apre con la canzone “Fragile”, dove il trapper descrive quello stato d’animo che gli pervade le viscere nel guardarsi indietro nel suo percorso artistico. Partito dalla strada senza un euro ad avere un successo planetario, fama, soldi e un nome che, vorrebbe lui, accendesse nei giovani del suo quartiere il desiderio di mettercela tutta, di sbattersi per vincere. Strano modo di aprire un disco. C’è il senso della fragilità in più passaggi di questa canzone: Rido con gli altri, piango da solo, Tu mi vuoi morto, eh, Tu vuoi il mio posto, tu vuoi il mio polso. Sfera ci racconta cosa pensa il mondo della fragilità e cosa è bene fare davanti a questa: nascondere tutto, accettare dentro di sè, mettersela via, combattere per cercare (da soli) quella forza che ci faccia primeggiare, quello sbattersi che promette l’autorealizzazione. Da solo. Nella misura in cui la fragilità è vista come occasione per riscattarsi allora arriverà la propria realizzazione. Il mito dell’autorealizzazione regna. Ringraziamo Sfera per questa spinta nel dare sempre il meglio di sé, però restiamo perplessi davanti a questa riflessione sulla “fragilità”. È davvero solo questo? É davvero qualcosa da nascondere, se non quando sai di essere arrivato in cima per dimostrare di avercela fatta? Quanti ragazzi e giovani vivono proprio così? La fragilità è fastidiosa e tutti si ripetono: se potessi non essere fragile? E se la fragilità fosse altro? E se la fragilità fosse un luogo d’amore?
Da alcuni anni sul panorama musicale italiano si sta facendo notare un certo Gio Evan, poeta e cantautore che, con i suoi giochi di parole incalzanti e la sua originalità un po’ fuori luogo, attrae, incuriosisce e stuzzica la nostra riflessione. Gio Evan, dalla spiritualità complessa, spesso però ci regala alcuni spunti luminosi.
Con questa canzone dal titolo “Jeeg Robot”, l’autore ci regala una piccola ma preziosa fotografia della realtà del cuore di ciascuno di noi: tutti sogniamo di essere migliori di ciò che siamo. In questa canzone, che sembra inizialmente una lettera di lamentela a Dio, Gio Evan elenca tutte le cose che vorrebbe cambiare di sé: il corpo, la forza, il coraggio, il carattere, la tenacia, la resistenza, la pazienza e così via. Fa sorridere come, a un certo punto, sembri quasi prendere in giro Dio, chiedendogli se lo abbia fatto apposta, se si tratti di uno scherzo o un dispetto: è possibile che Dio mi abbia davvero pensato così? Con un cuore fragile e sensibile, quasi come una foglia al vento, e una pelle in cui ogni contatto porta dentro la vita (e quindi la sofferenza) del mondo! Non sarebbe stato meglio farmi un po’ più stronzo? Togliermi le lacrime, risparmiarmi un po’ di sofferenza rendendomi più freddo? Magari facendomi un po’ più come Jeeg Robot? Farmi diventare tutto quello che ancora non sono, riempire le mancanze del mio carattere, imparare a resistere al dolore (non morire per chi se ne va via), o magari non poterlo sentire più, magari con dell’acciaio dentro a proteggermi.
Il finale sembra proprio una preghiera! Sembra voglia svelare il senso di tutto questo, o meglio, il desiderio profondo d’amore di tutti: “morire una sola volta per salvare tutti quanti” (mi ricorda qualcuno). Siamo fatti per amare, e per amare in modo totale e pieno! Ma davvero la fragilità è un ostacolo a questo? Dentro il nostro cuore la fragilità è una parte dalla quale non ci separeremo mai; vorremmo staccarcela di dosso, ma è una parte essenziale di ciascuno. La sensazione di disagio nasce dal fatto che spesso guardiamo alla fragilità come un ostacolo al vero amore, all’essere pienamente noi stessi. Vorremmo dare la vita per qualcuno, ma ci spaventa soffrire. è potente questo contrasto che Gio Evan mette nella canzone: l’essere fatti in un certo modo, predestinati all’amore, capaci di sensibilità, di cuore, di fragilità, di desiderio profondo di bene, ma allo stesso tempo la paura di tutto questo, il sentirci scomodi nella fragilità. È bello poter riflettere su questo: chi sta guidando la mia vita? Chi tiene il timone? È il mio desiderio d’amore o la paura? È l’imparare ad abitare la mia fragilità o il lamento invidioso e continuo? Il desiderio che abbiamo dentro di noi rivela molto di ciò per cui siamo davvero fatti, e l’esempio di Gesù in croce ci mostra proprio questo: il desiderio d’amore pieno che salva per mezzo della fragilità.
