Vita di Don Bosco - Agostino Aufrayy


San Giovanni Bosco - Agostino Aufray

1970, SAI, Torino. AR dicembre 2010

Agostino Auffray, nato a Nantes, in Francia, nel 1881, morì a Losanna nel 1955. Giovanissimo, fu,accolto nella famiglia salesiana dallo stesso Don Michele Rua, primo successore di Don Bosco. Ordinato sacerdote a Torino, dopo un'intensa attività di apostolato in patria fu chiamato alla Casa Madre di Valdocco per dirigervi l'edizione francese del Bollettino Salesiano. Per oltre vent'anni rimase fedelmente al suo posto, riferendo con appassionato amore gli sviluppi rapidi e sorprendenti della Congregazione nel mondo.

Scrittore brillante e fecondo, Don Auffray affiancò costantemente al lavoro giornalistico la redazione di numerose opere di storia e spiritualità salesiane.

La facilità di accesso alle fonti documentarie, la vicinanza a coloro che erano stati compagni 0 allievi del Santo, il bisogno quotidianamente avvertito di una biografia agile e “moderna” di Don Bosco, lo decisero infine a realizzare il progetto a lungo meditato di stendere una nuova vita del Fondatore.

Il volume (che ebbe per titolo italiano Un gigante della carità - Giovanni Bosco nella sua vita e nelle sue opere), richiese anni di pazienti ricerche a Don Auffray, convinto com'era che “i santi hanno diritto alla verità”.

Pubblicata per la prima volta nel 1929, la nuova biografia conobbe un vasto successo: tradotta in molte lingue, superò le centomila copie ed ebbe (fatto straordinario per i tempi e il soggetto) il premio dell'Accademia di Francia.

Traducendo il rigoroso scrupolo di storico in linguaggio adeguato alle esigenze del lettore moderno, Agostino Auffray seppe efficacemente parlare a coloro che, in ogni Paese, desideravano accostarsi alla vita e al messaggio di Don Bosco.

Della celebre opera, ormai da tempo esaurita e pur richiesta insistente' mente da molti, la S.E.I. presenta ora un'edizione basata su una nuova traduzione, in più parti attentamente rivista.

È sembrato infatti all'Editrice che la figura di Don Bosco quale emerge da queste pagine (con il suo senso religioso della vita, il suo amore per la Chiesa, il suo ottimismo,-la sua apertura al dialogo universale, la sua cura per la promozione sociale dei più poveri, la sua sintesi tra i valori religiosi ed umani), fosse di particolare interesse e attualità anche per coloro che vivono la stagione della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.

È dunque in spirito di “servizio” che l'Editrice propone ai lettori questa nuova edizione di un'opera che contribuì come pochissime altre a far conoscere ed amare San Giovanni Bosco.

CAPITOLO I.

Ai Becchi.

Tra il Po e il Tanaro, nella regione fra Torino, Alessandria e Casale, si estende il Monferrato, il paese dalle colline dolcemente ondulate. Vigneti famosi coprono i pendii, conferendo un aspetto inconfondibile al paesaggio bellissimo, ancor oggi ben poco mutato rispetto ai secoli scorsi.

Castelnuovo d'Asti sorge presso i margini settentrionali della storica regione, su un'altura a trenta chilometri da Torino. I ruderi di un castello coprono la cima del colle e per le vie del paese affiorano ancora avanzi di fortificazioni, ricordi di lontani assedi.

Come in quasi tutto il Monferrato, anche qui la popolazione è in lenta ma costante diminuzione: all'ultimo censimento non superava i tremila abitanti. Eppure Castelnuovo è nome conosciuto ovunque. Qui, a distanza di pochi anni l'uno dall'altro, nacquero due santi: Giuseppe Cafasso e Giovanni Bosco.

Quest'ultimo nacque nel territorio, non nel capoluogo del Comune, dal 1930 chiamato ufficialmente Castelnuovo Don Bosco in suo onore.

I genitori del futuro Santo abitavano infatti a cinque chilometri dal centro del paese, presso la frazione di Morialdo, nella località detta i Becchi, ij Bech in piemontese, dal nome di una famiglia Bechis che vi aveva delle proprietà.

Giovanni Melchiorre Bosco nacque qui, il 16 agosto 1815, l'anno della battaglia di

Waterloo, da Francesco Luigi e da Margherita Occhiena. Francesco Bosco era un contadino che, oltre alla povera casetta, possedeva un piccolo terreno non sufficiente a mantenere le sei persone che erano in casa. Era così costretto a lavorare come bracciante sui campi vicini. La casa dei Becchi, oltre la moglie, ospitava la madre del capofamiglia, un suo figlio di dodici anni, Antonio, nato da un primo matrimonio e i due maschi avuti da Margherita Occhiena, Giuseppe e Giovanni. I coniugi Bosco erano giovani - trentun anni

lui, ventisette lei - e il lavoro non li spaventava. Così, nonostante che i tempi fossero particolarmente difficili nell'Italia appena uscita dalla tormenta napoleonica, la povertà della casa non degenerava in miseria se non negli anni in cui la grandine distruggeva ogni raccolto.

In quel 1815 i Becchi (divenuti ora il Colle Don Bosco) non contavano più di dieci case, sparse sulla sommità pianeggiante di una altura: alcune catapecchie di salariati agricoli, la casa di un ricco contadino, un forno, sullo sfondo di un ondeggiare di colline coperte di viti e boscaglie, spesso rifugio degli sbandati delle armate napoleoniche.

In quell'angolo appartato di mondo, la famiglia Bosco viveva serena, quando la sventura giunse improvvisa a sconvolgerla.

Una sera di maggio Francesco Bosco, dopo una giornata di lavoro entrò ancor madido di sudore nella cantina del proprietario presso il quale serviva. Una polmonite violenta in quattro giorni lo condusse alla tomba.

A trent'anni di distanza, i primi ragazzi dell'Oratorio di Torino sentiranno spesso il Santo rievocare il tragico evento: “Non avevo ancora due anni quando mi morì il padre e non ne ricordo nemmeno il volto. Ricordo solo le parole di mia madre: Eccoti senza papà, Giovannino mio. Tutti uscivano dalla camera del defunto, ma io mi ostinavo a rimanere.- "Vieni, Giuanin", insisteva mia madre dolcemente. Se non viene papà, non voglio venire neppure io, rispondevo. "Su vieni, piccino mio, il padre non ce l'hai più". E con queste parole la santa donna, scoppiando in singhiozzi, mi portava via. Io piangevo perché lei piangeva. A quell'età, che cosa può capire un bambino? Ma quella frase: Eccoti senza papà, Giovannino mio, mi è rimasta sempre in mente. Dopo questo primo dolore e fino all'età di cinque anni non ho conservato alcun altro ricordo della mia infanzia”.

Un giorno, pregando accanto alla tomba del Santo, a Valsalice, il cardinale Begin, arcivescovo di Quebec, commenterà con i suoi accompagnatori una riga dell'epitaffio: Orphanorum pater, padre degli orfani. Quanti orfani accolse Giovanni Bosco nella sua vita! Forse, la sorgente di carità che confortò tanti infelici, sgorgò da quel precoce dolore di bambino che a due anni si sentì dire: «Tu non hai più padre!”.

Scomparso il capo della famiglia, la vedova prese in mano le redini del comando e allora si vide quale donna fosse quella contadina analfabeta. Il lavoro delle sue braccia, il suo coraggio, il suo ottimismo e la sua fiducia in Dio fecero camminare la casa come quando il marito era con lei. La suocera, inferma e quasi sempre inchiodata a letto, fu circondata di ogni cura; i figli, i tre figli tra i quali Margherita Occhiena non faceva alcuna distinzione, furono allevati con dolcezza e fermezza da lei, che non ebbe pace fino a che non li vide avviati per la propria strada.

Mamma Margherita aveva innato il senso dell'educazione dei figli. Quella povera illetterata aveva compreso pienamente l'importanza del compito della madre, che il maestro o il prete possono coadiuvare ma non sostituire.

Alla base e al vertice della sua pedagogia intuitiva, Margherita Occhiena aveva posto il senso religioso della vita. Ogni mattina e ogni sera, i tre bambini e le due donne s'inginocchiavano davanti al Crocifisso, chiedendo il pane quotidiano, il coraggio per il dovere, il perdono d'ogni colpa.

Ogni occasione era buona per ricordare ai figli la provvidenza o la giustizia di Dio: una notte stellata, un giorno di neve, un'alba di primavera, una grandinata devastatrice.

“Dio vi vede, figli miei - ripeteva spesso - Dio vi vede. Io posso essere lontana o distratta: Lui è sempre presente”.

Quella donna non sapeva né leggere né scrivere; ma conosceva a memoria il catechismo e la storia sacra, così come allora si insegnavano nelle parrocchie del Piemonte.

Con un lavoro paziente e quotidiano, questa conoscenza ella seppe comunicarla ai figli, risparmiando loro il viaggio a Castelnuovo per la lezione di catechismo. Al parroco non restò che controllare e completare l'opera iniziata.

Prima di ogni altra cosa, Margherita voleva che i suoi figli lavorassero e che nella loro giornata non vi fosse neppure un'ora di ozio. A quattro anni il piccolo Giovanni già sfilacciava,la canapa messa a macerare; più tardi egli e i suoi fratelli aiutavano la madre in tutti i lavori domestici: tagliare legna, attingere acqua, sbucciare legumi, scopare le camerette, condurre le bestie al pascolo, pulire la stalla, sorvegliare la cottura del pane, mungere le vacche. Si lavorava dall'alba al tramonto: mamma Margherita voleva che i figli fossero preparati ad affrontare ogni difficoltà dell'esistenza e che sin dai primi anni la loro vita fosse austera. Nell'umile casetta dei Becchi il sole faceva levare tutti, d'estate come d'inverno: a nessuno dei figli era permesso alzarsi dopo l'alba. La colazione del mattino era ridotta alla più semplice espressione: una fetta di pane asciutto. Le camminate più lunghe non spaventavano i ragazzi, e più tardi Giovanni andrà due volte al giorno a Castelnuovo per la scuola, percorrendo così venti chilometri. La sera, se un mendicante di passaggio domandava ospitalità o se un vicino ammalato faceva appello alla loro carità, i ragazzi erano subito in piedi pronti ad ogni servizio. A letto, li accoglieva il rozzo pagliericcio di foglie di granoturco. Educazione spartana che farà di quei tre ragazzi uomini forti e vigorosi, lavoratori instancabili.

Mamma Margherita voleva essere obbedita e lo era. Ogni giovedì partiva per Castelnuovo per portare al mercato il burro e le uova e prima di mettersi in cammino assegnava a ciascuno dei figli il lavoro da compiere nella giornata: al ritorno, prima di distribuire ai ragazzi ciò che aveva portato dal paese, esigeva di controllare se il loro compito era stato eseguito bene.

Ai Becchi si era poveri ma forse proprio per questo c'era sempre posto per il più povero che bussava alla porta; nella zona si era sparsa rapida la voce di quella ospitalità e i clienti non mancavano mai. Il più delle volte erano mendicanti, vagabondi o merciaioli ambulanti, ma spesso anche disertori o briganti braccati dai carabinieri. Calata la notte, questa gente andava a bussare alla porta che sempre si apriva.

A chiunque domandasse ospitalità, mamma Margherita offriva il piatto di minestra e la fetta di polenta e preparava un giaciglio sul fienile. Spesso, ai piedi della collina, apparivano i pennacchi dei Reali Carabinieri, istituiti proprio* in quegli anni da Vittorio Emanuele I per riportare ordine nel Paese sconvolto da guerre, rivoluzioni, occupazioni straniere.

Mentre l'ospite dei Bosco fuggiva da una porta, dall'altra entravano le guardie: un bicchiere di vino, due chiacchiere in amicizia, salvarono la casa da innumerevoli perquisizioni. Per mamma Margherita, tutti quegli sventurati che facevano appello alla sua generosità non erano che dei “bravi amici”: dalla madre Giovanni imparava la carità fattiva verso i reietti della società.

A queste testimonianze di solidarietà umana, la donna aggiungeva l'esortazione continua alla pratica delle virtù cristiane alle quali cercava di piegare i figli più con la dolcezza dei modi che con l'accento dell'autorità. Con grande senso della misura, ella sapeva tenersi lontana tanto da una severità intrattabile quanto da sdolcinature fatte di lusinghe, di carezze, di preghiere. Né carezze fuori luogo, né, tanto meno, strilli o rimbrotti: la calma, la serenità, la mitezza erano le sue armi. Non percosse mai i suoi figli, ma non cedette in nessun caso ai loro capricci; minacciava il castigo, ma sapeva arrendersi al primo segno di pentimento.

Ispirava soprattutto nei suoi ragazzi una tenerezza vivissima verso di lei e un timore estremo di dispiacerle.

Crescendo, i ragazzi rivelavano nature piuttosto diverse. Antonio, il maggiore, si mostrava spesso violento, grossolano, fiero della sua superiorità di anni e dei suoi muscoli robusti. Era quasi l'antitesi di Giuseppe, mite, umile, molto intelligente ed ingegnoso.

Giovanni mostrava sin da quei primi anni un temperamento ardente e volitivo. Parlava poco ed osservava molto. Quella piccola testa rotonda, solida, ricciuta, nascondeva un'intelligenza vivace, una rara forza di volontà e un senso innato del dovere.

Inoltre un cuore, un cuore grande e quella immaginazione sveglia che dall'infanzia al termine della vita andrà architettando sempre nuove “trovate”.

Giuseppe e Giovanni erano uniti (lo saranno per tutta la vita) da grande affetto; con

Antonio era tutt'altra cosa. Egli abusava del suo titolo di primogenito per imporre la sua volontà e della forza per dominare i fratellastri. Se quella di Giovanni fu una infanzia dolorosa, gran parte della responsabilità è da attribuire al carattere violento di Antonio. Dai nove ai quindici anni, il più piccolo dovette soffrire le imposizioni del maggiore, la cui invidia si ostinava a volerne fare un contadino, nonostante chiari segni lo mostrassero portato allo studio.

Molte volte la madre dovette intervenire per sottrarre i due figli minori ai pugni di Antonio o per consolarli dopo una zuffa in cui le loro forze, pur alleate, avevano avuto la peggio. In quei momenti, dominando il dolore, si limitava a rimproverare il ragazzo che abusava così della forza fisica. Ci furono persino dei giorni in cui fu visto Antonio stringere i pugni ed avanzare minaccioso verso la matrigna che, senza scomporsi, sapeva dominare quella furia con una calma fermezza, senza ricorrere mai al bastone.

Quando Giovanni Bosco, divenuto sacerdote, si vedrà circondato da una moltitudine di giovani, rievocherà tutte queste scene della sua infanzia, rivedrà sua madre alle prese con tre ragazzi spesso indocili, e, ricordando tutti i metodi di pazienza, di fermezza, di sorridente autorità che ella impiegava per vincerli, cercherà di imitare mamma Margherita.

Quell'umile donna analfabeta fu dunque la prima formatrice del suo pensiero; è Margherita Occhiena che sta alla base delle intuizioni di uno dei massimi educatori del XIX secolo.

Il cardinale Vives y Tuto, il primo difensore della causa di beatificazione di Giovanni Bosco davanti ai tribunali romani, dirà un giorno: “Nella mia vita ho esaminato tante cause ma non ne ho trovata alcuna che traboccasse letteralmente di soprannaturale come questa”.

Già nella prima infanzia di quest'uomo, ci imbattiamo in un episodio misterioso che avrà la sua parte nell'indirizzario verso il sacerdozio. Un sogno, un semplice sogno che, come una costante, si ripeterà nei momenti decisivi della vita, riempie di turbamento il fanciullo.

Aveva allora circa nove anni.

Gli era parso, disse svegliandosi, di trovarsi in mezzo a una folla immensa di ragazzi che urlavano e bestemmiavano. Giovannino voleva fare cessare quel tumulto, prima gridando più forte di loro, poi ricorrendo ai sodi pugni di contadinello. Ma un Personaggio misterioso gli si avvicinò e gli disse: “No, no! Non con la violenza! È con la dolcezza che potrai guadagnarti la loro amicizia”. Allora quei discoli, che per un momento si erano trasformati in animali di ogni specie, divennero agnellini timidi e docili, mentre una voce di donna diceva: “Giovanni, portali a pascolare. Più tardi comprenderai il significato di quanto ora vedi”.

Al mattino, il sogno fu raccontato in casa e ognuno volle spiegarlo a suo modo. - Forse diventerai un guardiano di bestie - disse Giuseppe.
- No, no, un capo di briganti! - corresse sarcastico Antonio.
- Non diamo troppa importanza ad un sogno - borbottò la vecchia nonna.

Ma la mamma, la mamma che era stata pensierosa ad ascoltare, disse: - Chissà che Giuanìn non abbia a diventare prete?

Il suo intuito aveva presentito giusto: negli anni seguenti il ragazzo manifesterà più volte alla madre il desiderio di farsi prete. E la mamma a ripetere:

- Prete! Prete! Si fa presto a dirlo? Ma quale motivo hai?

- Sentite mamma - rispondeva Giovanni - se fossi prete dedicherei la mia vita ai ragazzi, li amerei e mi farei amare da loro. Per loro darei tutte le mie forze, tutto il mio tempo.

Questo precoce programma di apostolato egli già lo attuava ai Becchi e in forme di originalità straordinaria.

Durante un soggiorno fatto all'età di nove anni presso una zia a Capriglio, un paesetto distante pochi chilometri, aveva imparato a leggere molto speditamente e questa abilità gli permetteva di animare

le veglie d'inverno. Nelle cascine dei dintorni si faceva a gara per avere il piccolo lettore, tanto sapeva dare colore e vita al racconto. Ritto sopra uno sgabello o una sedia declamava i Reali di Francia o qualche altra di quelle opere avventurose e cavalleresche che costituivano le letture preferite nelle campagne italiane nei secoli scorsi.

I contadini ascoltavano affascinati e intanto, all'inizio e alla fine della lettura, Giovannino era riuscito a fare recitare da tutti una preghiera. Quando arrivava primavera, il lettore si trasformava in giocoliere, in prestigiatore, in saltimbanco. Nel prato davanti a casa distendeva una fune da un pero a un ciliegio, spiegava un tappeto per terra e il pomeriggio della domenica, davanti a spettatori numerosi, giovani e adulti, eseguiva un programma completo di varietà. Ginnasta, moltiplicava i salti mortali e camminava con le gambe all'aria; prestigiatore, raddoppiava un paio d'uova, cambiava l'acqua in vino, tirava fuori monete dal naso degli spettatori; giocoliere, saltava, correva, danzava sulla corda tesa, si sospendeva prima con un piede, poi con due. Insomma, eseguiva quei mille giochi di abilità e di destrezza che aveva imparato dai saltimbanchi a Castelnuovo allorché accompagnava la madre al mercato e che ripeteva di nascosto, per allenamento, nei momenti liberi dal lavoro dei campi.

La recita in comune del rosario e l'ascolto di un fervorino costituivano l'originale biglietto d'ingresso che il giocoliere esigeva dagli spettatori dei suoi trattenimenti.

Spirito di osservazione, corpo agile e docile al comando, dono raro d'imitazione, audacia: aveva tutto per riuscire bene.

L'audacia lo accompagnerà per tutta la vita e lo sorreggerà in imprese giudicate pazzesche dal buon senso comune. In quelle imprese, egli ritornerà il piccolo funambolo dei prati dei Becchi che avanza coraggiosamente sulla linea del pericolo, la varca con passo sempre più sicuro e tocca vittoriosamente la mèta.

Nella diocesi di Torino, a quei tempi, non si era ammessi alla prima Comunione se non verso i dodici o tredici anni. Per Giovannino Bosco si fece un'eccezione e a dieci anni e mezzo potè accostarsi al Sacramento. Fu nella Pasqua del 1826, nella chiesa parrocchiale di Castelnuovo. Di questo grande avvenimento ci restano i consigli dati la sera di quel giorno da mamma Margherita al suo figlio più piccolo:

“Giovannino - gli disse - io ho la certezza che stamattina il Signore ha veramente preso possesso del tuo cuore. Promettigli di mantenerti buono e puro sino al termine della vita. Comunicati spesso, ma guar

dati dai sacrilegi. Confessati perciò sinceramente e spesso. Sii ubbidiente: compi volentieri i tuoi doveri religiosi e stai lontano quanto puoi dai compagni cattivi”. Sul manoscritto in cui Giovanni Bosco annotò più tardi questi consigli materni, si legge poi: «Io mi sforzai di mettere in pratica queste raccomandazioni e da quel giorno mi parve che la mia vita divenisse migliore. Imparai soprattutto ad obbedire, a stare sottomesso, mentre prima opponevo spesso il mio capriccio agli ordini e ai consigli di chi mi comandava”.

Alcune settimane dopo, all'inizio di primavera di quello stesso 1826, sembrò che la Provvidenza volesse incamminare il fanciullo verso la mèta desiderata: un piccolo incontro, una conversazione lungo una strada, parve dovergli aprire l'accesso agli studi. Fino a quel giorno non ci si era potuto neppure pensare; la povertà dei Bosco non permetteva certo di sostenere le spese per uno studente. Nonostante la vivacità della intelligenza e l'ardore del desiderio, Giovanni continuava a vangare la terra.

Stava per compiere undici anni e sapeva soltanto leggere. Tuttavia né egli né la madre perdevano la speranza in giorni migliori e aspettavano l'ora della Provvidenza.

In quell'anno il Giubileo indetto da Leone XII, che alcuni mesi prima aveva attirato a Roma circa 400.000 pellegrini, era stato esteso alla cristianità universale e anche nella diocesi di Torino si potevano ottenere le indulgenze concesse per l'anno santo. La famiglia Bosco, più vicina a Buttigliera che a Castelnuovo, decise di prendere parte agli esercizi in quella

parrocchia, che invitava i fedeli per otto giorni consecutivi. Buttigliera è a quattro chilometri dai Becchi. Per acquistarsi le grazie dell'anno santo, Giovanni non esitava a percorrere sedici chilometri al giorno per recarsi ad ascoltare le prediche dell'alba e della sera.

Dopo l'ultima istruzione i fedeli ritornavano a gruppi - quando il sole era già tramontato - ed all'inizio dei sentieri, alcuni prendevano la direzione dei Becchi, altri quella di Capriglio, altri ancora quella di Morialdo.

Un prete, un vecchio settuagenario, ritornava così ogni sera con i suoi fedeli. Era Don Giovanni Calosso, da poco ritiratosi come cappellano a Morialdo. Nonostante l'età, faceva anch'egli tutti quei chilometri per meritarsi il perdono del Giubileo. Cammin facendo, osservava fin dal principio della settimana quel ragazzo dai capelli ricciuti che, un po' in disparte dagli altri, sembrava meditare in silenzio la parola dei predicatori. Provò ad interrogarlo e fu sbalordito quando

il fanciullo gli ripetè, a memoria e per intero, le quattro meditazioni della giornata.
- Come ti chiami? Chi sono i tuoi genitori? Dove vai a scuola? - chiese il vecchio prete

al colmo della sorpresa.
- Mi chiamo Bosco Giovanni. Mio padre è morto quando ero piccolo e io sto con mia

madre che deve mantenerci in quattro. A scuola non ci vado, ma so leggere e anche un poco scrivere.

- Ti piacerebbe studiare?
- Oh, sì, tanto!
- Perché non lo fai?
- Perché Antonio, il mio fratellastro, non vuole. Lui dice che uno ne sa sempre

abbastanza per lavorare i campi.
- Perché ti piacerebbe studiare?
- Per farmi prete.
- E perché vorresti farti prete?
- Per occuparmi dei ragazzi. Non sono mica cattivi, io li conosco bene. Ma nessuno

pensa a loro.
Il breve dialogo doveva rivelarsi decisivo per l'avvenire di Giovannino. Don Calosso lo

invitò a servirgli la Messa il giorno dopo; Giovannino andò e la domenica dopo andò anche la madre. Il cappellano l'aveva infatti convocata per proporle di tenere ogni mattina il figlio a lezione, a partire dal novembre. Il resto della giornata, Giovanni avrebbe continuato a passarlo sui campi perché Antonio era sempre li a vegliare, geloso e prepotente, su quello che giudicava il vero interesse della casa.

Fu meraviglioso per il ragazzo l'anno passato presso il cappellano di Morialdo; finalmente egli aveva trovato non solo il maestro ma anche il sacerdote che aveva sempre desiderato: buono, semplice, paterno e nello stesso tempo pio, saggio nei consigli, austero nelle abitudini di vita.

Dopo tre mesi di grammatica italiana, a Natale cominciò lo studio del latino. Egli stesso confessò che le prime declinazioni furono dure da affrontare, ma ci si mise con tanto impegno che a Pasqua aveva già percorsa, seppure sommariamente, tutta la grammatica latina.

- È un portento di memoria vostro figlio! - diceva a Margherita il buon Don Calosso tutte le volte che la incontrava. - Bisogna che continuiate a mandarmelo! - Ella lo avrebbe fatto ben volentieri, ma purtroppo quelle ore di scuola sottratte al lavoro dei campi innervosirono nuovamente Antonio non appena giunse la primavera.

Inutilmente Giovannino lavorava per due e studiava di nascosto, nell'andare e nel ritornare da Morialdo o alla sera: la sola vista di un libro rendeva furioso quel violento. Un giorno non si tenne più:

- Basta, non voglio più vedere in casa tutte queste grammatiche! Non c'è bisogno di

queste cose per vivere. Io sono diventato grande e grosso senza libri!
- Hai proprio ragione, Antonio - disse Giovanni con aria maliziosa.
- Come? - replicò l'altro sorpreso di quella imprevedibile arrendevolezza.
- Sì, hai ragione. Infatti il nostro asino è ancora più grosso di te eppure non è mai

andato a scuola.
Allo humour del fratello, Antonio, secondo il suo solito, reagì ricorrendo alle mani, ma

Giovannino con una piroetta scansò il colpo.
Altre volte il villano ricorreva al sarcasmo: “Guardatemi questo signorino che vuole

studiare! Vuol viversela comodamente, mentre noi si continua a mangiare polenta. Ma credi proprio che noi vogliamo romperci la schiena sulla terra per mantenere te a far niente?”.

La situazione andava facendosi tanto tesa da non potere durare a lungo. Mamma Margherita lo capì; l'autunno seguente, per amore di pace, gli fece sospendere le lezioni e poiché questo non bastava a quietare l'animosità del figliastro, una sera d'inverno si decise al grande sacrificio.

- È meglio che tu ti allontani, Giovanni - gli disse piangendo. - Vedi bene che Antonio non si calma. Va a cercare lavoro nei poderi vicini. Se non lo trovi, arrivato a Moncucco, domanda della famiglia Moglia: è ricca e buona e ti accoglierà. Credo faresti bene a partire domani stesso.

Febbraio 1828. È l'alba, le colline sono coperte di neve, strette nella morsa dell'inverno piemontese. Giovanni Bosco, tredici anni, un fagottino con due camicie, due fazzoletti, due grammatiche, lascia piangendo la casa dov'è nato. Va in cerca di lavoro. Nessuno vuole assumerlo: anche i Moglia fanno difficoltà. C'è poco lavoro e molta manodopera, e poi i garzoni di campagna non si assumono che a fine marzo. Luigi Moglia sembra inflessibile:

- Abbi pazienza, ritorna a casa tua.

- Per carità, per carità, signor Moglia! Prendetemi anche senza paga. Ecco, adesso mi siedo qui per terra e non vado più via.

Ora Moglia è perplesso: quel Giovannino piange come solo un bambino sa piangere.

- Prendilo, Luigi, proviamo a tenerlo per qualche giorno! È la moglie che è arrivata in quel momento.

Giovanni doveva restare quasi due anni sotto quel tetto ospitale, come garzone modello che, entrato per le sole spese, vide la paga salirgli a quindici, a trenta, a cinquanta lire l'anno, tanto i suoi servizi erano trovati preziosi.

A Moncucco portò le abitudini dei Becchi: se durante la settimana faceva il servizio di stalla, la domenica, nel fienile del podere, riuniva i ragazzi della zona per insegnar loro il catechismo o raccontare qualche parabola tratta dal Vangelo.

Lo seguiva anche qui, continuo, insistente, il desiderio di giungere al sacerdozio e se ne confidava con i padroni.

- Ma come farai a studiare, Giovanni? - chiedevano quelli. - Ci vogliono quasi diecimila lire per diventare prete. Dove potrai trovarle?

- Non lo so: so soltanto che prima o poi ci arriverò.
E per non dimenticare ciò che Don Calosso gli aveva insegnato, mentre le bestie

pascolavano ripassava le sue grammatiche.
Col dicembre del 1829 la dura prova sembrò finita. Un mattino, mentre conduceva al

pascolo le vacche, Giovanni incontrò lo zio Michele Occhiena, contadino alquanto arricchito con il commercio del bestiame.

- E così, Giovannino, ci stai contento dai Moglia?

- Qui tutti mi vogliono bene, ma io vorrei studiare e intanto gli anni passano: tra poco avrò quindici anni.

- Senti, Giovanni - disse lo zio dopo averci pensato su qualche istante. - Lascia fare a me: prendi il tuo fagotto e ritorna ai Becchi. Penserò io a parlare a tua madre e vedrai che tutto si accomoderà.

A casa, la sera di quello stesso giorno, la madre non potè accogliere Giovanni per non far credere ad Antonio che quel ritorno a casa fosse stato voluto da lei; e il poverino dovette aspettare nascosto in un fosso l'arrivo dello zio Michele dal mercato di Chieri. Quando questi finalmente arrivò, a notte fatta, raccolse il nipote intirizzito e lo condusse in casa, dove riuscì

a persuadere il terribile Antonio a riaccoglierlo in famiglia.
Pregati anch'essi da Michele Occhiena, i parroci di Castelnuovo e di Buttigliera si

schermirono quando fu loro chiesto di continuare le lezioni di latino al ragazzo: avevano già sin troppo lavoro, dicevano, per assumersi altre responsabilità. Allora ci si rivolse nuovamente a Don Calosso, sempre più vecchio e acciaccato. Egli accettò con gioia

di riprendersi il caro alunno e la sua carità si spinse anche oltre: “Non temere per il tuo avvenire, Giovanni. Finché sarò in vita ti aiuterò e se il Signore mi chiamerà presto a sé ho preso già le disposizioni per farti andare avanti sino alla fine dei tuoi studi».

Ogni ostacolo sembrava dunque rimosso e la strada si apriva dritta e luminosa dinanzi alla fantasia del piccolo Bosco.

Purtroppo, Giovanni dovette per un'ultima volta vedere sorgere, tra il desiderio unico della sua vita e la realizzazione, la volontà ostinata del fratellastro. Ma questa volta intervenne la madre. Ella aveva pazientato sino a quel giorno, sperando che la sua tollerante dolcezza avrebbe finito con lo spezzare l'opposizione. Vedendo inutili tutti i suoi sforzi, prese la decisione che poteva assicurare ad un tempo, la vocazione del figlio, la tranquillità della casa e l'avvenire di tutti: chiese cioè la divisione legale del patrimonio. Antonio tentò di opporvisi, ma invano. Ella tenne duro e dopo qualche mese la spartizione fu fatta.

Alcuni giorni dopo, Giovanni prese alloggio anche per» la notte presso il cappellano di Morialdo.

“Nessuno - scriveva più tardi - nessuno avrebbe potuto avere un'idea della mia felicità! Don Calosso era per me l'angelo del Signore. Io l'amavo più di un padre, pregavo continuamente per lui, era per me una gioia poterlo servire in tutto. L'unico piacere che provavo era di affaticarmi al suo servizio per attestargli la mia gratitudine. In un giorno, nella sua umile casetta, progredivo tanto quanto in una settimana ai Becchi”.

A troncare quella gioia, giunse ancora una volta la morte. Una sera di novembre che Giovannino era andato ai Becchi, alcune persone di Morialdo corsero ad avvertirlo che Don Calosso era stato colpito d'apoplessia. Quando giunse al capezzale del vecchio prete, la paralisi aveva fatto il suo effetto: Don Calosso non parlava più. A gesti potè tuttavia indicare che sotto il guanciale c'era una chiave, che quella chiave apriva il cassetto della sua scrivania e che tutto quello che stava dentro era per lui, Giovanni. Questo avveniva il 19 di novembre; la sera del 21 Don Calosso spirava all'età di settantacinque anni.

Dopo la morte del buon vecchio giunsero i parenti e Giovannino si sentì attanagliato tra la volontà espressa con sufficiente chiarezza dal defunto e le pretese dei congiunti.

Giovanni condensò in pochissime parole lo scioglimento del dilemma scrivendo: «Quando vennero gli eredi di Don Calosso, consegnai loro la chiave della scrivania e tutto ciò che loro apparteneva”.

Nel cassetto c'erano seimila lire: quanto sarebbe bastato per permettergli di portare a termine gli studi per il sacerdozio.

Quella morte e quella volontaria rinuncia a un suo diritto, lo risospingevano in alto mare: e aveva ormai passato i quindici anni.

Quantunque l'anno scolastico fosse cominciato da tempo, la madre decise di fargli frequentare a Castelnuovo il corso di latino tenuto da un sacerdote. Nell'entusiasmo per questa possibilità di continuare in qualche modo gli studi, Giovanni percorreva venti chilometri a piedi ogni giorno, spesso scalzo per risparmiare le scarpe.

Le prime settimane a Castelnuovo furono piuttosto penose. Gli studentelli del luogo non la finivano di prendersi gioco di questo giovanotto quasi sedicenne che veniva dai Becchi ed era infagottato in un cappottone preso chissà dove.

A questa prova che egli sopportava sorridendo, se ne aggiungeva una più dura che già altre volte lo aveva avvilito: non c'era modo di accostare i sacerdoti.

“A Castelnuovo - scriverà Don Bosco - io vedevo parecchi buoni preti che lavoravano nel sacro ministero ma non potevo contrarre con loro alcuna familiarità”.

Se ne sfogava spesso con la madre: - Se io fossi sacerdote, non agirei così. Mi avvicinerei ai fanciulli, li riunirei, li amerei e mi farei amare; e con gli esempi e le parole lavorerei per la loro salvezza. Così faceva Don Calosso.

- Che ci possiamo fare, Giovanni? Pensa che hanno tante altre cose da fare. Vorresti che perdessero tempo anche con i ragazzi?

- E Gesù lo perdeva forse con i fanciulli che si raccoglievano attorno a Lui anche contro la volontà degli apostoli? Se un giorno sarò prete, i ragazzi non mi vedranno mai passare così, accanto a loro, ma sarò sempre il primo a rivolgere loro la parola.

L'insegnante di Castelnuovo, un prete sui settantacinque anni, non si mostrò mai troppo tenero verso quello scolaro che veniva dai Becchi.

Per Giovanni, quello fu un anno di scuola che, come scrisse, rischiò di mandare al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato.

Apprese almeno, e piuttosto bene, il mestiere di sarto del suo ospite: nelle ore libere lo si vide attaccare bottoni, fare orlature, cucire.

Un'abilità che con gli anni si rivelerà per lui preziosa quanto la conoscenza del latino.

Nelle vacanze del 1831, si riunì alla famiglia che non risiedeva più ai Becchi: nella vecchia casa, dopo la spartizione della proprietà, risiedeva Antonio che nel marzo aveva sposato una ragazza dei dintorni. Agli altri familiari erano rimaste alcune stanze soltanto, ma ormai la madre e Giuseppe abitavano a qualche chilometro di distanza, al SuS' sambrino, un podere preso a mezzadria.

In quell'estate, mamma Margherita tanto brigò da trovare per Giovanni un posto di domestico a Chieri presso la madre di uno studente. Oltre al lavoro da fare, c'era anche da pagare una pensione di venti lire al mese, ma era già straordinario l'avere trovato quella occasione di proseguire gli studi.

Nell'agosto, Giovanni aveva avuto un sogno che sembrò predirgli quella inaspettata fortuna:

“Vidi venire una grande Signora che pascolava un gregge numeroso. Mi chiamò per nome e mi disse:

- Vedi questo gregge, Giovannino? Io te lo affido.

- Ma come farò, Signora, ad allevare tante pecore e tanti agnelli? Non ho un pascolo dove possa condurli.

- Non temere, Giovanni. Io ti aiuterò. Detto questo, scomparve”.

All'inizio di autunno del 1831 Giovanni Bosco, lo studente in partenza per Chieri, girava di casa in casa i dintorni di Castelnuovo chiedendo ai vicini una elemosina per comprare un vestito e pagare un trimestre di pensione.

La carità dei contadini riempì di doni il sacco del ragazzo. Anche il prevosto di Castelnuovo diede un'offerta per quel parrocchiano derelitto.

Giovanni partì un mattino dal Sussambrino con due sacchi di farina di grano e di granturco sulle spalle. Fece tappa al paese vendendo qualcosa per comprare quaderni e penne e proseguì per Chieri con il resto della farina.

Finivano quel giorno sette anni di scuola irregolare. Davanti al ragazzo si apriva finalmente la prospettiva di studi sistematici.

Era il 4 novembre del 1831.

CAPITOLO II.

Chieri.

Chieri, dove il giovane Bosco doveva passare dieci anni della sua vita, è la prima città che incontra dopo avere valicato le colline chi da Torino si diriga verso Asti e Alessandria.

Popolosa città romana già dal II secolo a.C, sotto Augusto fu città fortificata. Al tempo dei liberi Comuni, nei secoli XII e XIII, fu potente e temuta: minuscola repubblica che aveva il

diritto di battere moneta ed estendeva il suo dominio su trenta fra villaggi e castelli della pianura.

La sua posizione è invidiabile: distesa ai piedi della collina di Torino, nel versante opposto a quello della vecchia capitale, guarda l'immensa pianura che si estende sino ad Asti.

Un tempo fu chiamata Chieri dalle cento torri, perché tutte le famiglie del luogo vi avevano innalzato quei segni della loro potenza. Al tempo di Don Bosco non era ormai altro che la città dei conventi, degli studenti e dei tessitori, sfondo un po' sfumato della metropoli vicina.

La religiosità dei Chieresi era testimoniata dal numero straordinario di conventi: Domenicani, Filippini, Gesuiti, Francescani, Clarisse, ed altri Ordini avevano allora in città (ed alcuni hanno ancora) le loro case, con centinaia di religiosi.

La cattedrale gotica, elevata sul principio del secolo XV, con le sue cinque navate e i ventidue altari, è la più vasta di tutto il Piemonte ed è costruzione ammirevole per ampiezza e maestà. Città di ricordi, città di pietà, città di studio, essa doveva essere la prima stimolatrice e animatrice dello spirito ardente del contadino che vi giungeva dai Becchi.

A quei tempi la vita degli studenti poveri era particolarmente dura. Borse di studio non esistevano, se non in forma estremamente ridotta e in ogni caso insufficiente al bisogno, sicché il giovane che

intendeva studiare doveva cavarsela con sacrifici talvolta eroici. I corsi erano semigratuiti, ma c'era tutto il resto da pagare; e non era poco. Ordinariamente gli studenti andavano a pensione da coro- paesani che offrivano loro la casa, il letto, il vitto; si pagava in denaro o in natura, con sacchi di cereali, di patate, di castagne o con brente di vino. Si pagava anche in lavoro, mettendosi, dopo la scuola, a disposizione del padrone di casa per ogni sorta di servizi.

Mamma Margherita ogni sabato arrivava da Chieri con il suo pagnottone di pane di segala per la settimana e la sua provvista di mais, di farina di grano, di castagne. Non occorre dire che nelle serate d'inverno - l'inverno tanto duro in Piemonte - s'ignorava troppo spesso la dolcezza di un po' di fuoco. Si soffiava sulle dita, si battevano i piedi e poi ci si rimetteva sopra i libri. E quei libri, quella carta, quel calamaio, quelle penne, bisognava comprarseli con mille espedienti, arrangiandosi con ripetizioni, con lavori di scrittura, con servizi manuali talora gravosi e umilianti.

A quella scuola di povertà gli studenti bisognosi tempravano però un carattere di uomini che più tardi avrebbero saputo guardare in faccia alla vita.

La parte di miseria toccata a Don Bosco studente non fu piccola. Per pagare la pensione accettò con gioia non solo il servizio di domestico presso la padrona di casa, ma anche quello di ripetitore presso il figlio di lei. Visse in questo modo due anni; poi, avendo il suo allievo terminati gli studi, Giovanni dovette trovarsi un altro tetto al medesimo prezzo. Andò ad alloggiare dal proprietario del caffè Pianta, presso la Piazza Grande. Gli ultimi due anni di ginnasio trascorsero lì, in quel locale che al mattino scopava prima di andare a scuola e dove la sera vegliava sino a tardi per scrivere e contare i punti dei giocatori di biliardo. Divenne presto abilissimo anche nel preparare la specialità della casa e il padrone gli propose più volte una carriera nel commercio. Erano proposte che lo facevano sorridere: nelle ore di riposo continuava a studiare assiduamente il latino. È ancora possibile vedere nel sottoscala del caffettiere il bugigattolo oscuro in cui alloggiava e dove, dopo aver chiuso le porte del locale, si chinava sui libri alla luce di una candela.

Era ormai sui diciotto anni. Lavorava dall'alba a notte inoltrata, il corpo e la mente non riposavano un attimo. Per sostenere quello sforzo avrebbe avuto bisogno di ben altro alimento che la minestra del padrone e quel po' di provviste che gli portava la madre.

Anche a Chieri, Bosco fu un allievo eccezionale. A scuola passò di successo in successo; superò sempre gli esami con il massimo dei voti, ogni anno fu dispensato dalle dodici lire di

tasse.
Lo aiutava sempre quella memoria che aveva sbalordito Don Calosso.
Un giorno, chiamato per una interrogazione, si accorge di avere dimenticato nel

sottoscala il libro di Cornelio Nepote usato come tèsto di lettura latina. Senza perdersi d'animo prende la grammatica e fingendo di leggere sul testo si mette a tradurre il brano assegnato per quel giorno. I compagni si sono accorti della cosa e bisbigliano tra loro. Innervosito, il professore chiede a Bosco di rileggergli il testo, facendone costruzione e analisi logica. L'allievo obbedisce provocando esclamazioni ad alta voce nei compagni che alla fine esplodono in un applauso. Quando l'insegnante comprende finalmente le ragioni dello schiamazzo, inaudito e intollerabile nelle scuole del tempo, lo stupore gli impedisce di pensare a un castigo.

- Felice memoria la vostra, amico mio! - dice a quel suo alunno tanto fuori del comune. - Per essa vi perdono di avere dimenticato il libro e di aver distratto la classe. Nella vita, cercate di fare buon uso di queste vostre doti.

A Chieri, come già ai Becchi, alla cascina Moglia, a Castelnuovo, i pensieri di Giovanni sono per i giovani, quei giovani di cui nessuno si occupa, che giocano per le strade od oziano nei locali di ritrovo. Alcuni di questi cercano di trarre con loro l'impacciato studente arrivato dai Becchi: «Ne ho conosciuto più d'uno che tentò persino di avermi per compagno a rubacchiare pei campi; e uno di essi osò un giorno suggerirmi di rubare del danaro alla mia padrona di casa per comprarmi dei dolciumi”.

Da questo tipo di compagni si tenne lontano, non presumendo troppo, in quegli anni, della sua capacità di attirarli ad una vita più ordinata.

La sua tenace volontà di apostolato si indirizzò piuttosto verso la massa dei timidi, dei deboli, degli ignoranti, di tutti coloro che rischiavano di perdersi per l'abbandono in cui erano lasciati.

Cominciò col riunirli in una brigata di compagni che battezzò Società dell'allegria. Gli statuti sociali si componevano di due soli articoli: ogni membro doveva fuggire tutti i discorsi e tutte le azioni indegne di un buon cristiano e i soci dovevano distinguersi per diligenza nel compiere i loro doveri scolastici e religiosi. Oltre a questo, c'era l'ordine per tutta la brigata di fuggire la tristezza e la malinconia.

Mai ordine fu preso tanto alla lettera! Sotto la guida di Giovanni, la chiassosa comitiva girava le colline e si spingeva talvolta sino a Torino. Quei trenta chilometri a piedi tra andata e ritorno non li spaventavano certo, che si poteva poi magnificare ai compagni più pigri le meraviglie della capitale. Fu in una di queste occasioni che Giovanni Bosco vide per la prima volta Torino, la “popolosa città” che gli sarà mostrata in sogno come campo del suo apostolato.

Nelle sere calde, in un prato fuori porta, l'inesauribile giocoliere dava ancora spettacolo e, come un tempo, tutta quell'allegria finiva in preghiera. Una volta alla settimana, la Società dell'allegria teneva la riunione al chiuso dove si parlava di tutto, ma soprattutto di argomenti religiosi. La domenica pomeriggio poi, tutti erano pronti a recarsi nella chiesa dei Gesuiti per la lezione di dottrina cristiana. Quell'usanza, cui Giovanni teneva moltissimo, provocò un episodio di cui tutta Chieri parlò per un pezzo.

Da parecchi giorni era infatti giunto in città un giocoliere che aveva fama di essere molto abile. Bosco non si preoccupava certo per l'arrivo di un “collega”; ciò che lo preoccupava era che il saltimbanco rischiava di allontanare molti dalla funzione domenicale, dando spettacolo anche all'ora della predica dai Gesuiti.

Dopo inutili approcci per venire a un accordo, Giovanni decise di sfidare pubblicamente l'acrobata e di intimargli, in caso di vincita, di spostare gli orari.

Il giorno della sfida, si radunò sul posto una gran folla.

Primo round: la corsa. Partono assieme dalla porta verso Torino, ma alla mèta, al capo opposto della città, Giovanni ha un vantaggio notevole.

Si passa al salto e anche qui Bosco ha la meglio, tra la sorpresa di tutti e la stizza del giocoliere.

- Eppure - grida questi - finirò coli'umiliarti! Scegli il gioco che preferisci e vedrai.

- Scelgo il «ballo del bastone»! - ribatte Giovanni.

- D'accordo!
E il bastone si mette a saltare dalla palma della mano di Bosco alla punta di ogni dito,

poi sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla testa, per ritornare poi docilmente al punto di partenza.

Toccava ora al giocoliere di professione. Era bravissimo, sembrava imbattibile, già la folla si preparava ad applaudire, quando un piccolo

urto con la punta del naso arrestò il bastone che cadde a terra, ingloriosamente.
Il poveretto non ci vedeva più dall'umiliazione.
- Cento lire! - gridò allora. - Cento lire per chi arriva più in alto su quell'olmo!
Buttò via la giacca e in un attimo fu tra i primi rami dell'albero altissimo. Con agilità

prodigiosa, in pochi minuti raggiunse la cima. Più in su non si poteva arrivare. Ridiscese in mezzo alle acclamazioni.

- Questa volta, Giovanni, hai perso! - gli disse un compagno amareggiato.

- Vedremo! - E cominciò ad arrampicarsi con velocità non minore.
Quando arrivò alla sommità, la folla a bocca aperta vide quell'agile corpo di adolescente appoggiarsi con le mani al ramo più alto ed elevarsi con la testa in giù in una verticale perfetta. I piedi passavano ora la cima dell'albero; da terra salì l'urlo della folla che

acclamava.
La Società dell'allegria non abusò della vittoria: l'offerta di una merenda e la promessa

di spostare lo spettacolo della domenica pomeriggio furono le condizioni imposte al vinto, diventato subito grande amico di tutti.