Con “Chantilly”, Gio Evan dimostra che “voler essere un nuovo Jeeg Robot” non solo è normale, ma è una fase che forse dobbiamo attraversare per capire che non possiamo voler bene a chi ci sta vicino senza essere autenticamente noi stessi, senza passare attraverso la nostra fragilità. È proprio questa fragilità che ci permette di connetterci davvero agli altri, di sentirli e di aprire un dialogo con loro. Un dialogo che, per noi educatori e animatori, diventa una sfida, un invito e un occasione. In questa canzone Gio Evan racconta proprio di un dialogo. Un dialogo in cui ci mostra la fragilità dal suo punto di vista, in tutte le sue sfumature. Nella canzone, una ragazza si sfoga, si apre, lascia cadere le sue difese e condivide con un amico tutta la stanchezza e la fragilità che porta dentro. Si percepisce che questo momento di ascolto e apertura del cuore non è una novità, quasi a voler dire che ogni persona, in fondo, desidera tornare in quei luoghi dove non solo si dà un nome ai pesi dell’anima, ma si trova qualcuno con cui condividerli. È la descrizione di quel momento delicato che tanti di noi vivono nel loro percorso educativo, nel confronto con qualcuno di più giovane, in un dialogo spirituale o semplicemente con un amico fidato. Da un lato raccontare di sé per amarsi e lasciarsi amare. Dall’altro amare ascoltando. Che bello pensare di avere nella vita qualcuno che possa accogliere i tuoi pesi, i tuoi pensieri e i tuoi sfoghi, senza alcun giudizio. Quante ore don Bosco ha passato in confessionale nella sua vita? Quante volte, in silenzio, ha accolto i pesi dei suoi ragazzi, quelle anime segnate dal peccato in cerca di un orecchio attento e di un cuore paterno. Quanti giovani hanno saputo cogliere quell’occasione e si sono lasciati amare, intravedendo in don Bosco un cuore abitato da Dio che li attendeva proprio lì. Dio ti dà appuntamento nel cuore di chi ti vuole bene, di chi vuole amarti nelle tue ferite, e non solo nei tuoi successi. Dio ama poterti incontrare proprio li. Lì dove i tuoi pesi non solo vengono accolti, ma amati e trasformati.
"Fragile, son fragile, non riesco, Tutto il mondo fuori sembra che mi viva dentro. Sento il dolore degli altri a mille miglia di distanza, E se mi guardi nella pancia ho una foto di famiglia, Mamma l'ho persa presto, Mio padre torna dal lavoro solo per mettermi a letto. Il cuore è pieno di frammenti, quanti amici che ho lasciato, Non sempre è bello il viaggio se saluti chi vuoi accanto, E non sono abituata, perdonami, all'incanto. Per me è tutto nuovo, insegnami un abbraccio. E non sono abituata, perdonami se ho pianto. Ma vorrei solo restare con chi voglio accanto”
Tanti i temi della fragilità di questa ragazza: un'empatia forte (forse un pò disordinata) che la catapulta dentro i dolori degli altri, una famiglia affaticata e a tratti assente, amicizie perse, una meraviglia dell'incanto svanita e un solo desiderio: “insegnami un abbraccio [...] vorrei solo restare con chi voglio accanto”. Il ritornello è una presa di coscienza forte e liberatoria, quasi un urlo della propria fragilità: Fragile, fragile, fragile. Credevo di esser salda e stabile. Fragile, fragile, fragile, Pensavo fosse acciaio e invece è crema chantilly. L’immagine della crema chantilly rende molto bene l’idea. La vera umiltà forse nasce qui, nel dirsi la verità con amore: vorrei essere d’acciaio, forse in modo presuntuoso, ma mi riconosco come una crema molliccia, bianca, semplice, leggera, non troppo resistente. Ma tutto questa senza scadere nel vittimismo, perché per l’atto stesso di essersi aperta con qualcuno la sua fragilità diventa un luogo d’amore!
“E anche se fuori luogo io ci sarò. E anche se contro il mondo, io resterò. Un conto è piangersi addosso e un altro accanto”. Ed ecco che, finalmente, l’amico risponde, dice qualcosa. Spesso abbiamo la pretesa di voler risolvere i problemi degli altri, ma queste poche frasi ci suggeriscono una lezione educativa fondamentale: a volte non serve dare soluzioni; è più importante mettere l’altro nelle condizioni di trovarle. Non parlare subito, ma ascoltare molto; non imporre i propri pensieri, ma essere presenti con empatia. Non siamo chiamati ad “aggiustare” l’altro, ma a volergli bene. Comunichiamo con la nostra vita che è meglio affrontare tutto con qualcuno accanto, qualcuno con cui guardare l’orizzonte insieme. È meglio piangere con qualcuno al proprio fianco, con qualcuno che ci sia davvero. In fondo è questo che converte i cuori, non i discorsi, ma l’amore. L’amore schiude il cuore. La superficialità e l’arroganza invece uccidono l’amore. Poche parole, ma che smezzano il peso della croce di questa ragazza.