Un'amicizia soprattutto segnò gli anni di Chieri, influendo in modo profondo sull'animo di colui che un giorno la Chiesa avrebbe proclamato santo. Una sera a Chieri, in una pensione di studenti, la conversazione cadde sulla testimonianza di vita cristiana di alcuni giovani della città.

“Io conosco un ragazzo che passa per santo!” disse in quel punto il padrone di casa. “Si chiama Comollo, è il nipote del curato di Cinzano”.

A questa solenne affermazione Giovanni, che era presente, non seppe trattenere un sorriso. Un santo non è cosa di tutti i giorni e un santo così precoce era davvero curioso.

«Eppure è proprio come dico io! - insistè l'uomo. - Del resto anche suo zio è molto venerato dai parrocchiani del paese”.

Stuzzicato dalla curiosità, Giovanni era impaziente di conoscere quel presunto «santo», quando una circostanza movimentata glielo pose davanti.

Un mattino, mentre l'insegnante tardava ad arrivare, nella classe di Bosco si scatenò il putiferio consueto in queste occasioni. Uno degli alunni più chiassosi, visto che un compagno nuovo se ne stava

tranquillo al suo posto, ripassando le lezioni, volle trascinarlo nella baldoria generale. , - Via, lascia andare i libri e unisciti a noi!
- Grazie - rispose l'interpellato - ma preferisco ripassare la lezione.
- Devi venire lo stesso - gridò l'altro. - Se no ti faccio venire io!

- Fa come vuoi, ma io adesso non posso e non voglio venire a giocare.
Non aveva terminato la frase che due schiaffi violenti lo colpirono sulle guance. Per un attimo si fece pallidissimo, poi il rossore gli salì al volto; ma, riuscendo a dominarsi, disse con voce ferma fra l'improvviso silenzio della scolaresca: - Sei contento adesso? Io ti perdono.

Ora però lasciami in pace.
Il ragazzo schiaffeggiato era Luigi Comollo. Giovanni fu impressionato da quella mitezza

che sembrava confermare le descrizioni fatte del nipote del parroco di Cinzano. Avvicinò il compagno e da quel giorno un'amicizia profonda unì i due giovani, riuniti nella stessa classe anche se Comollo era negli studi un anno avanti all'amico. Divennero addirittura inseparabili.

Tutto sembrava avvicinarli: la fede, l'amore per lo studio, la devozione a Maria, l'ansia di apostolato, lo spirito di sacrificio.

I loro caratteri dissimili finirono col rivelarsi complementari. Luigi era timido, calmo, assorto, amante della solitudine e della meditazione, di salute delicata. Giovanni era invece tutto moto e vita; dotato di una forza fisica fuori del comune, non desiderava altro che farne uso; avido di azione, coglieva ogni occasione per aiutare il prossimo: un istintivo, un sanguigno, insomma, che si opponeva alla pacatezza dell'altro. Eppure poche amicizie diedero tali frutti. Bosco, divenuto prete, lascerà scritto che da quell'incontro fu lui a “guadagnarci” di più; è certo che l'influenza di Comollo su Giovanni fu profonda. Il temperamento di quest'ultimo, per natura impetuoso e violento, a contatto con la dolcezza dell'amico imparò calma e padronanza di sé.

La mitezza non fu la sola virtù che egli seppe sviluppare a contatto del ragazzo di Cinzano, tanto da scrivere, qualche decennio dopo, che da Comollo egli aveva “cominciato ad imparare a vivere da cristiano”.

Dopo l'educazione di mamma Margherita e le preziose lezioni di Don Calosso, la compagnia di Luigi Comollo fu l'elemento che più contribuì a plasmare il carattere del futuro santo.

Una madre, un prete, un amico: tre anime d'eccezione per una giovinezza straordinaria.

Fino a quel giorno, bene o male, a forza di privazioni e di sacrifici, Giovanni aveva potuto sostenere le spese per i suoi studi. Ma alla vigilia del suo ingresso nel Seminario Maggiore si domandò ansiosamente come avrebbe potuto pagare la retta. Non ci sarebbero più state occasioni di guadagno, per quanto modesto. Le risorse della madre, seppure affiancate da qualche elemosina, non sarebbero certo bastate. D'altra parte, una certa diffidenza di sé gli faceva pensare che “la superbia avesse messo così profonde radici nel suo cuore” (come egli stesso scrisse) da esigere da lui la fuga dal mondo. Forse, il piacere naturale che gli doveva venire dall'ammirazione dei compagni per i successi nello studio e nelle attività fisiche, gli aumentò il timore di una tendenza del suo carattere alla vanità e all'orgoglio.

E certo, di natura ardente qual era, dovette impegnarsi seriamente per dominare l'amor proprio. «Bisogna pronunciare chiaramente la parola», scrisse un suo biografo «Don Bosco era portato all'orgoglio».

Eppure seppe sempre vincerlo.

Giunto a quel bivio della sua vita, Giovannino cominciò a pensare che la soluzione migliore fosse per lui l'entrare in un Ordine religioso: non più preoccupazioni economiche né ansie spirituali. Sarebbe stato accolto nella sua miseria e gli sarebbero stati dati quegli aiuti esterni da cui sperava la salvezza dell'anima.

Pareva che l'attirassero di più i Francescani. A Chieri quei religiosi avevano un convento che egli talvolta frequentava: la loro vita semplice, frugale, fatta di penitenza e di preghiera gli piaceva molto e i frati guardavano a lui con simpatia. Prima di fare il passo decisivo, ne parlò al confessore che però non volle assumersi la responsabilità di quella decisione.

Il parroco di Castelnuovo, saputo di queste intenzioni, si mostrò contrario a tal punto da recarsi al Sussambrino ad avvisare la madre. «Voi non siete più giovane - le disse. - Fra qualche anno avrete bisogno di riposo. E allora chi vi accoglierà se vostro figlio sarà in convento? Se invece sarà parroco o viceparroco potrà aiutarvi».

La mamma lasciò dire il vecchio sacerdote e lo ringraziò anche dell'avvertimento; ma il suo pensiero lo tenne per sé.

Il giorno dopo era a Chieri dal figlio.
- Ieri venne Don Dassano a dirmi che vorresti farti frate. È vero? - Sì, mamma e spero che voi non vi opporrete.

- Sentimi bene, Giovanni. Io voglio solo che tu ci pensi a fondo. Una volta deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea perché in futuro potrei avere bisogno di te. Questo non c'entra niente, assolutamente niente. Guarda che io da te non aspetto nulla e non voglio nulla, se non che tu viva da cristiano. Sono nata povera, ho vissuto povera e voglio morire povera. Ricordati bene, Giovannino: se ti facessi prete e per disgrazia tu diventassi ricco, non verrei mai più a trovarti. Per niente al mondo entrerei nella tua casa I

La mirabile donna si strinse nello scialle e se ne tornò a Castelnuovo. A piedi, com'era venuta. A settant'anni passati, Don Bosco ricordava ancora questo solenne avvertimento e rivedeva dinanzi a sé l'umile contadina dal cuore grande, in cui lo sguardo, il gesto, l'atteggiamento, il tono della voce davano risalto alle parole.

Alcuni giorni dopo, nell'imminenza della Pasqua del 1834, Bosco si presentava a Torino agli esami di ammissione dal superiore dei Francescani. Fu ammesso a pieni voti, e senza dubbio pochissimo tempo dopo sarebbe entrato nel Convento della Pace a Chieri se, recatosi a Castelnuovo per ottenere i documenti che gli occorrevano, qualcuno non gli avesse suggerito di rivolgersi per un ultimo consiglio a Don Cafasso.

Don Giuseppe Cafasso era compaesano di Bosco e più anziano di lui di quattro anni. Era stato ordinato prete da poco ma già dai tempi del Seminario si era acquistata tale fama di santità che da lui si recavano per consiglio molte anime inquiete o turbate. Viveva a Torino, nel Convitto Ecclesiastico, dove completava gli studi ed esercitava la carità assistendo i malati degli ospedali e i carcerati.

Giovanni andò dunque ad esporgli il suo caso.

Tutta un'esistenza - e quale esistenza! - si trovò a dipendere dalla decisione di quel prete di ventitré anni.

“Continuate i vostri studi” disse senza esitare e con grande calma Don Cafasso “ed entrate nel Seminario. Poi tenetevi pronto a seguire la volontà di Dio”.

Quindici mesi dopo quell'incontro, Giovanni Bosco riceveva l'abito di chierico nella chiesa di Castelnuovo in cui vent'anni prima era stato battezzato. Era il 25 ottobre del 1835. Cinque giorni dopo si accomiatava dalla madre per entrare nel Seminario di Chieri.

La vigilia della partenza, quando amici e conoscenti venuti a salutare il seminarista se ne furono andati, ella prese in disparte il figlio e, con

un tono di voce che alla sera della sua vita Don Bosco ricorderà ancora, gli disse: “To sai la mia gioia in questo giorno in cui hai finalmente indossato l'abito del sacerdote. Ricordati però che non è l'abito che onora il tuo stato, ma il rispetto dei comandamenti di Dio. Se un giorno tu dubitassi della tua vocazione, per carità, non disonorare questa veste! Lasciala subito! Io preferirei avere per figlio un buon contadino piuttosto che un cattivo prete. Quando sei nato, ti ho consacrato alla Madonna. Quando hai cominciato gli studi, ti ho raccomandato di volerle sempre bene. Adesso ti scongiuro di essere tutto suo”. Qui si fermò perché i singhiozzi le impedirono di continuare.

La sera del giorno dopo, il chierico Giovanni Bosco varcava la porta del Seminario di Chieri, nel quale restò per sei anni, nutrito, mantenuto, spesato dalla carità di tutti. Questa l'aveva già vestito da capo a piedi il giorno in cui prese l'abito ecclesiastico: un benestante del paese aveva fornito la veste, il sindaco il cappello, il parroco il mantello, un altro parrocchiano le scarpe.

Il primo anno di seminario glielo pagò Don Guala, il direttore del Convitto Ecclesiastico. Per gli anni seguenti, ecco come se la cavò: anzitutto ogni anno ebbe il premio di sessanta lire assegnate all'alunno che avesse meritato i migliori punti in profitto e in condotta; fin dal secondo anno di filosofia gli fu concesso anche il posto semigratuito di cui godevano spesso i seminaristi diligenti e bisognosi; al secondo anno di teologia fu nominato sacrestano e per quell'ufficio gli furono assegnate sessanta lire. Il resto della retta era pagato

da Don Cafasso.
Come egli stesso scrisse, nel Seminario di Chieri il chierico Bosco ritrovò le orme ancora

recenti del suo benefattore: “Oltre tutto il resto, ciò che mi affezionava di più a quelle mura

era il nome di Don Cafasso. Il profumo delle sue virtù si spandeva ancora per tutto il Seminario. La sua carità verso i compagni, la sua obbedienza, la sua pazienza nel sopportare i difetti del prossimo, la sua attenzione a non offendere nessuno, il piacere che provava nel servire tutti, la sua indifferenza per il vitto, la sua rassegnazione dinanzi all'inclemenza delle stagioni, la sua prontezza nel fare il catechismo ai bambini, il suo contegno sempre edificante, tutte queste virtù rifulsero di così vivo splendore durante i suoi anni di Seminario, che lasciarono dietro di sé una durevole fragranza”.

Quella santità precoce era tanto più meritoria in quanto non trovava in quella casa tutto l'appoggio sacramentale che avrebbe potuto

sperare. Certa severità eccessiva di impronta “giansenistica”, che Don Bosco e Don Cafasso dovranno contrastare per tutta la vita, aveva lasciato traccia anche nel Seminario torinese.

Confessione ogni quindici giorni e Comunione permessa solo la domenica e i giorni di festa. Chi desiderava accostarsi più sovente all'Eucarestia doveva recarsi in una chiesa vicina, quasi furtivamente, trasgredendo il regolamento e privandosi della colazione.

In questo, Giovanni Bosco infranse spesso la disciplina, pur di non stare lontano da ciò che egli stesso definì “il più efficace alimento della vocazione”.

Nel seminario si scontrò inoltre ancora una volta con l'atteggiamento estremamente riservato dei superiori verso gli alunni.

Egli non riusciva a persuadersi che quel comportamento fosse conforme ai bisogni dei seminaristi: troppo vivamente avvertiva la solitudine in cui la lontananza dei superiori lasciava tutti quei giovani ardenti e inesperti.

“Io li amavo molto i miei superiori - scrisse nelle sue Memorie dell'Oratorio - ed essi ricambiavano il mio affetto; ma il mio cuore era addolorato nel trovarli così poco accessibili ai seminaristi. Si facevano soltanto due visite al superiore: una al ritorno dalle vacanze, l'altra alla partenza, a luglio. Del resto non si penetrava mai nel suo ufficio, se non per qualche "lavata di capo". I Direttori, uno per volta, venivano ad assistere in refettorio o a passeggio: finita la settimana di servizio, non li vedevamo più. Fu questo, posso dire, il più gran dispiacere che provai in Seminario. Quante volte avrei voluto parlare loro, chiedere loro un consiglio, esporre loro un dubbio: impossibile! Peggio ancora: se avveniva che per caso un superiore attraversasse il cortile nell'ora in cui vi si divertivano i seminaristi, noi, senza sapercene dare una ragione, scappavamo in gran fretta a destra e a sinistra. Non ogni male vien per nuocere: un tale modo di fare ebbe per lo meno questo di buono, di accendere più vivo nel mio cuore il desiderio di giunger presto al sacerdozio per gettarmi in mezzo ai giovani, conoscerli intimamente ed aiutarli in ogni occasione a fuggire il male”.

Per compiere la sua ascesi spirituale, egli ebbe però l'aiuto di Luigi Comollo, entrato un anno dopo di lui in Seminario. Sino alla fine, purtroppo molto vicina, quell'amicizia dette tutti i suoi frutti: ci fu tra i due giovani uno scambio continuo di aiuti e di buoni esempi. Appoggiandosi l'uno all'altro, essi progredivano nella loro formazione con passo più sicuro e veloce.

Sembrava davvero che si integrassero. Comollo offriva a Don Bosco l'esempio della sua obbedienza, della fedeltà scrupolosa ai più piccoli doveri, dell'impegno premuroso per non offendere mai il prossimo, della intensa pietà, della continua penitenza. Bosco portava a Comollo la luce di una intelligenza pronta e vivace; e l'ottimismo, il costante buon umore, il senso squisito della misura, una simpatia naturale.

“Se i seminaristi poco esemplari non sono riusciti ad attirarmi, se ho potuto progredire nella mia vocazione, lo debbo a Comollo”, scriverà subito dopo la morte dell'amico. Questa giunse purtroppo molto presto.

Due anni dopo l'ingresso in Seminario, alla fine delle vacanze autunnali, Comollo ne aveva già avuto il presentimento. La stagione era cattiva per la campagna e le viti promettevano poco. I due amici, guardando i vigneti dall'alto di una collina, commentavano la

disgrazia.
- L'anno venturo - disse Giovanni sempre ottimista. - L'anno venturo il raccolto sarà

migliore.
- Lo spero, - rispose Luigi. - Beati coloro che gusteranno allora il vino nuovo! To ci

sarai.
- E tu? Continuerai a bere acqua pura in Seminario?
- L'anno venturo spero di gustare un vino migliore.
- Vorresti dunque partire per il Paradiso?
- Certo me ne sento molto indegno, ma da qualche tempo provo un tal desiderio del

Regno di Dio che mi pare impossibile dover vivere ancora a lungo sulla terra.
Sei mesi dopo questo colloquio, il lunedì santo, Luigi era a letto, assalito da una febbre di fronte alla quale i medici si mostrarono subito pessimisti. La sera del Sabato Santo cominciò il delirio, al quale si aggiunsero crisi impressionanti di angoscia. Poi seguì la quiete del corpo e dell'anima e Comollo serenamente spirò all'alba del martedì di Pasqua, confortato dal Viatico e dall'Estrema Unzione, stringendo la mano dell'amico Bosco che singhiozzava al

suo capezzale.
Questo avveniva il 2 aprile del 1839; il 3 a sera si faceva il funerale. La notte seguente

accadde un fatto confermato da tanti testimoni, che non si può mettere in dubbio. Tutto il Seminario di Chieri, infatti, con i suoi quasi cento studenti fu coinvolto nell'episodio pauroso.

Quando Comollo era in vita i due amici- “molto imprudentemente”, confessò più tardi Don Bosco - s'erano promesso che chi dei due fosse morto prima sarebbe ritornato a rassicurare l'altro sulla sua salvezza eterna.

Il ricordo di questa promessa agitava la mente di Giovanni che, quella notte, non riusciva a prendere sonno.

Raccontò egli stesso ciò che avvenne verso mezzanotte nel dormitorio, in cui riposavano venti seminaristi, improvvisamente sconvolto da un fenomeno terrificante. Dal fondo del corridoio si udì un rumore che si faceva sempre più assordante: sembrava lo sconquasso di un carro trascinato a corsa pazza su una strada lastricata. Tutto tremava attorno ai giovani. La casa e il dormitorio, i soffitti e i pavimenti sembravano scossi da una gigantesca mano di ferro.

Ed ecco che tutto ad un tratto la porta si apre: il frastuono irrompe nel dormitorio accompagnato da una luce vacillante. Poi il rumore S cessa e il silenzio che segue sembra di sepolcro; la luce acquista uno splendore straordinario e, in mezzo al terrore di tutti, una voce ripete per tre volte il grido: “Bosco, Bosco, sono salvo!”. Un immenso chiarore riempie allora il dormitorio; il frastuono riprende con nuova violenza come se la casa stesse per crollare sotto un ciclone, poi tutto I si allontana e sparisce nella notte.

Solo allora i seminaristi, sino a quel momento paralizzati dal terrore, trovarono il coraggio di alzarsi, inciampando l'uno sull'altro e | fuggendo in tutte le direzioni.

Inutilmente Giovanni tentò di calmarli, ripetendo loro la parola della apparizione:

«Comollo è salvo!».

Per tutta la notte si vegliò nel Seminario di Chieri, illuminato a giorno su ordine dei Superiori nel tentativo di rinfrancare i giovani ospiti.

Ancora una volta quel soprannaturale di cui parlava il Cardinale Vives y Tuto aveva fatto irruzione nella vita di Giovanni Bosco. Né fu quello il solo episodio che seguì la morte del chierico Comollo. Una notte del 1847 mamma Margherita udì il figlio conversare a lungo nella sua stanza con uno sconosciuto di cui sentiva distintamente la voce.

- Con chi parlavi questa notte? - gli domandò al mattino.

- Con Luigi Comollo - rispose il figlio con tutta semplicità.
Né volle dire altro su quel colloquio misterioso che sembrò prolungare oltre la barriera

della morte la loro amicizia.

Giovanni restò sei anni interi nel Seminario, compiendovi i due anni di filosofia e i quattro di teologia. La fama che vi lasciò fu perlomeno uguale a quella di Don Cafasso.

Quando, alla vigilia della sua ordinazione, i maestri dettero l'ultimo giudizio sopra di lui, scrissero accanto al suo nome, per qualificare il risultato dei suoi studi: Plus quam optime, più che ottimo; per apprezzare il suo carattere: Pieno di zelo, promette una eccellente riuscita. La sobria annotazione marginale traduce debolmente la realtà.

Il chierico Bosco fu davvero un seminarista esemplare. Fedele sino allo scrupolo nell'osservanza dei più minuti doveri, si lasciava docilmente guidare dal regolamento della casa, dall'orario, dalla campana. Gran lavoratore e intelligenza sveglia, faceva presto ad imparare la lezione del giorno; allora dedicava il tempo libero allo studio delle lingue o alla lettura, divorando una quantità incredibile di opere di Padri e Dottori della Chiesa. La Storia Ecclesiastica era forse il suo studio preferito: nelle controversie che più volte l'opposero ai protestanti, ai liberali, ai superstiti giansenisti, si mostrerà sempre sorretto dalla preparazione storica acquisita in Seminario.

Fu in ogni momento disponibile per i condiscepoli, si trattasse di aiutarli nell'apprendere le lezioni o di radere barbe, di ripassare tonsure, di rattoppare tonache e berrette.

Molto pio, non aveva però nulla di ostentato o di esagerato nella sua devozione, che era semplice e piuttosto sobria di pratiche: tale resterà per tutta la vita, rivelando anche in questo il suo equilibrio profondo.

Fu il più allegro e vivace dei seminaristi, sempre con un aneddoto, una battuta amena, un motto salutare. Il demonio ha paura della gente allegra, era già allora uno dei suoi motti preferiti. Si sarebbe detto che, entrando in quella casa austera, avesse preso specialmente per sé la scritta che si leggeva sotto la meridiana del cortile: Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae, per chi è triste le ore stentano a passare, per chi è allegro fuggono veloci.

Quando però giungeva il momento dello studio, della meditazione, della preghiera, sapeva farsi grave e raccolto. Di lui i suoi compagni hanno notato anche questo, che indica una rara padronanza di sé: non fu mai visto in collera, mai fu sentito lamentarsi degli inconvenienti della vita comune. Prendeva tutto con il sorriso e nelle prove quotidiane, che tempravano la sua volontà, riconosceva ed accettava con gioia la volontà di Dio.

A questo livello di impegno e di testimonianza, egli non era certo giunto da un giorno all'altro. Più di una volta la natura aveva protestato e tentato di riprendere il sopravvento. La santità rimane pur sempre una dura conquista e non la si trova, come la regalità, nella

culla. Giovanni lo sentiva meglio di ogni altro e non dispiace sorprendere di tanto in tanto qualche movimento naturale che sfuggiva alla sua sorveglianza. Faticò a lungo, ad esempio, per rinunciare al gusto dei giochi di carte.

E quanto gli costò frenare l'impetuosità del carattere!

Un mattino, lo racconta egli stesso, fu visto inseguire furiosamente una lepre scovata dalla tana; gara appassionante di velocità che finì con la sconfitta dell'animale, afferrato per le orecchie e subito lasciato libero. Ma mentre gli spettatori applaudivano alla vittoria, il corridore trafelato si mostrava confuso di avere abbandonato accanto ad un albero la veste talare per muoversi con maggiore scioltezza. Una preoccupazione che la nostra sensibilità giudicherebbe eccessiva, ma che ben rivela quale scrupolo egli ponesse nel rispettare anche le minime disposizioni del Seminario.

A quei tempi le vacanze dei seminaristi erano interminabili: da San Giovanni alla festa di Ognissanti; più di quattro mesi, quindi.

Per il chierico Bosco vivere in quei quattro mesi era un problema, che risolveva lasciandosi invitare da amici e parenti, ora dai Moglia, i suoi antichi padroni, spesso dal fratello Giuseppe, il più delle volte dal buono e colto parroco di Castelnuovo. Qui, con la più cordiale ospitalità, trovava una biblioteca fornita alla quale attingere largamente per completare i suoi studi e proseguire le letture.

Un anno che il colera aveva allontanato da Torino i Gesuiti ed una parte dei loro professori, si vide affidare, per la durata delle vacanze, alcuni dei loro alunni come ripetitore di greco. Quella esperienza fu per lui doppiamente feconda: anzitutto egli riprese confidenza con il greco che a Chieri aveva studiato in modo affrettato e inoltre si convinse che quegli studenti, i figli delle più ricche e nobili famiglie della capitale, non erano i giovani tra i quali

dovesse compiere l'apostolato che sognava.
Giovanni preferiva, e di gran lunga, quei ragazzi dei Becchi, di Castelnuovo, di Chieri

(tutti ancora suoi amici), che il giovedì invadevano rumorosamente il parlatorio del Seminario per stare qualche ora con l'antico capo della Società dell'allegria.

Molti gli chiedevano ripetizioni e nelle vacanze a Castelnuovo non finiva mai di decifrare con i suoi giovani amici le pagine difficili dei classici. Questa attività gli era senza dubbio utile per guadagnare un po' di denaro ma gli serviva soprattutto per potere avvicinare i coetanei. “Bosco non viveva che per i giovani», scrisse un suo compagno di allora; e i giovani lo ricambiavano con un affetto che arrivavano

a manifestargli clamorosamente davanti a tutta Chieri la domenica mattina quando Giovanni, in fila con gli altri seminaristi, si recava in cattedrale per la messa cantata.

Una notte, a Chieri, ritornò il sogno dei nove anni.

Questa volta si vide non sul prato dei Becchi ma per le strade di una grande città tra fanciulli e ragazzi che, abbandonati a se stessi, bestemmiavano e urlavano. Anche qui, come allora, il suo primo impulso fu di far cessare con la forza quella furia, ma nuovamente fu fermato dalla apparizione di una Signora che gli diceva: “Se vuoi guadagnarti i giovani, non li prendere a calci e a pugni, ma conquistali con la dolcezza e con la persuasione”.

Era l'estate del 1840, l'ultima estate di Giovanni Bosco seminarista.

Nel mese di settembre, fu ordinato suddiacono a Torino; nella primavera del 1841, il sabato di Passione, ricevette il diaconato e infine il 26 maggio, festa di San Filippo Neri, cominciò gli esercizi spirituali in preparazione all'Ordinazione sacerdotale.

In quei giorni di meditazione, su un taccuino che conservò sino al termine della vita, annotò il proposito di impiegare sempre scrupolosamente bene il tempo, di ispirare ogni sua azione alla carità e alla dolcezza di San Francesco di Sales, di essere sempre disponibile a soffrire, agire, umiliarsi per il bene del prossimo.

Gli conferì il sacerdozio Mons. Luigi Fransoni, Arcivescovo di Torino. Questi lo conosceva un poco e lo stimava molto in seguito alle relazioni del Rettore del Seminario di Chieri, ma era naturalmente ben lontano dall'immaginare ciò che avrebbe significato per la Chiesa l'ordinazione che quel sabato 5 giugno, vigilia della SS. Trinità, conferiva nella cappella dell'Arcivescovado.

Il giorno dopo, nella chiesa di San Francesco d'Assisi, all'altare dell'Angelo Custode, assistito da Don Cafasso, ormai professore di teologia morale nel Convitto Ecclesiastico attiguo a quel santuario, Don Giovanni Bosco celebrava la sua prima Messa. Egli l'aveva voluta semplicissima, solitaria e raccolta per potere ringraziare Dio di averlo condotto alla mèta sognata sin dall'infanzia. E facile immaginare con quale pietà egli dovette recitare i testi della liturgia del giorno che sembrava esprimere mirabilmente lo stupore e la gratitudine del prete novello. Tre volte, all'Introito, all'Offertorio, al Postcommunio, la Chiesa innalzava il suo inno di ringraziamento alla Trinità per l'infinita misericordia verso gli uomini. Recitando quelle parole, Don Bosco doveva

pensare alla lunga catena di grazie che gli avevano facilitato l'ascesa al sacerdozio.
O Dio - diceva la liturgia - Dio, forza invincibile di coloro che sperano in TE!
Il celebrante doveva allora ricordare che per vincere tanti ostacoli, umanamente

insormontabili, gli era bastato attendere con pazienza l'ora di Dio e sperare contro ogni speranza, secondo quella parola di San Paolo che un giorno lontano la Chiesa vorrà ricordata nella Messa del 31 gennaio, festa di San Giovanni Bosco.

L'Apostolo delle genti, nell'Epistola di quel giorno, esclamava: O Dio, come sono imperscrutabili i vostri giudizi e le vostre vie piene di misericordia!

È come il grido dell'uomo che medita i disegni di amore del Padre, il grido che ben traduceva lo stupore commosso sino alle lacrime del piccolo pastore di un tempo che domani, nel nome del Signore, avrebbe guidato al pascolo ben altre pecorelle!

Al momento della Consacrazione, quando il sacerdote si raccoglie per chiedere grazie per sé e per i suoi cari, egli (lo ricorderà nelle Memorie) supplicò il Signore di concedere al suo ministero l'efficacia della parola. “Mi parve” scrisse con semplicità al termine della vita “mi parve di essere stato esaudito”.

La sua parola, pronunciata sul pulpito o sussurrata nel segreto di un confessionale, conoscerà la via di tanti cuori ma soprattutto di quello dei giovani.

Nel tempo fra l'Elevazione e la Comunione, quando già il pane e il vino sono divenuti corpo e sangue del Cristo, la liturgia inserisce il ricordo dei defunti. Qui il giovane sacerdote si fermò a lungo, riconoscente, per raccomandare a Dio il nome dei benefattori defunti. In quegli attimi Don Bosco vide, come in un lampo improvviso, il buon viso del caro Don Calosso, il suo primo maestro di latino, colui che con la sua generosità avrebbe voluto risparmiargli la dura strada delle elemosine.

Il giorno dopo celebrò la sua seconda Messa nel santuario della Consolata, «per ringraziare la S. Vergine», scrisse «delle innumerevoli grazie che mi aveva ottenute dal Figlio Suo”.

Il giovedì seguente, festa del Corpus Domini, appagò finalmente il desiderio dei compaesani celebrando a Castelnuovo la Messa cantata del giorno e portando in processione il SS. Sacramento. Ci fu, per solennizzare l'avvenimento, una festa in canonica dove il prevosto aveva invitato tutti i parenti di Giovanni, il clero dei dintorni e le auto

rità locali. Ma Don Bosco era impaziente di sottrarsi a quelle rumorose dimostrazioni di stima per trovarsi solo con sua madre. Sul far della notte partirono tutti e due, soli, per risalire ai Becchi.

S'indovina facilmente quale onda di sentimenti dovesse commuovere il cuore dell'uno e dell'altra. Quelle strade, quei sentieri, Giovanni le aveva percorse infinite volte rincorrendo il suo sogno; ed ecco che quella sera il sogno era realtà. L'ultimo tratto di sentiero attraversava il prato sul quale una notte Giovanni si era visto trasportato in sogno e aveva udito la voce della Madonna tracciargli la strada e promettergli quell'aiuto che mai gli era venuto meno.

Dopo pochi passi ancora varcarono la soglia della povera casa, testimone di tante scene di gioia e di lacrime. La madre accese la lucerna, andò a preparare ogni cosa per il riposo della notte, poi, come un tempo, si inginocchiò con il figlio per la preghiera.

Quando si rialzarono, mamma Margherita, che durante tutta la giornata era stata silenziosa, prese fra le sue mani quelle del figlio e con accento molto grave e molto dolce:

“Eccoti sacerdote, Giovannino. Ormai ogni giorno celebrerai la Messa. Ricordati bene le parole di tua madre: cominciare a dire Messa vuol dire cominciare a patire. Non te ne accorgerai subito ma, col tempo, vedrai che avevo ragione. Ogni mattina, ne sono sicura, pregherai per me. Non ti chiedo altro. Ormai pensa soltanto alla salvezza degli altri e non prenderti nessun pensiero di me”.

CAPITOLO III

L'Oratorio ambulante.

Dopo l'ordinazione, passati alcuni mesi a Castelnuovo per sostituirvi il viceparroco assente, Don Bosco dovette scegliere l'indirizzo da dare alla sua vita.

Quale incarico ecclesiastico accettare? Gliene venivano offerti tre.

Una famiglia di nobili genovesi lo richiedeva come istitutore dei figli con l'onorario di mille lire all'anno; i suoi compaesani lo supplicavano di accettare il posto libero di cappellano a Morialdo; infine l'arciprete di Castelnuovo, Don Cinzano, suo grande amico e benefattore, avrebbe desiderato averlo come suo coadiutore. Per tagliar corto e cercare anche in questa scelta soltanto la volontà di Dio, Don Bosco ricorse ancora una volta al compaesano Don Cafasso che gli disse: “Non accettate nulla. Venite qui a Torino a completare la vostra

formazione sacerdotale nel Convitto Ecclesiastico”.
Il Convitto Ecclesiastico di Torino era l'opera di un sacerdote, Don Luigi Guala che, dopo

i rivolgimenti politici e sociali della Rivoluzione Francese e dell'Impero, aveva compreso l'urgenza di preparare dei giovani preti con. solide basi spirituali e culturali. Queste idee, Don Guala le aveva apprese alla scuola di Don Bruno Lanteri, fondatore degli Oblati di Maria Vergine, il quale era convinto che si dovesse eliminare dal Piemonte certo spirito di giansenismo, con la sua eccessiva severità e il suo rigorismo, che ancora informava molti cattolici, sacerdoti e laici.

Per Lanteri e per Guala, partiti i Francesi che avevano portato le loro idee religiose spesso insofferenti dell'autorità romana, era giunto il tempo di reagire trasfondendo nell'animo dei futuri sacerdoti la dottrina tradizionale.

Appena gli era stato possibile, Don Guala si era messo all'opera aprendo nella sua stessa casa un corso libero di morale pratica. Nominato nel 1808 rettore di San Francesco d'Assisi, trasferì la sua cattedra

in quella chiesa e proseguì l'opera senza rumore, nel Piemonte ancora occupato dai Francesi. Finalmente, nel 1817, dopo il ritorno del Re dalla Sardegna, Don Guala potè attuare interamente il suo progetto. Attiguo alla chiesa di San Francesco c'era l'antico convento dei Frati Minori, trasformato in caserma durante l'occupazione. In quell'edificio, restaurato a spese di Don Guala, il Convitto Ecclesiastico cominciò a funzionare con una dozzina di convittori che giunsero presto a sessanta.

La nuova istituzione avrebbe anzitutto assicurato un complemento di studi di teologia, soprattutto morale, al giovane clero torinese, riportando nell'Arcidiocesi la benigna dottrina di Sant'Alfonso de' Liguori. Inoltre, avrebbe riunito i preti sotto un medesimo tetto ed una stessa regola, formandoli in tal modo allo spirito comunitario. Infine, avrebbe permesso ai maestri di osservare da vicino gli alunni, in quei due o tre anni di studi, per indirizzarli poi all'ufficio più confacente alle loro attitudini.

Nel tempo libero tra le due conferenze di morale, tenute la mattina e la sera - la prima da Don Guala, la seconda da Don Cafasso - tutti quei preti novelli si esercitavano nelle funzioni ordinarie del ministero sacerdotale: ufficiatura della chiesa, visite agli ospedali e alle carceri, catechismi ai giovani. L'opera era posta sotto la protezione di due Santi che erano stati promotori di iniziative simili: San Francesco di Sales e San Carlo Borromeo.

Un regolamento fatto di saggezza e di moderazione formava lentamente i giovani alle abitudini definitive di tutta la vita sacerdotale: preghiere del mattino e della sera, visita al SS. Sacramento, recita del Rosario, una mezz'ora di meditazione, un quarto d'ora di lettura spirituale. Tutto questo in comune. Inoltre, confessione settimanale, penitenza moderata al venerdì, silenzio fuori delle ore di ricreazione, ritiro mensile, studio, passeggiata in due verso sera, divieto assoluto di assistere a spettacoli pubblici e di entrare nei caffè.

Ogni convittore pagava una retta modestissima ma il notevole patrimonio della famiglia Guala e i legati che la personalità civile dell'Opera procurava, permettevano all'Amministrazione di accettare gratuitamente diversi allievi.

Naturalmente Don Bosco fu del numero dei convittori gratuiti. Resterà per tre anni nel vecchio convento dei Minori Conventuali: anni provvidenziali e decisivi che lo arricchiranno di cultura e, soprattutto, matureranno la sua vocazione specifica, mettendolo a contatto con le miserie della gioventù della grande città.

Fin dalle prime settimane della sua permanenza al Convitto, Don Bosco ebbe infatti occasione di toccare con mano lo stato di abbandono in cui era lasciata la maggior parte dei giovani poveri. La capitale del Regno di Sardegna era in un periodo di grande sviluppo demografico; gli abitanti, che nel 1838 erano 117.000, toccavano i 140.000 nel 48. La costruzione di nuove case, più di mille in quei dieci anni, faceva accorrere da tutte le Provincie dello Stato e dalla Lombardia una folla di fanciulli e giovani che, se non trovavano impiego in un cantiere come manovali, si adattavano ai lavori più umili. Alloggiavano dove potevano, a gruppi di cinque o sei, in miserabili scantinati o in soffitte malsane.

Ma se quella era una folla di giovani con un lavoro, per quanto incerto e misero, accanto ad essa, nei pressi della Cittadella, lungo le rive del Po, sui terreni incolti della periferia, viveva alla giornata una moltitudine di ragazzi oziosi, abbandonati dai genitori o spinti all'accattonaggio dagli stessi parenti.

Se il giovane Bosco saliva le scale delle soffitte, vi scopriva lo spettacolo desolante della promiscuità e dell'ambiente malsano in cui erano costretti a vivere tanti fanciulli. Quegli abbaini, quegli scantinati, rifornivano di sempre nuovi ospiti le quattro prigioni della capitale nelle quali Don Bosco si recava spesso, accompagnando il suo Don Cafasso che i Torinesi chiamavano fin da allora il prete della forca, proprio per l'apostolato straordinario tra i carcerati e i condannati a morte. Le celle traboccavano di giovani che si corrompevano sempre più a contatto con i detenuti anziani.

Giuseppe Cottolengo, nelle immense corsie della sua Piccola Casa della Divina Provvidenza, raccoglieva ogni giorno i frutti amari di quelle giovinezze di cui né autorità civili, né molti del clero si prendevano cura.

Se, durante le sue passeggiate per la città, Don Bosco cercava di avvicinarsi ai gruppi di giovani, alcuni scappavano, altri lo insultavano, i più continuavano imperturbabili nei loro giochi equivoci o nei loro litigi.

Il giovane prete ne era profondamente rattristato, e tuttavia la speranza continuava a sorreggerlo. Questa scena egli la conosceva nei più minuti particolari; ritrovava ora nella realtà ciò che più volte aveva visto anticipato nel sogno. I sogni, però, non si fermavano a quel primo, squallido quadro: i piccoli animali feroci si trasformavano in docili agnelli se il pastore si avvicinava loro con quella bontà e tenerezza che non avevano mai conosciute.

Ogni sera ritornava al Convitto pregando sempre più fervorosamente la Madonna perché i sogni avessero finalmente il compimento preannunciato.

Otto di dicembre del 1841, festa dell'Immacolata Concezione. In questo giorno consacrato alla Vergine, nella sacrestia di San Francesco d'Assisi in Torino nasce l'Oratorio salesiano. Don Bosco stesso ha scritto di quel mattino memorabile con l'accento e la semplicità di una pagina antica, quasi di un fioretto trecentesco:

“Il giorno solenne dell'Immacolata Concezione di Maria, all'ora stabilita, ero in atto di vestirmi dei sacri paramenti per celebrare la santa Messa. Il chierico di sacrestia, Giuseppe Comotti, vedendo un giovanetto in un canto, lo invita a venirmi a servire la Messa.

- Non so - egli rispose tutto mortificato.
- Vieni - replicò l'altro - voglio che tu serva Messa.
- Non so - ripetè il giovanetto - non l'ho mai servita.
- Bestione che sei! - disse il sagrestano tutto furioso. - Se non sai servire Messa, a che

vieni in sacrestia? - Ciò dicendo dà di piglio alla pertica dello spolverino e giù colpi alle spalle e sulla testa di quel poveretto.

Mentre l'altro se la dava a gambe:
- Che fate? - gridai ad alta voce, - Perché battere costui in cotal guisa? Che ha fatto?
- Perché viene in sacrestia, se non sa servire Messa?
- Ma voi avete fatto male.
- A lei che importa?
- Importa assai, è un mio amico. Chiamatelo sull'istante, ho bisogno di parlare con lui. - Tuder! Tuder! - si mise a chiamare e, correndogli dietro e assicurandolo di miglior

trattamento, me lo ricondusse vicino.
L'altro si approssimò tremante e lacrimante per le busse ricevute.
- Hai già udita la Messa? - gli domandai colla amorevolezza a me possibile.
- No - rispose l'altro.
- Vieni dunque ad ascoltarla; dopo ho da parlarti di un affare che ti farà piacere.

Me lo promise. Era mio vivo desiderio di mitigare l'afflizione di quel poveretto e non lasciarlo con sinistra impressione verso il rettore

di quella sacrestia. Celebrata la santa Messa e fatto il dovuto ringraziamento, condussi il mio candidato in un coretto con faccia allegra e, assicurandolo che non avesse più timore di bastonate, presi ad interrogarlo:

- Mio buon amico, come ti chiami? - Bartolomeo Garelli.
- Di che paese sei?
- Di Asti.

- Che mestiere fai?
- Il muratore.
- Vive tuo padre?
- No, mio padre è morto. - E tua madre?

- Mia madre è anche morta. - Quanti anni hai?
- Ne ho sedici.
- Sai leggere e scrivere?

- Non so niente.

- Sai cantare? - Il giovinetto, asciugandosi gli occhi, mi fissò in viso quasi meravigliato e rispose: - No!

- Sai zufolare? - Il giovinetto si mise a ridere ed era ciò che io volevo, perché indizio di guadagnata confidenza.

- Dimmi: sei già stato ammesso alla prima Comunione? - Non ancora.
- Ti sei già confessato?
- Sì, ma quand'ero piccolo.

- Ora vai al catechismo?
- Non oso.
- Perché?
- Perché i miei compagni più piccoli di me sanno il catechismo e io tanto grande non ne

so niente.
- Se ti facessi un catechismo a parte, verresti ad ascoltarlo?
- Ci verrei molto volentieri.
- Verresti volentieri in questa cameretta?
- Verrò assai volentieri, purché non mi diano delle bastonate.
- Sta tranquillo, che nessuno ti maltratterà. Tu sarai mio amico ed avrai da fare con

me e con nessun altro. Quando vuoi che incominciamo il nostro catechismo? - Quando a lei piace.

- Stasera?
- Sì.
- Vuoi anche adesso?
- Sì, anche adesso e con molto piacere”. Cominciando la sua prima lezione di dottrina

cristiana, Don Bosco
avvertì che qualcosa di grande stava per nascere lì, a due passi dal tabernacolo. Si

mise in ginocchio e recitò un'Ave Maria, una semplice Ave Maria, ma detta con tutta la devozione del cuore perché la Madonna lo aiutasse a salvare quell'anima. Quando si rialzò, lo ricorda egli stesso, ebbe la precisa intuizione che la sua opera di apostolo della gioventù cominciava in quell'ora.

La prima lezione di catechismo fu breve. Una mezz'ora al massimo. Il ragazzo partì che sapeva farsi il segno di croce e conosceva il significato di quel primo gesto del cristiano.

- Ritornerai, vero, Bartolomeo?
- Certo, padre!
- Allora non ritornare solo! Porta degli amici con te.

La domenica seguente erano in nove, di cui sei condotti da Garelli e due raccolti da Don

Cafasso, ad ascoltare la parola semplice, affettuosa e persuasiva di Don Bosco.
Alcune settimane dopo, una sera di domenica, attraversando la chiesa nell'ora della predica, Don Bosco scoprì sui gradini di un altare laterale, ben nascosti nell'ombra, alcuni

garzoni muratori che sonnecchiavano.
- Che fate qui, amici? - domandò loro con l'affabilità consueta.

- Non ne capiamo nulla di questa predica! - rispose il più coraggioso. - Quel prete non parla per noi.

- Venite con me - rispose Don Bosco. E in sacrestia li persuase a unirsi al suo piccolo gregge; così aveva già una dozzina di giovani interessati e attenti. Pochi mesi dopo erano ottanta e presto superarono il centinaio, tutti apprendisti o garzoni e tutti assolutamente ignoranti persino dei primi rudimenti del cristianesimo.

L'affetto di quel giovane prete e il bene che faceva loro, strinsero fortemente i giovani al loro grande amico che li vedeva ritornare fedelmente appena avevano un po' di tempo libero.

Sorse allora il problema: dove raccogliere tutta quella gioventù piena di vita durante le ore che non si dedicavano al catechismo? Don Bosco non aveva altra casa che la sua cameretta di studente, altre risorse che le modeste elemosine per le messe. Con questi mezzi non si fonda certo un'Opera.

La Provvidenza venne in aiuto, per mezzo di Don Guala e di Don Cafasso che, uomini di Dio, compresero subito la fecondità dell'iniziativa del loro allievo. Gli permisero dunque di radunare i giovani nel cortile stesso del Convitto. Un permesso certo meritorio, che significava rinunciare per tutta la domenica alla calma e al silenzio. Più di cento giovani che si divertivano sotto le finestre, in un cortile largo pochi metri, mettevano a rumore tutta la casa, impedendo ogni studio o riposo.

L'opera visse così quasi tre anni, dal 1841 al 1844, fino al giorno in cui, terminati gli studi, Don Bosco dovette lasciare il Convitto Ecclesiastico. Per interessamento di Don Cafasso che, pensando al nascente Oratorio così pieno di promesse, non voleva che Don Bosco fosse mandato come vicecurato in campagna, il giovane fu nominato secondo cappellano dell'Orfanotrofio detto Rifugio Santa Filomena, fondato da poco dalla Marchesa di Barolo.

La Marchesa di Barolo! Era, quello, il primo incontro di Don Bosco con un personaggio che aveva allora un posto di primissimo piano nella società torinese.

Giulia Francesca Vitruvia di Maulévrier era nata in Vandea dalla famiglia di Giovanni Battista Colbert, il grande ministro del Re Sole. Esule con il padre all'estero per sfuggire alla ghigliottina sotto la quale avevano perso la vita diversi parenti, ella ritornò in Francia con Napoleone.

A ventidue anni, colei che per tutta la vita si firmerà semplicemente Juliette de Colbert, sposò Carlo Tancredi Falletti, Marchese di Barolo, allora paggio dell'Imperatore.

Nel 1814 la coppia si stabilì a Torino nel grande palazzo del marito, ricchissimo proprietario della regione che produce il celebre vino di Barolo.

Privi di figli, i coniugi si dedicarono interamente alle opere sociali e caritative. Il marchese, dal 1825 sindaco di Torino, vi svolse un ampio programma per lo sviluppo dell'educazione popolare. Quando morì, colpito in viaggio da febbri improvvise, lasciò una immensa fortuna, di cui la Marchesa si servì unicamente per opere benefiche.

“Nata nella grandezza e per la grandezza”, come fu detto, Juliette di Colbert-Barolo creò asili, orfanotrofi, ospedali, scuole, giungendo a fondare due Ordini Religiosi per il servizio delle sue opere.

Devotissima, portava il cilicio sotto le vesti, ma nella vita sociale sapeva essere elegante, vivace, spiritosa, di una ospitalità squisita. Nel suo salotto passarono gli intellettuali più in vista del tempo: Silvio Pellico, che le fu segretario, nel suo palazzo scrisse Le mie Prigioni; il Conte di Cavour fu suo confidente ed amico intimo; Balzac e Lamartine furono suoi

corrispondenti.

Nell'ottobre del 1844, Don Bosco venne ad unirsi al primo cappellano del Rifugio, il buon teologo Giovanni Borel, che in seguito doveva rendergli tanto grandi e numerosi servizi.

Dietro raccomandazione di Don Borel, la Marchesa aveva acconsentito a lasciare ad uso dei ragazzi di Don Bosco un edificio appena costruito per le sue fanciulle.