Dirà Gio Evan in una poesia:
“Ecco cos’è rimasto” pensa “bisogna sostenere il fragile, solo questo. Da grande, anzi, da GIGANTE, allora io voglio fare il SOSTENITORE DI FRAGILITÀ. Il sostenibile, il sostenibile… si ma cos’è il sostenibile? Adesso che ci penso sostenibile viene dal verbo sostenere, S O S TENERE: tenere in aiuto, tenere per mano l’emergenza, tenere in grazia. Ecco cos’è sostenere, ecco cosa intendiamo quando diciamo “Sostienimi!”. Questo è sostenibile, tutto ciò che può essere in qualche modo aiutato, tutto ciò che reggerebbe meglio se non lo mettessimo in condizione di emergenza. Quindi cos’è fragile?”
“Sostenere l’altro” è possibile solo se si riconosce ciò che si ha in comune: la fragilità. È questo punto di incontro tra più cuori che ci mette nella condizione di sperimentare una compagnia che salva. Quegli atteggiamenti che non fanno sentire giudicati, ma prima di tutto ascoltati e amati. Senza questa base difficilmente si potrà offrire un aiuto autentico. Don Bosco direbbe che è la familiarità, il luogo di relazioni sincere e profonde, a generare la confidenza, e quindi, l’amore. La chicca, però, arriva alla fine della canzone: “La prima volta che mi hai detto di esser fragile, è stata anche la prima volta che ho conosciuto la tua forza.” Quando si parla di fragilità, la vera forza non consiste nel fuggire o nel nasconderla per preservare un’immagine perfetta di sé, ma nel prenderla, scegliere di condividerla! Farla diventare un luogo d’amore, un punto di incontro che insegna a lasciarsi voler bene e ad amare davvero.
Ma non solo. Il buon san Paolo in merito a questo ha qualcosa da suggerirci.
“Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.» (2Cor 12,9-10) La vera forza sta qui: scegliere di essere passivi nell’amore, affinché Dio possa abitare la nostra fragilità. Cristo e la grazia di cui parla Paolo sono strettamente legati: la Grazia è di Cristo, ed è Lui che ce la dona. La grazia di Dio ci chiede di spogliarci di ogni egoismo, di ogni egocentrismo e peccato, per fare spazio a Lei e permetterle di abitare in noi e di proteggerci. Il Signore invita Paolo a lasciarsi trasformare da Lui, ad accrescere la fiducia, perché solo così la grazia può veramente bastare. Si tratta di passare dal confidare in sé stessi al confidare in Dio. La grazia e la potenza di Cristo, paradossalmente, si manifestano massimamente sulla croce, nel momento di estrema debolezza. È una forza che si perfeziona nella debolezza, non automaticamente, ma attraverso un cammino di fede. Più Paolo ha fede, più la grazia passa; più la grazia di Cristo lo sostiene. A un certo punto, Paolo arriva persino a vantarsi delle sue debolezze, affinché la potenza di Cristo dimori in lui. Egli sa che, quanto più grande è la debolezza, tanto più necessaria è la grazia. L’esperienza della fragilità della propria persona, vissuta con fede, gli fa comprendere quanto sia essenziale la grazia. Paolo conosce bene la fragilità, poiché nei suoi viaggi missionari ha incontrato innumerevoli difficoltà: avventure pericolose, fatiche, tradimenti, arresti, dolore. Quando ripensa al suo ministero e ai fallimenti, racconta agli amici di Corinto che in questi fallimenti non trova frustrazione, ma coraggio per continuare, perché lì si rivela la potenza di Cristo. Nella debolezza dobbiamo imparare a non ripiegarci o scoraggiarci, ma a confidare nell’amore di Cristo: la forza non emerge automaticamente dalla fragilità, ma nella misura in cui chi la vive si consegna e si affida. Cristo rende “forte” la nostra debolezza, se Gli permettiamo di vivere in noi. L’azione della croce di Cristo, che lo rende potente proprio nella debolezza, può manifestarsi nella vita di ciascuno di noi. Paolo ci testimonia che la debolezza vissuta con fiducia permette a Dio di dare forza. Sarà questo amore a guarire le ferite e a riattivare il cuore, affinché il nostro sentirci salvati, inondati dalla grazia, possa contagiare chi ci sta vicino, rivelando che nella fragilità Dio ci desidera. Dio desidera ardentemente incontrarci proprio lì.
Concludendo, la fragilità non è la conseguenza negativa (ma ahimè da accettare) di un successo o qualcosa da nascondere o sfruttarla per la propria realizzazione, ma è la chiave d’accesso per l’amore nella nostra vita! Il luogo in cui possiamo lasciarci amare da qualcuno, per imparare ad amare noi stessi perché ci accomuna tutti! Ma soprattutto è il luogo in cui Dio può fare miracoli, perché diventi incontro, feritoia, occasione di salvezza e di grazia. Ecco perché vince chi è più fragile.
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Da un’idea di Antonino Mazara sdb e Anna Scremin
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