L'edificio disponeva anche di un passaggio largo dai quattro ai cinque metri e lungo una ventina: sarebbe stato il cortile dell'Oratorio. Per cappella si sarebbero adibite due camere arredate alla bell'e meglio. Dedicata a San Francesco di Sales, questa prima cappella di Don Bosco fu inaugurata l'8 di dicembre, festa dell'Immacolata Concezione. Fuori, nevicava come non aveva mai nevicato. Ma dentro, dove tra quelle mura si pigiavano più di centocinquanta giovani, il calore addolciva l'ambiente e le anime.

Le cose forse andavano troppo bene per poter durare a lungo!

In primavera cominciarono a giungere alla Marchesa diverse lagnanze, provenienti in buona parte dalle suore delle case che, a destra e a sinistra, avevano i muri perimetrali sul cortile e che trovavano eccessivo il chiasso di quei ragazzi.

L'Oratorio ricevette così l'ordine di sloggiare al più presto, il che fu fatto poche settimane dopo.

“Dove potrò raccogliere il mio piccolo mondo?” pensava Don Bosco un mattino di maggio mentre vagava attraverso i terreni incolti di quello stesso quartiere di Valdocco.

Improvvisamente si trovò davanti all'antico, semi-abbandonato cimitero di San Pietro in Vincoli. C'era una cappella abbastanza grande per il servizio del cimitero, circondato da prati sparsi di cardi. “Questo fa per me” pensò Don Bosco “Purché però il cappellano sia contento”.

Il cappellano era Don Tesio, un vecchio sacerdote che, alle prime parole del confratello, si mise a sua disposizione. “Ma sì, ma si Don Bosco, venga pure con i suoi giovani. Mi divertirò a vederli giocare!”. La domenica dopo, 25 di maggio, verso le due del pomeriggio, una grande folla di ragazzi di ogni età andò difatti a rincorrersi

su quei terreni incolti. C'era spazio e la solitudine era profonda: che differenza dal corridoio stretto tra due muri! I ragazzi sembravano pazzi di gioia.

Ma si erano fatti i conti senza la domestica del cappellano! Disgrazia volle infatti, che quella domenica egli fosse fuori casa e che la padrona fosse lei.

Tutt'a un tratto la si vide comparire sulla soglia dell'abitazione, in aria di sfida, con le mani sui fianchi e la voce minacciosa: al rumore che avevano fatto alcuni giovani che si rincorrevano giocando alla palla, una sua gallina che covava in una cesta era fuggita spaventata. Dire il furore di quella donna è impossibile. Urlava come un'ossessa, stringeva i pugni di rabbia e gridava a Don Bosco: - Ah sì! Ne fa delle belle con i suoi farabutti! Ma aspetti Don Tesio. Se non vi manda tutti via, so bene io che cosa devo fare. Si è mai vista una cosa simile! E lei, un prete, in questo modo alleva questi mascalzoni. Ah, questa è proprio l'ultima domenica che vi vedo qui!

- Ma, buona signora - rispose calmo Don Bosco, - siete sicura di stare qui domenica prossima? Noi siamo nelle mani di Dio. Poi, rivolto ai suoi ragazzi: - Smettete i giochi e andiamo in cappella per il catechismo e il rosario.

Terminata la preghiera, Don Bosco si imbatté in Don Tesio, ritornato da poco e premurosamente informato dalla governante con mille esagerazioni. Ebbe così il dolore di sentirsi ritirare il permesso di utilizzare il cimitero come campo da giochi per i suoi ragazzi. Il soggiorno dell'Oratorio a San Pietro in Vincoli era durato appena un pomeriggio di domenica. Bisognava ricominciare da capo. Per consolare quel piccolo popolo afflitto, il buon teologo Borel, divenuto ormai stabile collaboratore di Don Bosco, fece la famosa predica dei cavoli: “Guardate i cavoli, miei cari: non prosperano se non vengono spesso trapiantati. Lo stesso per voi: ad ogni trasferimento siete cresciuti: è aumentato il vostro numero ma anche il vostro desiderio di diventare buoni cristiani. Coraggio! Non affliggetevi! Il Signore veglia sopra di noi: abbandoniamoci a Lui con fiducia. Egli penserà al vostro nido futuro e presto ve lo mostrerà”.

Difatti, poche settimane dopo, si vide l'Oratorio trapiantato ai Molini della Dora.

C'era in quella località una chiesetta dedicata a San Martino; ogni domenica vi si celebrava una Messa, poi la chiesa restava vuota per tutta la settimana. Dall'amministrazione municipale Don Bosco ebbe l'uso dell'edificio per il pomeriggio della domenica. Poteva tenervi il catechismo, ma le difficoltà non mancavano: la ristrettezza della chiesa, nessun locale coperto in caso di tempo cattivo, per unico luogo di ricreazione la piazzetta e la strada pubblica di fronte, continuamente attraversate da carri che interrompevano i giochi.

A questi disagi venne ad, aggiungersi l'ormai prevedibile scontento dei vicini che vedevano in pericolo la loro quiete. Dopo insulti e minacce al «protettore dei discoli», fu scritta una lunga lettera al Consiglio Municipale, nella quale quell'orda di ragazzi era dipinta con i colori più neri. Bastò questo per spaventare il Sindaco che si affrettò a ritirare il permesso di utilizzare la chiesa di San Martino. Il primo di gennaio (si era allora in dicembre) Don Bosco doveva sloggiare.

La sua ingegnosità escogitò allora l'Oratorio volante. Radunava la domenica mattina i ragazzi in una piazza poi partivano in silenzio, per non disturbare il quartiere.

Appena fuori della città i ragazzi riprendevano vita e un po' cantando e un po' pregando arrivavano ad un Santuario vicino, alla Madonna di Campagna, al Monte dei Cappuccini, a Superga. Don Bosco vi confessava chi lo desiderava, celebrava la Messa, poi tutti ritornavano a Torino. Nel pomeriggio si ricominciava in un'altra direzione, ma questa volta per passeggiare, giocare, gridare, divertirsi. Ritornavano con le prime stelle e i più ferventi accompagnavano il loro padre ad una delle ultime benedizioni del Santissimo che si davano in città.

Quella vita nomade non durò molto tempo. L'inverno, che fu quanto mai cattivo, si incaricò di troncarla. Don Bosco capì che non avrebbe potuto più a lungo portare in giro così le sue tende e prese in affitto tre stanze in una casa di Valdocco. Quelle camere si aprivano durante la settimana per la scuola serale ai giovani più grandi e la domenica vi si faceva il catechismo a tutti. Sembra che, miracolosamente, la folla dei giovani riuscisse ad entrare al completo in quei locali angusti.

Andavano alle funzioni religiose in una parrocchia vicina e i giochi si svolgevano in alcuni prati sotto l'occhio vigile di Don Bosco. Non era l'ideale, ma alla fine si viveva.

Purtroppo un nuovo uragano si scatenò sull'opera già tanto perseguitata. Gli inquilini della casa fecero presente al proprietario che il chiasso di quei ragazzi e il loro va e vieni per la scuola serale li distur

bavano in maniera intollerabile. Il che, a volere essere sinceri, poteva' essere vero. Di comune accordo, i locatari lasciarono al padrone libera scelta fra loro e Don Bosco: o se ne andavano loro, o se ne andava il prete. Il proprietario non esitò un istante e licenziò Don Bosco che, per farla finita, non sapendo più dove rifugiarsi, prese in affitto da certi vicini un prato in mezzo al quale sorgeva una baracca sgangherata.

Di tappa in tappa, da uno sfratto all'altro, si era giunti a non avere neppure più un tetto per ripararsi dalle intemperie dell'inverno subalpino.

Presto doveva capitare di peggio. Fino ad allora, l'Oratorio di Don Bosco era stato minacciato solo dai vicini disturbati dal fracasso dei giovani ma ora doveva cadere in sospetto delle stesse autorità. La tempesta scoppiò contemporaneamente da più parti.

Anzitutto i parroci di Torino non vedevano di buon occhio che tanti giovani si radunassero sotto la direzione di Don Bosco. “Essi appartengono” dicevano i parroci “a diverse parrocchie; le frequentino dunque, invece di disertarle per assistere a funzioni fatte or qui or là, e sempre da Don Bosco! Fra poco non conosceranno più né il loro parroco né la strada della loro parrocchia e questo sarà un male!”.

Al che il teologo Borel, coraggioso difensore dell'opera del confratello, replicava: «Ma,

signori miei, quei ragazzi, fino a ieri non frequentavano nessuna chiesa! Si troverebbero senza dubbio molto imbarazzati se si domandasse loro a che parrocchia appartengono! Se non andassero da Don Bosco, non andrebbero da nessuna parte. Lasciateli dunque a lui, che col tempo ve ne farà degli ottimi parrocchiani. Del resto la maggior parte non sono di Torino. Notate inoltre che hanno dai quindici ai diciotto anni; potreste forse metterli in mezzo ai vostri ragazzini di dieci o dodici nei banchi del catechismo? Notate ancora che se Don Bosco riesce ad attirarli, è perché egli adopera certi mezzi - giochi, passeggiate, premi, scuole serali - per i quali ci vuole un'attitudine speciale, tempo, esperienza e una resistenza fisica notevole. Vi sentireste di fare altrettanto nelle vostre parrocchie?”.

Discorso logico che però, come spesso capita, non riusciva a distruggere sospetti e pregiudizi radicati.

I borghesi benpensanti, poi, vedendo Don Bosco andare in giro con quella turba di sbandati che gli obbedivano a comando, si erano persuasi che fossero addestrati da lui in vista di qualche rivolta popolare.

Le voci arrivarono sino alle orecchie del Vicario della Città. Don Bosco fu convocato in Municipio, e, dopo un interrogatorio, gli fu ingiunto di rinunciare alle sue attività «sovversive».

- La smetterò se ne avrò ordine dall'Arcivescovo! - rispose il prete con calma.

- Provvedere ben io a farvelo dare, quell'ordine! - inviperì il Vicario, sorpreso dalla resistenza inaspettata.

Brigò infatti per ottenere un richiamo dalla Curia; ma monsignor Fransoni non diede seguito alla richiesta. Allora, poliziotti in borghese cominciarono a passeggiare nelle vicinanze del prato su cui si riunivano i giovani. Subito riconosciuti, divennero oggetto dei frizzi dei ragazzi. Don Bosco stesso, all'ora della predica, non perdeva l'occasione di aggiungere qualche parola per quelle orecchie in ascolto dietro ai cespugli.

“Strano cospiratore, quel prete!” pare dicesse una volta uno dei poliziotti “Ancora qualche domenica di servizio qui e finiremo con l'andare a confessarci!”.

Quello stesso anno, per essersi rifiutato di partecipare con i suoi ragazzi a una cerimonia ufficiale, allegando il pretesto che, essendo i suoi giovani troppo male in arnese, la solennità della riunione ne avrebbe scapitato, Don Bosco sarà nuovamente convocato dalla polizia. Nessuno dei poliziotti conosceva Don Bosco se non di fama. Egli ne approfitterà per presentarsi con l'aria di buon uomo, la barba mal rasata, le scarpe slegate, risposte da uomo distratto e poco intelligente; tanto che i commissari dopo averlo visto lo rimanderanno subito a casa dicendo: «Ma lasciamolo andare! Non sarà questo povero sempliciotto a mettere in pericolo le istituzioni dello Stato!”.

Agli ostacoli polizieschi si aggiungeva lo scoraggiamento che persino gli amici migliori cercavano di insinuargli nell'animo e le dicerie ingiuriose che si spargevano sul suo stato mentale.

“Perché ostinarti?” gli dicevano tutti “Vedi bene che le circostanze sono contro di te! Limita la tua azione ad un gruppo di ragazzi, i migliori o i più bisognosi. Per una ventina di questi, un locale potrai trovarlo sempre. Gli altri, aspetteranno l'ora della Provvidenza”.

Alcuni poi, sentendolo esporre tutti i suoi disegni di apostolato, sussurravano tra loro: - Povero Don Bosco! Ha un'idea fissa, vede con la lente d'ingrandimento. È un caso di megalomania. Il male potrebbe danneggiargli ancor di più la mente e allora.

- Ma no, ma no, non vedo con la lente d'ingrandimento! - rispondeva Don Bosco. - Vedo solo le cose come saranno. Sì, noi avremo, e presto, chiese, cortili, case; avremo sacerdoti, chierici, laici, che ci aiuteranno ad educare la gioventù; avremo migliaia di ragazzi; avremo.

- Ad ogni modo, adesso non hai nulla! - gli replicava Don Borel, l'amico più intimo. - È vero: adesso; ma tra poco saremo alla testa di un grande Oratorio.
- Un grande Oratorio?

- Proprio così. Io lo vedo. L'ho davanti agli occhi, in tutti i suoi particolari: chiesa, cortile, porticato, non manca nulla.

- Ma dove sarà tutto questo?
- Ancora non posso dirlo. Ma ci sarà, l'avremo. Intanto, in mezzo al clero torinese si

andava spargendo la voce che
Don Bosco vaneggiava in modo manifesto. Chi sa che non fosse opportuno procurargli

qualche settimana di riposo, meglio se in luogo chiuso? Ci si pensava seriamente in alto, tanto che un giorno gli si presentarono due venerandi canonici inviati dalla Curia per sondare cautamente il terreno. L'impressione che i due anziani ecclesiastici ricavarono dalla visita dovette essere ben negativa, se qualche giorno' dopo furono seguiti da due altri sacerdoti con l'incarico di condurre Don Bosco in manicomio, con le buone o con le cattive.

Il teologo Ponsati e il canonico Nasi, fingendosi in visita di cortesia, dopo qualche chiacchiera sul tempo, proposero una passeggiata al confratello che, avendo fiutato il trucco, stava all'erta.

- Un po' d'aria fresca le farà bene, Don Bosco! Venga, venga con noi. Abbiamo giusto qui sotto una carrozza pronta.

- Perché no, cari signori? Con molto piacere! Prendo il cappello e sono con loro! Giunti allo sportello spalancato:

- Don Bosco, si accomodi.
- Oh, non sia mai! Conosco il rispetto che si deve a lor signori. - Ma no, ma no, salga!
- Su questo non cedo! Prego, prima loro!

Salirono di mala voglia. Il secondo si era appena infilato, che Don Bosco sbatteva violentemente lo sportello gridando al cocchiere:

- Presto, al manicomio! È un caso urgente!

I cavalli furono presto al gran galoppo mentre grida disperate, proprio simili a quelle dei pazzi, provenivano dall'interno della car

rozza. Il manicomio era vicino e il personale, avvertito dalla Curia, aveva spalancato i cancelli e stava in attesa. I due preti furono immediatamente afferrati e, quanto più protestavano, tanto più stretti con Corde e camicie di forza. Solo l'intervento del cappellano dell'ospedale, arrivato dopo un bel po' di tempo, potè chiarire l'equivoco. Da quel giorno nessuno parlò più di ricoverare Don Bosco: lasciarono che si crogiolasse nella sua megalomania.

Si continuò a tormentarlo in altro modo, giungendo a togliergli anche l'uso del misero prato.

Al mattino della domenica, seduto sopra l'erba, Don Bosco accoglieva quelli che volevano confessarsi. Poi partivano alla volta di un Santuario vicino, per partecipare alla Messa, seguita sempre da una colazione gratuita. Il dopopranzo, quei quattrocento ragazzi si ritrovavano puntualmente sul prato per dare sfogo alla loro esuberanza. A un certo punto uno squillo di tromba interrompeva i giochi e i giovani, divisi in gruppi, secondo l'età e il grado d'istruzione, ricevevano la lezione di catechismo, al termine della quale, dall'alto di un monticello, Don Bosco dava gli avvisi per la settimana, teneva un sermoncino e intonava quindi, a chiusura, le litanie della Madonna.

Dopo di che, ricominciavano le partite e i giochi, che duravano sino a notte inoltrata.

Ma un giorno, ahimè!, i fratelli Filippi, proprietari del campo, si recarono da Don Bosco e: «I suoi ragazzi, Reverendo», gli dissero “calpestano l'erba a tal punto che ne distruggono persino le radici. Fra poco questo non sarà più un prato, ma una strada. Ci dispiace molto ma siamo costretti a intimarle di partire entro quindici giorni”.

Quindici giorni per sloggiare! Don Bosco non voleva credere alle sue orecchie. Finì tuttavia per rassegnarsi, sperando che in quei quindici giorni sarebbe intervenuta la Provvidenza. Passarono otto giorni: nessuna novità. Passarono quindici giorni: ancora nulla. Si arrivò alla domenica in cui Don Bosco avrebbe dovuto separarsi dai suoi ragazzi, non avendo più alcuna possibilità di trovare un posto per loro. Al solo vederli arrivare quella

mattina, il cuore gli sanguinava. Tuttavia la sua fede restava intatta.
- Via alla Madonna di Campagna! - gridò ai giovani appena finito di confessare. - Devo

chiedere una grande grazia a Maria! Voi la chiederete con me.

Andarono al vecchio Santuario, dove tutti pregarono fervorosamente, sentendo che il cuore del padre era addolorato. Verso le due, i ragazzi si trovavano di nuovo sul prato, inconsapevoli dello sfratto che li minacciava. Alla solita ora ci fu il catechismo, poi il canto e la predica, indi ricominciarono i giochi: sembrava tutto come ogni altra domenica.

Don Bosco, però, affranto dal dolore, passeggiava solo sull'orlo del recinto. “Contemplando quella moltitudine di ragazzi” scrisse anni dopo “pensando alla ricca messe che essa preparava al mio sacerdozio, mi sentii scoppiare il cuore. Ero solo, senza aiuti, sfinito di forze, con la salute scossa e non sapevo più dove riunire i miei poveri figli. Nascondendo il dolore, passeggiavo in disparte e, forse per la prima volta, mi sentii salire agli occhi le lacrime. Dio, Dio mio, supplicai levando al cielo lo sguardo, indicatemi il luogo dove possa riunirli domenica o ditemi che cosa debbo fare!”.

Quasi a risposta della preghiera desolata ma, malgrado tutto, fiduciosa, un povero balbuziente che si faceva capire a stento entrò in quel momento nel recinto. La cronaca ci ha conservato il nome di quell'umile messaggero di speranza: si chiamava Pancrazio Soave.

- E vero che cercate un locale? We lo domando perché ho un amico, un certo Pinardi, che possiede una magnifica tettoria da affittare. Vogliamo andare a vederla?

Don Bosco lo seguì, troppo sbalordito per rispondere qualcosa. La “magnifica tettoia” era una specie di fienile col tetto molto basso e pieno di fessure. Dopo qualche trattativa, Pinardi accettò di abbassare il suolo di mezzo metro e di affittare a Don Bosco tettoia e terreno circostante per trecento lire all'anno, con un regolare contratto. Tutto sarebbe stato pronto per la domenica seguente.

Don Bosco ritornò al prato dei Filippi con il cuore che sembrava scoppiare di gioia e di riconoscenza: quando annunciò ai ragazzi che avevano ormai un asilo sicuro, fu un'esplosione di grida e di canti. Recitarono subito, tutti assieme, il rosario per ringraziare la Madonna.

Ormai l'Oratorio aveva trovato una sede. Dopo diciotto mesi di peregrinazioni, stava per stabilirsi in quella casa Pinardi, attorno alla quale doveva anche nascere, crescere, diffondersi per il mondo la Società Salesiana, nata dalle lacrime, dalla miseria, dal cuore di quell'umile prete.

Se l'Opera aveva ormai un asilo sicuro, fra poco non si sarebbe potuto dire altrettanto di Don Bosco, ancora cappellano in seconda del Rifugio Santa Filomena.

Oltre il modesto salario - seicento lire all'anno - l'impiego gli assicurava vitto e alloggio: due preoccupazioni di meno in una vita movimentata quale la sua.

Ma, com'era forse prevedibile, presto la Marchesa di Barolo cominciò ad adombrarsi dell'apostolato tra i giovani del suo cappellano. Non si poteva servire lei ed avere contemporaneamente altri pensieri: questo era per lei intollerabile!

Un giorno, Don Bosco se la vide arrivare con aria ancor più risoluta del solito:
- Caro Don Bosco, la sua assistenza alle mie figliole di Santa Filomena è davvero

ammirevole. Ne sono molto contenta.
- Signora Marchesa, non mi ringrazi di nulla! Non faccio che adempiere il compito che

mi è stato affidato dalla sua generosità.
- A proposito, Reverendo, non riesco a capire come potrà continuare a lungo a

conciliare il mio incarico con la cura delle centinaia di ragazzi che le corrono dietro ogni domenica.

- Non si preoccupi, signora Marchesa! Il Signore mi ha aiutato sino ad oggi e spero che vorrà continuare ad assistermi.

- No, Don Bosco! Lei si rovinerà la salute e io non voglio. Oppure ci rimetterà la mia Opera. È proprio per questo che sono venuta a darle un avviso.

- Quale?

- Lasciare la sua Opera o la mia. Non c'è fretta, Don Bosco! Ci pensi; mi darà la risposta tra qualche giorno.

- Ci ho già riflettuto, signora! Con le sue ricchezze ella può, senza la minima difficoltà, trovare non uno ma dieci sacerdoti che occupino il mio posto, mentre di quei poveri ragazzi, se non me ne occupo io, non si occuperà nessuno. tì

- E dove andrà ad abitare? Di che camperà?
- Ci penserà la Provvidenza!
- Ma la sua salute è stremata. Anche la sua mente, a quanto mi si dice, non ne può

più. Sia ragionevole! Vada a riposarsi il tempo che vuole: penserò io alle spese e quando sarà completamente ristabilito riprenderà il suo posto al Rifugio.

- Impossibile, signora! Glielo ripeto: la mia vita è tutta al servizio di quei poveri ragazzi e nulla e nessuno mi allontanerà dalla missione che il Signore mi ha indicata.

- Dunque lei preferisce i suoi vagabondi alle mie orfanelle! In tal caso si consideri esonerato sin da oggi dal suo incarico. Penserò io a trovarle un sostituto!

E la signora Marchesa se ne andò con il suo passo imperioso. Dopo i figli, toccava ora al padre restare sul lastrico. ,

La Barolo non si ingannava quanto alla salute di Don Bosco: un solo sguardo al suo viso sarebbe bastato a far comprendere che il povero prete non si reggeva più in piedi.

Non si conduce impunemente la vita che egli conduceva da venti mesi! Cinque sfratti e traslochi, le corse in città per trovare lavoro ai suoi ragazzi, le interminabili sedute in confessionale, tutto un piccolo mondo non solo da istruire e da divertire ma spesso da nutrire e da vestire, le numerose visite ai ricchi per procurarsi un po' di denaro, il servizio religioso del Rifugio, i giri nelle prigioni, l'insegnamento del catechismo al Cottolengo. Una mole impressionante di lavoro gli aveva minato sordamente l'organismo. Un nonnulla, una minima imprudenza, avrebbe potuto provocare il crollo: questo giunse infatti, ai primi di luglio del 1846, sotto forma di una violenta polmonite.

Una domenica sera, dopo una giornata massacrante all'Oratorio, appena rientrato in camera Don Bosco svenne per la fatica. Si dovette trasportarlo sul letto e da quell'istante la febbre non lo lasciò più. In otto giorni giunse all'orlo della tomba.

La domenica dopo Don Borel, accompagnato dai ragazzi più grandi che piangevano senza ritegno, gli portava il Viatico. Il martedì gli fu amministrata l'Unzione degli infermi.

La notizia della malattia aveva gettato nella disperazione i giovani; ognuno sentì che rischiava di perdere il padre, il consigliere,' l'amico migliore.

Davanti alla porta del malato, nel corridoio, giù per le scale, fin sulla strada, si pigiava la turba inquieta dei ragazzi: sembrava che avessero tutti una parola da dirgli o da ascoltare prima che morisse.

Ma l'ordine dei medici era formale: solo gli intimi potevano accedere al capezzale del moribondo. E tutti quei giovani restavano fuori, delusi, attendendo notizie, con il cuore angosciato. Era mai possibile che il Cielo li abbandonasse di nuovo a loro stessi, senza un amico ne un difensore? Non riuscivano a crederlo. E se ci voleva un miracolo, ebbene, l'avrebbero strappato!

Si videro allora quei “discoli”, darsi il turno per interminabili preghiere alla Consolata, dall'alba sino alla chiusura del Santuario e continuare anche di notte i loro rosari, inginocchiati all'aperto nei pressi della casa del malato. Fecero voti incredibili, digiuni, penitenze, nella volontà tenace di «commuovere» Dio.

E il miracolo giunse. Giunse nella notte che i medici avevano indicata come quella della crisi fatale.

- Don Giovanni - gli disse una sera il teologo Borel - Lei sa bene che cosa dice la Scrittura: “Nella tua malattia prega il Signore ed Egli ti guarirà”.

- Lasciamo che si compia la volontà di Dio.
- Dica almeno: «Signore, se così ti piace, guariscimi». Glielo chiedo, Don Bosco, in

nome dei suoi ragazzi. Su, ripeta con me queste parole. Il moribondo le ripetè.

- Adesso sono sicuro che si salverà! - gridò Don Borel rialzandosi in piedi. - Mancava soltanto la sua preghiera!

Il giorno seguente i medici affermavano che la crisi era superata e che, salvo complicazioni, il male sarebbe stato vinto.

Quindici giorni dopo, una sera di domenica, Don Bosco ritornava in trionfo alla tettoia Pinardi issato a spalle su una sedia, in una confusione indescrivibile di giovani che gridavano, piangevano, cantavano.

- Ragazzi miei - disse il redivivo non appena potè essere deposto a terra. - Ragazzi miei, grazie, grazie a tutti per questa vostra prova di affetto! Grazie soprattutto per le vostre preghiere che mi hanno richiamato alla vita. Se oggi io sono qui, è a voi che lo devo. E non vi sembra giusto che io dedichi a voi tutti i giorni che il Signore mi darà? Contate su di me. Ma voi aiutatemi a rendervi ancora più buoni.

Piangevano tutti, Don Borel più degli altri. Alcuni giorni dopo Don Bosco partiva per Castelnuovo in convalescenza.

Durante la sua assenza, l'Oratorio andò avanti alla meglio con l'assistenza di alcuni preti, capitanati dal fedele teologo.

Capirono allora, quei bravi amici, che riserva di pazienza e di abnegazione occorresse per vivere in mezzo a quella “gioventù bruciata», affettuosa e riconoscente, certo, ma tanto spesso grossolana, chiassosa, coperta di stracci talvolta pidocchiosi; per fare buona accoglienza a tutti, a quelli che sorridono e a quelli che guardano con

occhi torvi; per correre intere giornate per la città a supplicare un lavoro per i disoccupati; per sollecitare la carità di coloro che pur avrebbero avuto interesse ad impedire che la miseria diventasse sempre più disperata; per accettare quelle domeniche massacranti, dopo gli impegni di tutta una settimana; per essere a disposizione di tutti, sempre e dovunque. Per raccogliere, infine, come ricompensa, i frizzi delle persone di “buon senso”, le critiche dei benpensanti, il sospetto delle autorità.

Gli amici si sacrificarono così per tre lunghi mesi e l'Oratorio fu salvato, mentre Don Bosco tirava avanti la sua convalescenza. Alla fine di ottobre, nonostante l'avviso del medico e dei parenti, non stette più fermo; il corpo non era ancora completamente ristabilito ma Don Bosco soffriva troppo, lontano da Torino. Decise di partire al principio di novembre.

Crescendo il numero dei suoi ragazzi, aveva più che mai bisogno di non essere più solo, di avere al suo fianco qualcuno che lo aiutasse nell'assistere i giovani materialmente e non soltanto nel fare loro il catechismo o nel sorvegliarli durante la ricreazione.

Inoltre, rimasto senza casa dopo lo sfratto dal Rifugio, aveva affittato quattro camere al primo piano della casa Pinardi. Così avrebbe potuto vivere al centro stesso dell'Oratorio. La casa sorgeva però in mezzo ad altre dalla fama equivoca: l'edificio attiguo, un albergo, era addirittura un ritrovo in cui il vizio non temeva di mostrarsi in piena luce. Gli altri inquilini della casa Pinardi, poi, erano per lo più persone dal passato movimentato. Un prete, per giunta un “sorvegliato speciale” come lui, non avrebbe potuto vivere da solo in quelle stanze senza provocare chiacchiere e sospetti. Bisognava trovare qualche persona irreprensibile con la quale dividere lavoro e alloggio.

- Perché non prendi tua madre con te? - gli suggerì il parroco di Castelnuovo.

Ad avere con sé la mamma, Don Bosco aveva già pensato, ma non aveva avuto il coraggio di parlargliene. Sua madre non era più giovane ed aveva ben meritato di riposare un po' nella pace solitaria dei Becchi. Ed egli avrebbe dovuto chiederle il sacrificio estremo di lasciare il villaggio, la casetta, le amicizie, le. abitudini serene tra le gioie dei nipotini, per la grande città sconosciuta, il chiasso, le esigenze, la cattiva educazione di centinaia di ragazzi ricattati sulla strada? No, questo non sembrava possibile. Ma come tirarsi fuori altrimenti dall'impaccio? Rifletté, pregò a lungo e alla fine decise di farsi animo e di esporre la situazione alla madre.

Mamma Margherita ascoltò attentamente. Quando il figlio ebbe finito di parlare non ebbe esitazioni: “Se credi che questa sia la volontà del Signore, conta pure su di me!”.

E, prevedendo quale miseria l'aspettasse a Valdocco, nei giorni seguenti vendette quanto ancora possedeva del corredo da sposa. Le restò ancora una catenella d'oro e la fede matrimoniale: a Torino darà anche quelle per comperare pane ai ragazzi dell'Oratorio.

Erano le uniche ricchezze di quella santa vecchia. Le offriva alla missione del figlio con quel po' di vita che ancora le restava.

I due si misero in cammino il 3 novembre del 1846, a piedi. Lei con la grossa cesta in cui portava un po' di biancheria e gli utensili da cucina, lui con sotto il braccio un messale, alcuni quaderni e il breviario.

La strada era lunga: trenta'chilometri, sette ore di marcia. Per la strada cantavano per ingannare la fatica. Mamma Margherita intonava col figlio un suo ritornello di uno humour contadino:

Guai al mondo se ci sente forestieri senza niente!

Arrivarono spossati alle porte della capitale. Al Rondò della Forca, l'incrocio tra gli attuali corso Regina Margherita e corso Valdocco, incontrano Don Vola, un prete amico.

- Dai Becchi a piedi? E perché?

- Ci mancano questi - e Don Bosco fa scorrere il pollice sull'indice.
Il prete si fruga in tasca ma non ha soldi con sé. Stacca allora dalla catena l'orologio e

lo porge al confratello.
- Tenga, Don Bosco. Io ne ho un altro.
- Vedi, mamma? Te lo dicevo io che la Provvidenza avrebbe pensato alla nostra cena di

questa sera!
Qualche minuto più tardi sono alla casa Pinardi, a poche centinaia di metri dal Rondò.

Due delle quattro camere sono ammobiliate, se si può chiamare mobilio un tavolo, due sedie di paglia, due letti.

Si è fatta ormai notte.

Alla luce di una candela, Don Bosco appende sul letto un'acquasantiera, un rametto di ulivo, un'immagine sacra. Sotto il balcone si è radunato un gruppo di ragazzi: vengono li ogni sera, da quando sanno che l'arrivo di Don Bosco è imminente. Vedendo le finestre

fiocamente illuminate, si chiedono se il loro amico non sia davvero tornato, ma non osano salire. A un tratto, nel silenzio della sera di novembre, una voce forte di tenore si alza, subito accompagnata da un'altra, armoniosa, di donna.

Cantano un inno che Silvio Pellico ha composto da poco e che comincia con le parole:

Angioletto del mio Dio.

L'avvenire è incerto, l'unica ricchezza in casa è l'orologio appena regalato, ma i due cantano con gusto quel canto di fede.

Il demonio - Don Bosco lo ripeteva spesso - il demonio ha paura della gente allegra.

CAPITOLO IV.

L'Opera si consolida.

Uno dei primi pensieri di Don Bosco, al suo ritorno a Torino, fu di dare maggiore sviluppo alle scuole serali che aveva iniziate l'anno prima. Dei ragazzi che frequentavano l'opera, un gran numero non sapeva neppure leggere: ed erano spesso i più grandi. Duro ostacolo, questo, per chi voleva insegnare loro un mestiere e per i giovani una triste inferiorità sociale che li avrebbe tenuti per tutta la vita nella condizione di cittadini di seconda

classe, esponendoli allo sfruttamento dei datori di lavoro.
Prima di ogni altra, dunque, Don Bosco aprì una scuola di lettura e per abbecedario

mise in mano ai suoi allievi il Piccolo Catechismo della Diocesi di Torino.
A questo inizio di scuole serali si aggiunsero più tardi corsi di aritmetica, di italiano, di

disegno, di geografia, di dizione, di musica. Gli scolari si riunivano (o, meglio, si pigiavano) nelle due camere vicine a quelle occupate da mamma Margherita e dal figlio. Don Bosco era svelto ad occupare ogni altro locale che si rendesse disponibile nell'edificio e le aule invadevano così rapidamente la casa Pinardi.

Nella primavera del 1847, una Commissione Statale fu inviata a ispezionare i corsi serali di Valdocco dei quali ormai tutta Torino parlava. Gli Ispettori non nascosero la loro ammirazione davanti ai risultati raggiunti. Visitarono e interrogarono i giovani sulle materie insegnate: le risposte di quegli analfabeti di ieri furono tanto pronte e convincenti che la Commissione, all'unanimità, chiese che il Governo concedesse un sussidio annuale di trecento lire alla scuola di Don Bosco.

Quanti erano, in quel 1847, i ragazzi di Don Bosco? È difficile stabilirlo con esattezza. Una sola cosa era certa: in quei locali troppo stretti si soffocava, bisognava allargarsi sul posto o aprire altrove nuovi Oratori. Allargarsi era per il momento impossibile, poiché gli ultimi inquilini di casa Pinardi tenevano duro. Don Bosco dovette dunque

pensare ad una nuova fondazione e lo fece con entusiasmo per tentare la bonifica sociale di un altro quartiere della capitale e per avvicinarsi alla casa di moltissimi ragazzi che gli giungevano a Valdocco dall'altro capo della città.

Sul viale del Re, l'attuale corso Vittorio Emanuele II, tra Porta Nuova e il Parco del Valentino, aprì nel 1847 l'Oratorio di San Luigi. Due anni dopo quello dell'Angelo Custode nel sobborgo di Vanchiglia, malfamato quanto e forse più di Valdocco e infestato da famose bande di teppisti che scorazzavano per strade e campi terrorizzando gli abitanti.

La sera del giorno in cui aveva affittato il terreno per il nuovo Oratorio di San Luigi, Don Bosco ne diede così la notizia ai giovani: “Quando un alveare è troppo affollato, le api in soprappiù sciamano e vanno a cercare un nuovo alveare. Così faremo anche noi. Siamo troppi qui: in ricreazione siamo uno sopra l'altro, in cappella vi vedo stipati come acciughe, non c'è più modo di muoversi. E allora, ragazzi miei, imitiamo le api e andiamo a fondare un nuovo Oratorio!».

Un urlo di gioia e lancio di berretti in aria salutò l'allocuzione del Grande Capo della tumultuosa assemblea.

Nel 1848 Don Bosco aveva trentatre anni. Ne avrà cinquantacinque nel 1870, alla presa di Roma. Gli anni della sua maturità sacerdotale passarono dunque tutti nel clima infuocato del Risorgimento.

Negli anni del consolidamento degli Oratori - tra il 1847 e il 1848 - l'Italia attraversava un momento politico unico nella sua storia. Sotto la formidabile pressione dell'opinione pubblica, ad uno ad uno gli Stati della Penisola concedevano al popolo una Costituzione che garantisse le libertà politiche e sociali. Cominciò a Napoli il re Ferdinando II, il 29 gennaio 1848, seguito da Pio IX e poi da altri governanti, sino a Carlo Alberto che il 4 marzo del 1848 promulgava lo Statuto che avrebbe retto un giorno l'Italia intera.

Un'altra passione, non meno ardente di quella per la libertà, covava nell'animo dei politici e in fondo all'anima popolare: l'Italia aspirava alla sua unità. Dei numerosi e piccoli Stati in cui allora si divideva la Penisola, la passione nazionale desiderava fare un unico, grande Stato, scacciando dal suolo italiano gli Austriaci che comandavano nel Lombardo- Veneto e facevano sentire la loro pesante influenza sul resto d'Italia.

Neppure il clero fu risparmiato dal contagio della febbre patriottica. A Torino, nonostante i richiami dell'Arcivescovo, si videro i

seminaristi acclamare lo Statuto per le strade e portare la coccarda tricolore in Duomo,

alla Messa solenne di Natale.
Come prevedibile, il soffio bellicoso alitò anche sugli oratori di Don Bosco. Una

domenica sera, uno dei giovani preti che lo aiutavano a Valdocco, tenne ai ragazzi un discorso infiammato in cui si parlava di libertà, di indipendenza, di guerra all'Austria. Mentre Don Bosco si accingeva a riportare un po' di calma, il prete spiegò una bandiera tricolore, si appuntò una coccarda sul petto e uscì a passo marziale dal recinto tirandosi dietro un centinaio di ragazzi entusiasti.

Sino ad allora Don Bosco, che pure ripeteva spesso di essere “prete e buon cittadino”, aveva prudentemente evitato di favorire spiriti guerreschi, pericolosi sempre per l'educazione dei giovani, cristiani soprattutto. Ora però, si trovava davanti alla riprova drammatica che i suoi giovani, alle palle e alle altalene dell'Oratorio, preferivano “il gioco della guerra” sui prati della periferia.

Lo levò brillantemente da quell'impiccio un certo Giuseppe Brosio, pittoresco sottufficiale dei bersaglieri. Costui scelse i più bellicosi tra i ragazzi dell'Oratorio e ne formò due squadre che, chiamate dei Piemontesi e degli Austriaci, si affrontarono in epici scontri con fucili di legno tra l'entusiasmo degli spettatori.

Unica vittima di quella campagna fu l'orto che mamma Margherita si era formato con fatica su una striscia di terra accanto alla casa. Un giorno, infatti, la compagnia «piemontese» trascinata da Brosio in un travolgente assalto all'arma bianca, calpestò e distrusse tutta la verdura.

La povera donna dovette assistere impotente al disastro dalla porta della cucina, che le sue grida disperate erano coperte dagli squilli di tromba e dagli Avanti Savoia! dello scatenato bersagliere.

- Guarda, guarda, Giovanni, che cosa mi hanno combinato il bersagliere e quei benedetti ragazzi! - disse la povera donna disperata al figlio che le era accanto.

- Povera mamma, che volete farci? Sono giovani.
Essere giovani, agli occhi di Don Bosco, riscattava sempre dalle monellerie in cui non

c'era offesa di Dio.
“Miei cari ragazzi” scriverà nell'introduzione di un libro famoso dedicato alla loro

istruzione “miei cari ragazzi, io vi amo tutti di cuore; e mi basta sapere che siete giovani perché io vi ami assai. Troverete scrittori di gran lunga più virtuosi e più dotti di me, ma difficilmente potrete trovare chi più di me vi ami in Gesù Cristo e più di me desideri la vostra vera felicità”.

Una sera di primavera di quello stesso anno, tornando a casa, Don Bosco si era visto circondare da un gruppo minaccioso di vagabondi che lo avrebbero lasciato malconcio se egli non avesse pagato loro qualche bicchiere di buon barbera in una bettola vicina. Dopo averli ammansiti in questo modo, aveva persino fatto loro un po' di predica.

- Visto che ormai siamo buoni amici, mi farete il piacere di non bestemmiare più come avete fatto poco fa, vedendomi venire verso di voi! Me lo promettete?

- Ma certo, signor abate, volentieri, volentieri! Soltanto, capirà, non è colpa nostra, ci scappa, l'abitudine, ma d'ora innanzi vedrà!

  • -  Bene, ora tornate da bravi a casa e domenica vi aspetto da me, là in fondo, a casa Pinardi.

  • -  Tornare a casa - dissero alcuni - sarebbe difficile.

  • -  Ma dove dormite la notte?

  • -  Un po' dappertutto: al ricovero notturno, in una stalla, dove si può. Mai due notti di

    seguito nello stesso posto.

- In questo caso - disse Don Bosco seguendo come al solito solo l'impulso del cuore -

venite con me.
E attorniato da quelle facce, scese verso Valdocco dove la madre, non vedendolo

tornare, lo aspettava in ansia. Sotto il tetto della casa c'era una soffitta con della paglia. Don Bosco vi condusse i giovani, diede loro coperte e lenzuola di bucato e, fatto recitare come potevano un po' di orazioni, augurò loro la buona notte.

Al mattino, quando, tutto contento, salì per invitarli a colazione e per discorrere un po' con loro, tutti erano già scappati, portando via naturalmente lenzuola e coperte.

Il primo tentativo di realizzare il suo progetto di ospitare qualche giovane in casa anche per la notte, si era risolto in un'amara delusione che si ripeterà altre volte.

“Gli uni” scrisse egli stesso “ripetutamente portarono via le lenzuola, altri le coperte e infine la stessa paglia fu involata e venduta”.

Questa pessima ricompensa alla sua carità non lo turbava però, secondo il suo solito. Un giorno la madre gli corse incontro affannata:

- Oh, Giovanni, se sapessi! Ti hanno rubato il mantello nuovo, il solo buono che tu avessi. Era steso al sole ad asciugare ed è sparito!

- Pazienza, mamma! Che volete farci?
- Bisogna cercare il ladro, presto! Deve essere qui vicino. - Volete dunque che mi faccia poliziotto?

- Ecco, sempre lo stesso, lui! Non gliene importa niènte! E ora, come farai a uscire?

- Oh bella! Prenderò uno di quei cappotti regalati dall'Esercito e uscirò vestito alla militare. Farò una bellissima figura.

- Una carnevalata, insomma!
- Un po' di carnevale non guasta, ogni tanto. Poi, cambiando improvvisamente tono:
- Guardate, mamma, il ladro ne aveva forse più bisogno di me. Forse è già pentito. E

se venisse a confessarsi, gli lascerei il mantello e vorrei solo il suo proposito di non farlo più. Intanto, voi pregate la Madonna che me ne mandi un altro!

Finalmente, in quello stesso anno, un povero orfanello si presentò alla porta della casa di Valdocco. Era un garzone muratore, venuto a Torino per trovare lavoro. I pochi soldi che aveva alla partenza dalla Valsesia, dove era nato, erano finiti da un pezzo senza che avesse trovato il modo di guadagnarne altri. Stava per farsi notte, la pioggia cadeva a torrenti, il ragazzo era bagnato sino alle ossa e non si reggeva più dalla fame. Mamma Margherita accese subito un gran fuoco per asciugare i vestiti del piccolo ospite, gli dette da cena e collocò un pagliericcio in mezzo alla cucina. Lenzuola e coperte completarono il letto. Rimboccandogli le coltri, mamma Margherita sussurrò qualche buona parola all'orecchio del ragazzo, sbalordito e commosso dal calore di quella accoglienza. Le poche, semplici frasi della madre, ascoltate quella sera anche dal figlio, stanno forse all'origine dell'abitudine dei collegi salesiani di terminare la giornata con paterne parole dei Superiori ai ragazzi. Quella buona notte, augurata con spirito di famiglia, è, nella sua semplicità, tra le risorse più potenti del metodo educativo salesiano.

Il garzone muratore giunto dalla Valsesia fu dunque il primo alunno interno dell'Oratorio; presto se ne aggiunse un secondo, poi un terzo, fino a sette. A questo punto Don Bosco dovette fermarsi: per creare un vero collegio sarebbe stato necessario acquistare l'edificio. L'occasione venne nel 1851 e nel modo più inatteso.

Pinardi aveva sempre ripetuto che non avrebbe ceduto la sua proprietà per meno di ottantamila lire. Un prezzo decisamente esagerato.

Un giorno si avvicinò inaspettatamente a Don Bosco e in tono mezzo scherzoso: - Allora, signor teologo, non vuole proprio comprare la mia casa?
- La comprerò quando sarà offerta a un prezzo ragionevole.

- Ho detto ottantamila.
- Allora non ne parliamo neppure.
- Ma lei quanto offrirebbe?
- L'edificio è stimato dalle ventisei alle ventottomila lire. Io ne offro trenta. - Pagherebbe in contanti?
- In contanti!
- Entro quindici giorni?
- Entro quindici giorni!
- Con centomila lire di multa per chi si ritira?

- D'accordo per le centomila lire di multa. Una stretta di mano e il contratto fu fatto.

Naturalmente Don Bosco non aveva un soldo in tasca. Ma si trattava dell'interesse dei suoi ragazzi e in questi casi la sua fiducia diventava assoluta.

Quando mamma Margherita seppe della cosa, non potè fare a meno di spaventarsi, da buona contadina piena di senso pratico.

- Ma dove andrai a prendere quei soldi? Abbiamo solo dei debiti! Don Bosco sorrideva: - Mamma, se voi aveste trentamila lire me le dareste?
- Certamente!

- E allora, potete forse pensare che il Signore sia meno generoso di voi?

La casa fu pagata a Pinardi ancor prima del termine fissato. Una sera Don Cafasso portò diecimila lire che gli erano state offerte da una ricca signora. Il giorno dopo un Padre Rosminiano veniva a Valdocco per consultare Don Bosco sull'impiego migliore di ventimila lire che gli erano state affidate per opere di carità. Inutile dire quale impiego consigliasse il Santo! Un banchiere amico portò tremila lire che servirono giusto per le spese notarili e le tasse sul contratto. Il 19 febbraio del 1851 casa Pinardi era di proprietà dell'Oratorio.

Presto quella casa, simile ad altre sparse in mezzo ai campi appena fuori della cinta daziaria di Torino, si riempì dei trenta artigianelli che poteva contenere. Trenta ragazzi da ricoverare, nutrire, vestire, sistemare presso qualche cantiere od officina. Senza troppe difficoltà Don Bosco trovò loro un lavoro e ogni mattina, dopo la Messa, con una pagnotta in tasca o sbocconcellandola per strada, tutti partivano per recarsi in città. A mezzogiorno tornavano con un appetito feroce; per sfamarli Don Bosco dava loro una minestra molto sostanziosa o una polenta, preparate spesso dalle sue mani; con un pentolone fu

mante in mano e un grembiule sui fianchi girava trai ragazzi seduti per terra o su un gradino, per servire ancora chi lo volesse. Ogni ragazzo riceveva poi cinque soldi per comprarsi una pietanza, e a quei tempi cinque soldi non erano pochi. Finito il pasto, ciascuno lavava piatti e posate sotto la fontana, quella fontanella che è oggi tutto quanto resta della vecchia casa. Ancor ora alla sua acqua si dissetano i ragazzi accaldati per i giochi negli immensi cortili della Cittadella Salesiana di Torino.

Ciascuno dei convittori, poi, conservava in tasca la posata lavata per la cena.

“Si mancava di tutto ma eravamo così felici!” scriverà di quegli anni eroici del Collegio uno dei giovani ospiti, divenuto avvocato. E davvero, in quella vecchia casa ex-Pinardi, si formò un'autentica famiglia, nella piena compenetrazione dei cuori. Don Bosco avrà sempre davanti quell'ideale di semplicità, di abbandono fiducioso alla Provvidenza, di gioia, di cordialità. Tutto il suo sforzo di educatore tenderà ad assimilare i futuri collegi salesiani a quel tipo di casa- famiglia, che aveva realizzato con i primi figli, tra il 1851 e il 1855, nel vecchio edificio di Valdocco.

Ritornati i ragazzi al lavoro, mamma Margherita ripuliva la cucina, assistita dal figlio, e si sedeva poi accanto alla finestra per rattoppare, cucire, rammendare sino a notte: anche in questi lavori Don Bosco era in grado di aiutarla, avendo imparato a Castelnuovo il mestiere del sarto.

Mamma Margherita a trent'anni non aveva da occuparsi che di tre figli; a sessantacinque il figlio gliene affidava dozzine da nutrire e da vestire come poteva. La santa donna non se ne lamentava: le dispiaceva soltanto di non arrivare a tutto. Una volta però, una volta sola, la si vide scattare. Qualche marachella più grossa del solito doveva avere fatto traboccare il vaso e la si vide irrompere tutta eccitata nella stanza dove Don Bosco stava scrivendo.

“Io non ne posso più! - gridò. - To vedi quanto io lavori, ma la mia fatica è ripagata ben male! Questi ragazzi si fanno insopportabili! Oggi trovo calpestata per terra la biancheria messa ad asciugare, ieri correvano in mezzo a quel povero orto! Alcuni ritornano alla sera con gli abiti a pezzi, altri senza cravatta o senza fazzoletto, chi mi nasconde le camicie e chi viene a prendersi le pentole per giocare, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Mi ci vogliono delle ore per ritrovare tutto. Sono stufa! Ero ben più tranquilla ai Becchi! Quasi quasi”.

Don Bosco aveva lasciato che la mamma si sfogasse. Quand'ebbe finito di parlare, per tutta risposta alzò una mano ad indicare il Crocifisso appeso al muro.

Quella grande cristiana capì. Gli occhi le si riempirono di lacrime. “Hai ragione, Giovanni - mormorò. - Hai ragione”. E andò di là a rimettersi il grembiule.

Don Bosco procedeva lento ma instancabile per realizzare il progetto che aveva in mente: alloggiati i ragazzi, subito pensò che era tempo di costruire una chiesa. Le funzioni dell'Oratorio si tenevano da quattro anni in una cappella stretta e per giunta umidissima, al di sotto com'era del livello del suolo. Il 21 luglio 1851 fu così benedetta la prima pietra di una nuova chiesa dedicata a San Francesco di Sales. I lavori precedettero spediti grazie alle offerte di molti amici, ad alcune elargizioni della Casa Reale e al ricavato di una lotteria, la prima delle innumerevoli che Don Bosco organizzerà ogniqualvolta avrà bisogno di denaro.

Nel giugno del 1852, cioè meno di un anno dopo l'inizio dei lavori, San Francesco di Sales, era aperta al culto. L'Arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, colui che aveva ordinato prete Giovanni Bosco e ne aveva favorito l'opera, avrebbe dovuto presiedere la consacrazione. Ma dall'agosto del 1850, l'Arcivescovo era in esilio a Lione, cacciato dal Piemonte in seguito a contrasti con l'autorità civile.

In quegli anni travagliati, a tutte le altre difficoltà si aggiungevano quelle politiche, per il sacerdote che volesse porsi al servizio del prossimo. L'anticlericalismo dei governanti raggiungeva talvolta punte di grande virulenza. Il Parlamento Subalpino in pochi anni aveva laicizzato il Regno di Sardegna che sino allo Statuto era pur stato la roccaforte del cattolicesimo.

Soppressione dei tribunali ecclesiastici; chiusura dei conventi di religiosi; controllo statale sulle scuole tenute da sacerdoti.

Una lunga serie di leggi che modificavano i rapporti che i secoli avevano instaurato tra Stato e Chiesa. Agli occhi di molti cattolici quelle leggi apparivano atti di una congiura settaria, accompagnate com'erano da una pesante campagna di stampa che tendeva a creare tra il popolo sentimenti di diffidenza nei riguardi della Chiesa.

In tali circostanze, il compito del sacerdote impegnato tra gli uomini diveniva ancor più difficile. Qualcuno, tra il clero, preferiva astenersi da ogni iniziativa per paura di vessazioni.

Così non fece Don Bosco. La sua nuova chiesa era appena aperta al culto, ed egli già pensava a costruire l'edificio destinato a sostituire quella povera Casa Pinardi diventata troppo stretta e scomoda.

Venivano a giocare negli Oratori anche orfani che vivacchiavano sulla carità di qualche lontano parente o ragazzi che era urgente sottrarre ai pericoli della famiglia stessa. Indicibile la pena di Don Bosco la domenica sera, vedendo questi giovani lasciarlo per ritornare ai loro ambienti malsani. Bisognava affrettarsi, raddoppiare, triplicare i locali, allargare la casa quanto fosse necessario.

Nel luglio del 1852 si cominciarono i lavori: a destra della Casa Pinardi fu costruita una casa a due piani che fu coperta alla fine di novembre. Quella fretta, unita alla qualità scadente dei materiali, può spiegare il crollo che nella notte dal 2 al 3 di novembre distrusse tutto l'edificio, dopo otto giorni di pioggia ininterrotta. La rovina fu improvvisa e il terribile boato gettò nel terrore il dormitorio nel quale Don Bosco dormiva con i suoi 30 ragazzi. Fu necessario aspettare la primavera del 1853 per riprendere i lavori.

Finito nel mese di ottobre, il nuovo fabbricato potè accogliere subito 65 alunni. Si pensò allora di prolungarlo abbattendo la casa Pinardi, al posto della quale sarebbe sorto un lungo edificio che avrebbe raddoppiato la capienza della casa.

Anche questo nuovo fabbricato sfiorò il disastro: una trave sfuggita ad un muratore piombò sul pavimento dell'ultimo piano, provocando il crollo di quello e di tutto ciò che vi era sotto, sino al suolo. Dell'edificio quasi terminato non rimasero in piedi che le mura perimetrali.

Sembrava davvero che forze oscure congiurassero contro l'impresa di Don Bosco! I lavori furono però subito ripresi e nell'inverno 150 giovani abbandonati avevano trovato a

Valdocco una famiglia e una casa.

I suoi ragazzi, Don Bosco li divise in due gruppi: gli apprendisti che ogni mattina andavano a lavorare in città, visitati sovente da Don Bosco nel cantiere o nell'officina, e gli studenti.

Con la sua ormai notevole esperienza, il Santo sapeva presto riconoscere chi fosse più portato allo studio che al lavoro; per questi organizzò corsi d'istruzione secondaria. Mancavano però i professori. Anche gli studenti, così, dovettero andare in città, da insegnanti amici che avevano accettato di accoglierli tra i loro allievi.

I primi superiori della Società Salesiana verranno quasi tutti da questa generazione di ragazzetti che, cartella sotto braccio e pagnot

tella in tasca, raggiungevamo ogni mattina la scuola per tradurre Sallustio o scandire Orazio.

Questa vita di semiconvitto durò circa sei anni; poi, a poco a poco, i giovani operai e gli studenti poterono rimanere a Valdocco senza più bisogno di uscirne.

Era avvenuto che, per sottrarre ai pericoli della città i suoi giovani, Don Bosco si era risolto ad allestire laboratorio e scuola in casa.

Ragioni di economia interna - calzare, cioè, e vestire i ragazzi - gli fecero aprire nel 1853 un laboratorio di calzoleria e sartoria in alcune stanze della casa. Due anni dopo, allestiva negli edifici nuovi una falegnameria, una legatoria e una fucina per i fabbri.

Qualche tempo dopo, una preoccupazione di apostolato lo spinse a creare al pianterreno una modesta tipografia.

In seguito si aggiunsero altri laboratori, ma sin dal 1856 tutti i piccoli apprendisti dell'internato avevano la loro sistemazione a Valdocco.

Nell'ottobre dello stesso anno, anche gli studenti non furono più costretti a uscire per andare a lezione in città. I primi alunni delle classi superiori erano a loro volta divenuti maestri ed avevano avviato ad una ad una le classi ginnasiali.

Era ormai creato il modello di casa salesiana: quando l'opera si diffonderà per l'Italia e per il mondo, non farà che ricalcare il prototipo formatosi lentamente, sotto la spinta degli eventi, dal 1846 al 1856, ad opera di un uomo privo di mezzi ma fornito del genio dell'organizzazione e dell'educazione.

Attraverso una successione di miglioramenti quasi impercettibili, da un piccolo embrione si sviluppò un organismo complesso e vitale.

“Mi sono sempre lasciato guidare dagli eventi”. Così, invariabilmente, rispondeva Don Bosco a coloro che stupivano dinanzi alle sue opere grandiose. E certo, da grande realista qual era, da uomo attento ai segni del tempo, seppe profittare in modo mirabile degli avvenimenti, dei mezzi a disposizione, delle circostanze favorevoli. Ma spesso, da formidabile uomo d'azione, seppe anche comandare alla vita, piegando ai suoi progetti uomini e cose.

Sembrava che mamma Margherita attendesse solo il consolidamento dell'opera del figlio per lasciare il mondo. Ormai, doveva pensare, si poteva anche fare a meno di lei. La casa era finita, una schiera di amici guardava con simpatia all'Oratorio, un gruppo di signore, trascinate dal suo esempio, le erano venute in aiuto per assistere i giovani. Un solo cruccio ancora: l'incertezza economica, la povertà

che accompagnava l'opera del figlio. Ma la Provvidenza, come sempre, avrebbe provveduto.

Così pensava la buona mamma, quando alla fine dj novembre del 1856 la colse una violenta polmonite. La sua fibra robusta lottò una settimana contro il male, ma il 25 novembre, alle tre del mattino, Margherita Occhiena spirava. Aveva sessantotto anni. L'Oratorio aveva perso la più amorosa delle madri.

“Dio solo sa” furono le sue ultime parole al figlio “Dio solo sa quanto ti ho amato nel

corso della mia vita. Spero di poterti amare ancor di più nell'eternità. Ho la coscienza tranquilla, sai. Ho fatto il mio dovere in tutto quello che ho potuto. Forse sembra che io abbia usato rigore in qualche cosa, ma non è così. Era la voce del dovere che comandava e imponeva. Di' ai nostri cari figlioli che ho lavorato volentieri per loro e che li ho amati tanto, proprio come una mamma. Ti raccomando anche che preghino molto per me e che facciano almeno una volta la santa Comunione in suffragio dell'anima mia”.

Erano passate poche ore dalla morte della madre, quando Don Bosco entrava alla Consolata, la chiesa nella quale ella aveva soprattutto amato pregare. Celebrò la Messa per il riposo dell'anima di lei.

“E ora” mormorò alla Madonna prima di lasciare il santuario «ora occupate voi questo posto vuoto! Di una mamma, i miei figli ed io non possiamo fare a meno. Tutti i miei ragazzi, io ve li affido: proteggeteli voi ora e sempre!”.

CAPITOLO V.

Carità e apostolato.

La cura della sua già notevole Opera - oratorio di 500 ragazzi, convitto di 150 - non esauriva l'attività di Don Bosco, instancabile anche in altre direzioni; e quanto più quell'attività era intensa tanto più era calma e sorridente.

Tutti coloro che hanno avvicinato il Santo ne sono rimasti colpiti: Don Bosco compiva una quantità straordinaria di lavoro come se vi trovasse piacere, senza alcuna precipitazione, sempre allegro e sorridente. Questa attitudine di spirito non era in lui innata: basterebbe pensare, per convincersene, alla sua adolescenza impetuosa. La calma imperturbabile, la padronanza perfetta di sé derivavano anche dall'orma che nella sua anima aveva impresso la dolcezza di Luigi Comollo e dagli sforzi quotidiani che egli compiva per giungere ad imitarla. Come per l'altro suo modello, San Francesco di Sales, anche per Don Bosco la mitezza e il sorriso costanti erano una conquista. Conquista faticosa ma benefica. Grazie ad essa egli poteva disporre di tutte le sue forze e di tutti i suoi minuti.

La fretta confonde le idee e fa perdere tempo; con la calma, si va molto più lontano!

Don Bosco era così in grado di accettare o addirittura di cercare, accanto a quello che gli derivava dalla sua opera, un sovrappiù di lavoro per il quale altri con minore dominio di se stessi non avrebbero trovato il tèmpo.

Così, nel 1849, Don Bosco fu iniziatore a Torino di una nuova e moderna forma di apostolato. Nel Natale di quell'anno, infatti, egli pensò di riunire nel' centro della città, nella chiesa della Confraternita della Misericordia, quanti più giovani operai potesse per prepararli ad un inizio cristiano dell'anno nuovo.

Per raggiungere lo scopo cominciò col fare stampare 1500 manifesti (una novità davvero rivoluzionaria per il costume della Chiesa del tempo!) che affisse alle porte di tutte le parrocchie, che spedì ai padroni di officine e cantieri, che fece attaccare agli angoli più frequentati. L'appello del manifesto si rivolgeva ai genitori dei ragazzi, ai loro padroni e capimastri e a tutti quelli che in qualunque modo avrebbero potuto trattenere i ragazzi, pregandoli di lasciare liberi i giovani nelle ore fissate per la catechesi. Prevedendo che molti datori di lavoro non avrebbero raccolto l'invito, Don Bosco girò per giorni e giorni dall'uno all'altro per convincerli dell'utilità di quegli incontri.

L'orario del ritiro era stato congegnato con abilità. Di primo mattino, messa e istruzione religiosa; a mezzogiorno, rosario e conferenza dialogata; alle diciannove, istruzione e benedizione eucaristica. Il ritiro doveva durare otto giorni e chiudersi con una Comunione generale.

Nonostante l'ora mattutina e glaciale in cui li si convocava, i giovani accorsero a centinaia. A mezzogiorno specialmente, alla conferenza dialogata, la chiesa era troppo stretta

per contenere quei ragazzi desiderosi di vedere alle prese, in vivace dialetto piemontese, due predicatori famosi.

I risultati dell'originale iniziativa superarono lo stesso ottimismo di Don Bosco: negli ultimi giorni del ritiro i giovani si affollavano attorno ai confessionali sino a sera inoltrata. Il 29 dicembre, giorno della chiusura, la Comunione generale fu imponente per la quantità dei partecipanti.

Come ricordo di quei giorni, Don Bosco distribuì gratuitamente a tutti un foglietto che in diciotto paragrafi esponeva gli Avvisi d'un amico della gioventù.

Quella prima esperienza era stata trionfale e da tutte le parti si chiese di ripeterla. Così per molti anni la chiesa della Misericordia ospitò verso Natale la folla sempre numerosa dei giovani lavoratori di Torino. Più tardi, anzi, gli operai stessi provvidero ad organizzare il ritiro affidandolo ad una loro Società di Mutuo Soccorso.

Don Bosco, da grande educatore, sapeva che la migliore difesa dei suoi giovani dalle insidie dell'età e dell'ambiente era l'impegno nella carità spinta sino al sacrificio.

Cercava dunque tutte le occasioni per lanciare coraggiosamente i suoi ragazzi sulla via della testimonianza cristiana: così avvenne in

modo grandioso quando, nel 1854, il Piemonte fu colpito da un'epidemia di colèra.

Alla fine del luglio di un'estate caldissima, il flagello che saliva dal sud dell'Italia investì Torino con una virulenza inaudita. In tre mesi erano morte quasi duemila persone sulle tremila contagiate.

Il sobborgo di Valdocco, regno della miseria, fu colpito più duramente di ogni altro: nel solo ottobre vi si ebbero 400 morti. L'Oratorio era circondato da case piene di colerosi, spesso abbandonati dai loro parenti terrorizzati dal pericolo di contagio.

Per circoscrivere il flagello il Consiglio Comunale di Torino aprì due lazzaretti in cui dovevano essere concentrati gli ammalati. Ma non si trovava nessuno che volesse girare per le case ad individuare i colpiti e trasportarli al più presto negli ospedali. Un coleroso creava subito il vuoto attorno a sé e gli stessi parenti e amici, presi dallo spavento, dimenticavano ogni affetto.

Don Bosco, che sin dai primi giorni si era prodigato al capezzale degli ammalati, davanti all'imponenza del flagello capì subito che solo una schiera di giovani pronti a qualunque sacrificio avrebbe potuto portare un aiuto efficace. Rivolse così un appello ai suoi ragazzi e subito più di quaranta si presentarono volontari: con essi fu organizzato metodicamente il soccorso. Una parte dei giovani prestava servizio nei lazzaretti, un'altra nelle famiglie; un gruppo fu incaricato di visitare le case popolari per scoprirvi gli ammalati abbandonati, mentre altri stavano di guardia all'Oratorio pronti a rispondere a qualunque chiamata. Di giorno e di notte i torinesi correvano a Valdocco ad invocare l'aiuto dei figli di Don Bosco. Per tre mesi i ragazzi dell'Oratorio fecero meraviglie di eroismo, di abnegazione, di autentica carità cristiana. Secondo la promessa fatta loro da Don Bosco dell'aiuto di Maria, nessuno dei giovani fu infettato dal colèra, nonostante che la necessità molte volte impedisse di osservare le norme più elementari di igiene.

Molti ammalati, soccorsi nelle loro stamberghe dai volontari di Don Bosco, si trovavano nella miseria più completa. Per essi mamma Margherita vuotò tutti gli armadi di casa: lenzuola, coperte, camicie, la riserva di biancheria, tutto fu dato agli ammalati. Gli allievi del Convitto si privarono spontaneamente del loro già poverissimo corredo, riducendosi con le sole cose che indossavano.

Un giorno un piccolo infermiere corre ad avvertire che un coleroso è steso sulla paglia senza neppure un lenzuolo. Mamma Margherita ha già dato tutto quello che ha e invano fruga i suoi cassetti quando

l'occhio le cade sulla bianca tovaglia della tavola: subito la consegna al ragazzo che corre via, felice del dono per il suo assistito.

Arrivano altri piccoli infermieri, anch'essi implorando biancheria per i contagiati.

Che fare? Un altro colpo di genio: mamma Margherita corre in chiesa, prende le tovaglie delimitare, gli amitti, i camici, tutto ciò che trova e consegna anche quello.

Gesù vive nell'Eucarestia, ma anche nei colerosi è presente e soffre.

Quei ragazzi non erano nati eroi: qualcuno di loro, alle prime spedizioni, svenne accanto agli orribili giacigli dei malati più poveri, ma Don Bosco era sempre là per risospingerli avanti con la parola e soprattutto con l'esempio.

Quei tre mesi di fatiche e di pericoli ottennero agli Oratori la stima e il rispetto di tutti: neppure gli avversari si sottrassero all'omaggio per una tale testimonianza di servizio fraterno.

L'8 dicembre di quello stesso 1854 Pio IX proclamava solennemente nella Basilica Vaticana il dogma dell'Immacolata Concezione di Maria. Quel giorno, già tanto caro a Don Bosco per il ricordo dell'incontro con Bartolomeo Garelli, fu anche quello in cui a Valdocco si svolse la solenne funzione di ringraziamento.

Nonostante i molteplici impegni, Don Bosco non aveva mai smesso l'apostolato nelle carceri. Talvolta, all'approssimarsi della Pasqua, portava la sua carità anche tra i giovani detenuti de La Generala, il grande carcere torinese dei minorenni. Nel 1855 la sua predicazione fu tanto feconda che quasi tutti i 300 ospiti si accostarono ai Sacramenti. Commosso, Don Bosco pensò di dare a quei poveri ragazzi una giornata di svago, conducendoli tutti in scampagnata a Stupinigi, a dieci chilometri da Torino dove, in uno splendido parco, sorge la celebre Palazzina di caccia dei Savoia.

L'idea di una simile gita poteva venire in mente soltanto a Don Bosco! Difatti, quando si recò a parlarne al Direttore generale degli Istituti di' Pena della Capitale, il progetto fece sussultare il funzionario.

- Padre - balbettò, forse anch'egli credendo pazzo quel prete fantasioso - Padre, si rende conto?

- Perfettamente, signor Direttore, e con tutta serietà la pregherei di prendere in considerazione la mia richiesta.

- Senta, caro reverendo - replicò il Direttore con un sorriso che sapeva di compatimento - per quanto desideri di farle piacere

non posso venire meno ai regolamenti con un'autorizzazione inaudita le cui conseguenze, mi creda, sarebbero disastrose.

- Allora, se permette, mi rivolgerò direttamente al Ministro dell'Interno!

- Faccia pure, Don Bosco. E auguri!
Urbano Rattazzi, Ministro dell'Interno del Regno di Sardegna, era un anticlericale

famoso, ma conosceva Don Bosco che aveva avuto anzi occasione di illustrargli le linee del suo metodo preventivo per l'educazione dei giovani. Rattazzi volle concedersi una fantasia e autorizzò l'inedita scampagnata.

- Naturalmente, Don Bosco, lei mi avviserà per tempo e un buon numero di carabinieri in borghese l'accompagnerà per stroncare gli inevitabili disordini e i tentativi di fuga.

- Forse, Eccellenza, non mi sono spiegato bene. Ciò che le chiedo è una giornata di completa libertà per quei ragazzi. Non voglio nessuno per aiutarmi e tanto meno i suoi ottimi poliziotti travestiti. Sarò solo con i ragazzi e ogni cosa sarà a mio rischio e pericolo. Mi impegno a riportarle alla Generala tutti i ragazzi. Qualunque cosa accada, Vostra Eccellenza considererà me responsabile e metterà me in prigione.

- Lei non ne riporterà indietro dieci, Don Bosco!

- Si fidi di me, signor Ministro.
Lasciato il Ministero, Don Bosco corse a portare la buona notizia ai suoi giovani amici.
- Ragazzi miei - disse loro - domani tutta Torino avrà gli occhi su di noi. Se qualcuno

dovesse comportarsi male, ma non lo credo nemmeno possibile, ci rimetterei io. Ma di più, ricordatelo, ci scapitereste voi dinanzi al Signore, dopo le promesse che gli avete fatto durante gli Esercizi.

Così, una fresca domenica di primavera, i due pesanti battenti della Generala si schiusero per lasciare passare 300 giovani che si affollavano affettuosamente attorno a un

prete. Sulla soglia della prigione, i vecchi guardiani scuotevano il capo con aria beffarda:
- Questa sera - borbottavano - saranno un po' meno numerosi.
La giornata era di splendido sole. Avevano portato con loro il pranzo e lo avevano

caricato su un asino che apriva la strada. Giunsero a Stupinigi per il grande viale ombroso e le porte del Parco Reale si aprirono davanti a quei visitatori d'eccezione. Sui prati erbosi si organizzarono allegre partite e, senza che nessuno se ne accorgesse, giunse l'ora in cui fu necessario riprendere la via di casa. Dopo tanto cammino

e tanti giochi Don Bosco era stanco: i ragazzi se ne accorsero e vollero, quasi a forza, che salisse in groppa all'asino ormai libero delle provviste, facendo fino a Torino un rumoroso e affettuoso corteo d'onore al capo della scampagnata.

Così, sul calar della notte i detenuti della Generala tornarono tranquilli alla loro prigione sotto gli sguardi attoniti dei carcerieri che non riuscivano a spiegarsi il miracolo. Neppure uno mancava all'appello.

Il Ministro Rattazzi, intanto, aspettava preoccupato e impaziente l'esito del rischioso esperimento. Fu Don Bosco in persona a comunicarglielo.

- Ne sono lietissimo! - disse il Ministro senza nascondere la sua ammirazione. - E ora mi permetta una domanda, reverendo: come mai lo Stato non ha su questi giovani lo stesso ascendente?

- Lo Stato, Eccellenza - rispose Don Bosco - non può fare altro che comandare e punire; noi preti, invece, parliamo al cuore e la nostra è la parola di Dio.

In quegli anni Don Bosco non svolgeva solo in città questo suo apostolato collaterale agli impegni dell'Oratorio. Da tutto il Piemonte si chiedeva la sua parola di predicatore preparato e persuasivo.

Novene, tridui, predicazione delle Quaranta ore, panegirici, giubilei, missioni al popolo: nella sua ansia di apostolato accettava ogni invito rivoltogli dai Confratelli.

Girando per le province, Don Bosco pensava non solo ai frutti della sua predicazione, ma anche alle amicizie (così utili all'opera nascente) che si sarebbe create. Nutriva poi sempre la speranza di suscitare tra i giovani delle campagne qualche vocazione che l'aiutasse un giorno nella sua missione. E infatti, da queste corse apostoliche, Don Bosco riportò con sé a Valdocco molti ragazzi dei quali alcuni lasciarono una testimonianza altissima di vita cristiana.

Questo apostolato tra le genti rurali, praticato da Don Bosco per più di vent'anni, era certo tra le attività più faticose: il Piemonte non aveva a quei tempi che due o tre linee ferroviarie e per raggiungere la maggior parte delle località si impiegava la lenta diligenza, glaciale d'inverno e soffocante d'estate. Il povero predicatore arrivava sfinito alla mèta ma invariabilmente, salito sul pulpito, ritrovava vivacità e slancio. Don Bosco amava la predicazione (alla sua prima Messa aveva chiesto a Dio il dono della parola) e ad essa si era preparato sin dai tempi del Seminario, riempiendo taccuini su taccuini di appunti per varie possibilità di catechesi.

Nessuna traccia di eloquenza retorica in lui: un parlare familiare e popolare senza nulla di solenne, di compassato o di dottorale. Quasi il bonario e piacevole conversare di un padre. Il suo gesto era sobrio, la parola misurata; la voce forte, tenorile, tale da pronunciare con chiarezza le sillabe. Il tono generale lo si sarebbe detto un misto indefinibile di serenità, di gravità e di convinzione; una convinzione, la sua, che finiva col penetrare i cuori degli ascoltatori. La sua predicazione si rifaceva spesso alla Scrittura, che Don Bosco conosceva molto bene, ma la verità biblica era presentata con esempi, parabole, aneddoti che la rendevano attuale e viva alle orecchie degli ascoltatori. Don Bosco, infatti, teneva presente la necessità di farsi capire da un uditorio quasi sempre composto da gente semplice. Un giorno rifiutò di tenere l'orazione ufficiale in una solenne cerimonia pubblica affermando: “Mettetemi in mezzo a un esercito di ragazzi o a una schiera di contadini e di discorsi ne farò quanti

volete. Ma davanti a un pubblico colto non me la sento di parlare!”.
Si avverte l'umiltà in queste sue parole, ma è certo che la sua vocazione principale fu di

predicatore popolare.
È rimasto celebre l'episodio di cui fu protagonista a Montemagno d'Asti in occasione

della predicazione del triduo per la Festa dell'Assunta.
Tutta la regione soffriva da più mesi di una siccità spietata e la maggior parte del

raccolto - uva, granturco, patate, legumi - era in gravissimo pericolo; l'ansia dei contadini era indicibile. Così, fin dalla prima predica, spinto da una forza segreta che lo soverchiava, il Santo non esitò a promettere la pioggia sui campi se gli abitanti di Montemagno avessero invocato la Madonna in stato di grazia. «Venite questi tre giorni ad assistere alle funzioni parrocchiali” disse loro in sostanza «confessatevi bene, preparatevi meglio che potete ad una fervente comunione il giorno della festa e io vi prometto, in nome della Madonna, che la pioggia verrà ad irrigare la vostra terra spaccata dalla siccità!”.

- Don Bosco, lei ha davvero un bel coraggio! - gli disse in sacrestia il curato del luogo. - Coraggio? E perché?
- Mi domanda perché, dopo aver promesso la pioggia per lunedì?
- Io ho promesso questo?

- Ma come, Don Bosco, mi prende per un allucinato? Domandi qui al sacrestano che le ripeterà parola per parola le sue frasi. Sono state capite bene, gliel'assicuro io!

Difatti, mai la chiesa di Montemagno vide un'affluenza di fedeli come in quei giorni.

La gente si accalcava alle tre istruzioni quotidiane: ogni sera i confessionali erano presi d'assalto e Don Rua e Don Cagherò, che avevano accompagnato il Santo, ricordavano ancora, molti anni dopo, le fatiche che avevano dovuto sostenere nel villaggio astigiano.

Intanto, in tutta la regione si parlava della promessa “sfuggita” al predicatore di Montemagno.

- Don Bosco, pioverà? - gli chiedeva la gente incontrandolo per strada.

- Purificate i vostri cuori! - rispondeva lui senza scomporsi. Sorse finalmente il sole dell'Assunta. Non era mai stato tanto

ardente e il povero Don Bosco cominciò seriamente a domandarsi come sarebbe andata a finire. A mezzogiorno il cielo era più sereno che mai. Finito il pranzo, il predicatore si ritirò nella sua stanza per ordinare le idee per l'omelia del Vespro; di tanto in tanto gettava uno sguardo all'orizzonte: limpido come uno specchio. Finalmente suonò la campana per la funzione: “Che cosa dirò a questa gente” si domandava ansioso “se la Madonna non farà la grazia?”.

- Mio povero Don Bosco - gli disse il curato vedendolo in sacrestia - questa volta il fiasco è completo. Non so come se la caverà.

- Giovanni, - disse allora il Santo al sacrestano - Giovanni, sali per favore sul campanile e guarda se non si vede nulla spuntare all'orizzonte.

- Nulla, reverendo, - riferì l'uomo due minuti dopo. - Assolutamente nulla! Conservando la calma abituale, il Santo terminò di indossare i paramenti mentre dal fondo del cuore gli saliva l'implorazione della Madonna: «Vergine Santa, muovetevi a soccorso della miseria di questa gente! Ottenete che la promessa che uscì dalle mie labbra

possa avere la realizzazione desiderata!”.
Mentre in chiesa terminano gli ultimi versetti del Magnificat, Don Bosco si avvia verso il

pulpito. Il tempio, dedicato proprio all'Assunta, è gremito e i fedeli occupano anche i gradini davanti all'altar maggiore.

Con tutta l'anima il predicatore recita un'Ave Maria assieme al popolo, poi si alza e comincia l'esordio della meditazione. A questo punto, attraverso le vetrate, si vede il cielo oscurarsi; il Santo continua a parlare ma non ha ancora pronunciato dieci frasi che scoppia un

tuono formidabile che fa tremare le volte, seguito subito dopo da un secondo, da un terzo!

Un mormorio di gioia corre per le navate; i lampi, ormai, si succedono senza interruzione e la pioggia scroscia forte, martellando le vetrate del tempio.

Si può facilmente immaginare come Don Bosco sviluppasse bene il tema della predica: «La fiducia che ogni cristiano deve avere nella bontà di Maria». Al termine della Benedizione

eucaristica, la pioggia cadeva ancora e i contadini, per uscire dovettero aspettare a lungo sotto il colonnato che il tempo si rischiarasse.

Vi è, nella Valle di Lanzo, un luogo caro alla pietà piemontese e caro particolarmente a Don Bosco che tutti gli anni vi trascorreva un periodo di prezioso apostolato.

Tra quelle montagne, a 900 metri di altezza, sorge ancora il santuario di Sant'Ignazio di Loyola, costruito dalle popolazioni del luogo che l'affidarono ai Gesuiti che ne furono custodi sino al 1773, allorché la Compagnia di Gesù fu temporaneamente soppressa.

Con la partenza dei religiosi, il santuario e la montagna ricoperta di querce su cui sorge passarono all'Arcivescovo di Torino, ma a poco a poco, anche per la mancanza di cappellani fissi, i pellegrinaggi finirono per cessare.

Fu Don Luigi Guala a ridare vita a quel focolaio di fede. Egli comprese subito che il luogo solitario, assai fresco d'estate, era indicato per raccogliervi sacerdoti e laici per gli esercizi spirituali.

Ottenuta senza difficoltà la chiesa dall'Arcivescovo, Don Guala spese ottantamila lire di sua tasca per restaurare il santuario, per costruire comode camerette, per sistemare il chiostro e soprattutto per aprire una strada che da Lanzo portasse gli ospiti sino alla vetta del monte.

Nominato Rettore, dal 1810 Don Guala tenne a Sant'Ignazio corsi di esercizi, in genere quattro all'anno, due per i sacerdoti e due per i laici. A questi ultimi, intervenivano nobili e ricchi borghesi di Torino, ma anche persone di modesta condizione per le quali pagavano le spese di soggiorno alcuni istituti benefici della città.

Alla morte di Don Guala, Don Cafasso ne continuò l'opera e le diede anzi uno sviluppo notevole: finché visse, il Santo salì tutti gli anni al Santuario a predicarvi due ritiri per i preti della diocesi, aiutando spesso anche per gli esercizi dei laici.

Per questo ufficio, Don Cafasso chiedeva la collaborazione del suo allievo e compaesano Don Bosco che a luglio saliva docile a Sant'Ignazio dove il suo confessionale era tra i più frequentati. E non sempre vi saliva solo: quando sapeva che qualche laico all'improvviso aveva deciso di rinunciare al soggiorno, portava con sé dei giovani che prendessero gratuitamente i posti lasciati liberi.

Nella vita di Don Bosco, il santuario di Sant'Ignazio ebbe una grande importanza. Oeni

anno il grande educatore vi ritemprava le forze fisiche e morali; ogni anno trovava in quella solitudine il tempo della riflessione che precede le grandi decisioni; lassù, accostando tante anime che a lui si confidavano, maturò ed affinò la sua esperienza del cuore umano; finalmente, in quelle settimane consacrate a Dio, conobbe un gran numero di sacerdoti e di laici che a Torino gli furono di grande aiuto per le sue iniziative.

Infatti, com'è facilmente intuibile, i tre Oratori e la grande casa, che a quel tempo già funzionavano in pieno, richiedevano l'aiuto costante di denaro non solo, ma anche di tempo e di volontà d'impegno.

Quando Don Bosco si sarà creata attorno una famiglia religiosa, questa non basterà mai al bisogno e occorreranno altri aiuti. Allora alcuni volenterosi sacerdoti verranno ad aiutarlo, primo tra questi Don Leonardo Murialdo, proclamato Santo nel 1970 e che, fondando la Pia Società Torinese di San Giuseppe per l'educazione della gioventù povera ed abbandonata, si porrà sulle orme di Don Bosco, aggiungendo un altro anello alla straordinaria catena di “santi sociali” dell'Ottocento torinese.

Assieme a quei preti anche molti laici, tra cui numerosi gli aristocratici, offriranno il loro aiuto: persone, per lo più che, durante le settimane di ritiro a Sant'Ignazio, avevano chiesto all'uomo di Dio a chi o a che cosa dedicare la loro volontà di fare del bene.

Tra i tanti episodi che testimoniano dell'amore di Don Bosco per i giovani, ve ne sono alcuni particolarmente indicativi della sua preoccupazione per i giovani traviati.

Un mattino di primavera, ritornando a Valdocco dalla chiesa della Crocetta, un sobborgo all'altro capo della città, egli attraversava la vasta e deserta zona incolta che si stendeva dietro la stazione centrale di Porta Nuova.

Ad un tratto, gli si pararono davanti quattro robusti giovanotti dalla faccia poco

rassicurante che pareva l'aspettassero. Se li avesse visti prima, Don Bosco sarebbe tornato indietro, ma ora era troppo

tardi. Con passo che cercò di rendere ardito si avvicinò loro. Quelli gli sbarrarono subito la strada e uno di essi, con un sorriso largo e visibilmente falso, lo pregò di fare da arbitro in una controversia sorta tra loro.

- Reverendo carissimo, ci dica se ha ragione il mio compagno od ho ragione,io! Lui dice che la ragione è sua, io dico che è mia: decida lei, signor abate!

Don Bosco intanto si guardava attorno per vedere se apparisse qualcuno ma non si vedeva anima viva. Allora pensò che l'unica cosa da fare, se non riusciva a liberarsene, era di portare verso luoghi meno deserti quei tipacci.

- Via, decida! - insisteva mellifluo il capo della banda senza fare la minima allusione all'oggetto del litigio.

Il tranello era sin troppo scoperto.
- Miei bravi amici - rispose Don Bosco - io non posso risolvere qui, all'aria aperta, in un

postaccio simile, la vostra questione. Andiamo a sederci attorno ad una buona tazza di caffè in piazza San Carlo e là vedremo.

- Ma lo pagherà lei, il caffè!

- Certamente, dal momento che sono io ad invitarvi!
I quattro vagabondi, allettati dall'invito, seguirono Don Bosco e, strada facendo, il prete

chiacchierava con loro come fossero vecchi amici. Giunti in piazza San Carlo, proprio nel cuore della città, prima di mantenere la promessa: - Sentite - disse Don Bosco - fatemi un piacere: ecco la chiesa di San Carlo, andiamo dentro a dire un'Ave Maria e dopo andremo a prendere il caffè.

- Lei cerca una scappatoia, reverendo! - brontolò cupo il capo della banda.

- State a vedere: comincerà con un'Ave Maria e poi biascicherà tutta la corona! - imprecò un altro.

- Quando vi dico una sola Ave Maria è un'Ave Maria sola! Andiamo I
Entrarono e gli straccioni risposero alla meglio alle preghiere del prete.
- E ora - disse Don Bosco uscendo - andiamo al caffè.
Si misero seduti e bevvero chiacchierando come conoscenze di vecchia data.
- Non è ancora finito! - disse Don Bosco pagando il conto. - Ora che abbiamo fatto

amicizia non mi rifiuterete certo di venire a casa mia: mia madre vi offrirà volentieri qualcosa.

- Accettato! - esclamarono in coro i quattro compari. Scesero così verso Valdocco.

Anche durante quel quarto d'ora di strada, Don Bosco cercò di penetrare nell'intimità di quei giovani sventurati, così che, appena giunti a casa, si sentì come ispirato a lanciare loro a bruciapelo una domanda:

- È molto tempo, ragazzi, che non vi siete confessati? Sì, vero? I quattro amici si guardarono in faccia, non sapendo che cosa

rispondere a quelle parole per loro inaudite. Finalmente uno di essi esclamò:
- Ah, Don Bosco! Se tutti i preti fossero come lei, non aspetteremmo un minuto a

confessarci.
- Non c'è bisogno di andare a cercare altri, dal momento che ci sono io! - Sì sì, Don Bosco, ma non siamo preparati.
- Lasciate fare a me; non sarà difficile.

E senza dire altro, lasciando tre di essi in quella camera, entrò col quarto nel suo studiolo. Aiutato dal sacerdote, il giovane si confessò con facilità e, ciò che più importa, con sincerità. Due degli altri seguirono il suo esempio. Solo l'ultimo si schermì dicendo di non sentirsi abbastanza disposto. Tutti e quattro lasciarono Don Bosco dimostrandogli una riconoscenza sincera e promettendogli di ritornare a fargli visita. Il che fecero puntualmente, diventando tra i più assidui dell'Oratorio di Valdocco, sempre seguiti con discrezione dallo sguardo paterno di Don Bosco che, dopo avere rischiato di essere rapinato da loro, ne era

divenuto il «direttore spirituale».
Un'altra volta, era sera, Don Bosco percorreva la via Po che dal fiume risale verso

piazza Castello, il vecchio centro della città. In un angolo buio dei portici fu fermato da un giovane mascherato che con tono minaccioso gli domandò il portafoglio. L'occhio era torvo, il vestito sudicio, l'insieme della persona inquietante: un ozioso che preferiva vivere di espedienti loschi invece che del lavoro delle sue mani. Don Bosco gli rispose con buona maniera, gli disse il dolore che sentiva nel vederlo spinto dal bisogno a commettere azioni che la sua coscienza certamente disapprovava, e, tra una parola e l'altra, riuscì a fargli raccontare la sua vita miserabile. Pochi minuti dopo si sedeva sul muricciolo che chiude il fossato attorno al Palazzo Madama, mentre l'aggressore, buttatosi ai suoi piedi, cominciava la confessione. L'angolo era molto buio ma la scena non sfuggì a un canonico del Duomo che stava attraversando la piazza per ritornare in Cattedrale.

“Quel prete non può essere che Don Bosco!” pensò tra sé. E infatti, avvicinatosi, riconobbe l'inconfondibile sagoma del confratello e divulgò l'episodio che sarebbe rimasto altrimenti tra i segreti del Santo.

Di fatti simili traboccano le memorie di Don Bosco; molti altri ne incontreremo nel nostro racconto. Quelli qui riferiti sembrano tuttavia sufficienti per comprendere lo slancio apostolico di un uomo che, pur impegnato in un'Opera formidabile, trovò sempre il tempo di beneficare tutti coloro che incontrò sul suo cammino.

CAPITOLO VI.

Don Bosco scrittore.

Con i tre Oratori festivi, il fiorente internato a Valdocco per artigiani e studenti, la predicazione nelle province, la parola e l'azione di Don Bosco raggiungevano centinaia di anime, di giovani soprattutto. Ma infinite altre sfuggivano all'instancabile apostolo. Il suo dolore di non potere raggiungere tutti era acuito dalla situazione politica e religiosa del Piemonte, situazione che al suo tempo non era certo favorevole alla conservazione della fede cattolica tra il popolo.

L'ondata di nuove teorie politiche e sociali sconcertava le masse; dilagava l'anticlericalismo e il clero che non scendeva in piazza ad inneggiare agli idoli del momento era non di rado tenuto in sospetto.

Inoltre il decreto di emancipazione dei Valdesi, firmato nel 1848 da Carlo Alberto, complicava la situazione religiosa, aggiungendo alla realtà italiana, piemontese soprattutto, il fatto nuovo di un vivace proselitismo protestante.

Al servizio di queste cause, una stampa aggressiva e largamente fornita di mezzi fomentava ogni giorno nell'opinione pubblica l'ostilità verso la Chiesa.

Don Bosco, attento osservatore della realtà sociale, si accorse subito della gravità del pericolo, soprattutto per la gioventù che con la sua curiosità ed inesperienza rischiava di essere tratta in errore. Pensò allora di far giungere la sua parola scritta là dove non poteva giungere con la voce; e ciò in anni in cui l'importanza della stampa per l'apostolato non era ancora pienamente compresa.

Anche nella sua attività di scrittore a servizio della Chiesa, il futuro Patrono degli editori prese a modello e ispiratore San Francesco di Sales, Patrono degli scrittori e dei giornalisti cattolici, il quale, non potendo riunire attorno a sé tutti coloro dei quali era vescovo, introduceva di notte sotto le porte fogli da lui stampati con l'esposizione della dottrina cattolica.

Giovanni Bosco esordì come scrittore pubblicando una biografia. Stimolato dalle esortazioni degli antichi compagni di seminario, ritrasse infatti nei principali lineamenti la figura di Luigi Comollo.

Egli era stato il confidente dei segreti di lui; le loro vite si erano strette assieme per più di tre anni; appoggiati l'uno all'altro, avevano gareggiato nel fervore del servizio di Dio. Chi dunque era più di lui indicato per tentare quel ritratto? Non appena mise mano alla penna, i ricordi della grande amicizia si levarono in folla e i Cenni biografici del giovane Luigi Comollo formarono un libretto di edificante e attraente lettura. Da quel momento la penna di Don Bosco doveva essere arrestata soltanto dalla morte.

Dopo quella biografia, Don Bosco mise mano a scritti di esposizione e di difesa della dottrina cattolica. In quegli anni, infatti, verso il 1850, i Valdesi moltiplicavano la loro propaganda.

La Chiesa Valdese trae origine dal movimento iniziato da Pietro, detto Valdo dal nome di un imprecisato luogo di origine, ricco mercante di Lione che alla fine del XII secolo si mise a capo di un gruppo di Poveri allo scopo di riformare le abitudini mondane della Chiesa del tempo. Un giorno, avendogli il sacerdote che gli traduceva in volgare il Vangelo ripetuto il consiglio di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va' e vendi tutto ciò che hai”, Pietro distribuì i suoi beni ai poveri e se ne andò per le vie e le piazze a predicare rinuncia e penitenza. Dopo qualche tempo si era già circondato di una comunità di discepoli che seguivano il suo stesso genere di vita. Nessuna gerarchia esisteva in quel gruppo ma il fondatore esercitava sui seguaci un ascendente notevole. Sicuro della ortodossia della sua dottrina, nel 1178 Valdo si presentò a Roma al papa Alessandro III che l'accolse benevolmente, approvò il suo voto di povertà e permise a lui e ai suoi compagni di predicare sotto la sorveglianza del Vescovo di Lione. Questa condizione fu però raramente osservata e nel loro fervore i Poveri di Lione, come si chiamarono, cominciarono presto a diffondere tra il popolo una loro interpretazione del Vangelo, insofferenti dei ripetuti richiami dell'Autorità ecclesiastica, tanto che nel 1184 il Concilio di Verona lanciò contro di loro la scomunica. Sopravvissuti a tutte le persecuzioni, spesso feroci, scatenate contro di loro dall'intolleranza dei tempi, i Valdesi si asserragliarono nella Valle del Pellice sopra Pinerolo, riuscendo a ottenere con una coraggiosa resistenza il diritto di professare liberamente la loro fede, a condizione di rinunciare ad ogni apostolato al di fuori dei loro territori montani. Nel XVI secolo aderirono alla Riforma protestante, accettando molto della liturgia

e del credo calvinisti. Quando finalmente giunse l'editto del 17 febbraio 1848 di quella completa emancipazione auspicata anche da cattolici come Gioberti e Roberto D'Azeglio, si ebbe il primo, grande momento espansivo del protestantesimo italiano, con l'uscita dei Valdesi dal loro ghetto alpino. Il loro apostolato faceva abilmente leva sull'anticlericalismo allora piuttosto diffuso tra le masse popolari. Molti pastori valdesi essendo poi preti cattolici staccatisi dalla loro Chiesa per vari motivi, anche politici, certo proselitismo protestante del tempo era talvolta contraddistinto da una virulenza quasi fanatica.

La stessa stampa liberale laica, in polemica con Roma per le ben note questioni politiche, tendeva a presentare il protestantesimo, e il valdismo soprattutto, come rimedio a tutti i mali d'Italia; il passaggio di grandi masse d'italiani alla nuova fede avrebbe infatti facilitato, secondo quei giornali, la distruzione o almeno l'indebolimento del Papato.

Questo convergere di motivi particolarmente favorevoli spiega perché, negli anni tra il 1848 e il 1870, il proselitismo protestante sia stato tanto attivo e abbia registrato successi a volte clamorosi.

Don Bosco seguiva con grave preoccupazione l'infiltrazione valdese tra il popolo del Piemonte, infiltrazione che si serviva soprattutto del giornale o dell'opuscolo distribuiti gratuitamente o per pochi soldi.

A partire dal 1850, il prete di Valdocco, com'era chiamato, cominciò ad opporre agli opuscoli protestanti una pubblicazione cattolica e due volte al mese la sua penna feconda o quella di amici da lui incitati, lanciava in mezzo al popolo un libriccino chiaro, brioso, attraente, tutto da leggere dalla prima all'ultima pagina.

Polemista accorto ed agile, Don Bosco trattava di tutto: il suo programma giornalistico

era assai vario. Oggi esponeva serenamente la dottrina cattolica, domani accoglieva e rintuzzava l'obiezione avversaria; ora narrava in stile popolare la vita di un santo o di un grande papa, ora componeva un racconto o un dialogo con fini morali.

Quei fascicoli di lotta, che Don Bosco aveva chiamati con il nome significativo di Letture Cattoliche, ebbero un successo vastissimo e duraturo. Il prezzo modesto fece crescere costantemente il numero degli abbonati che presto arrivarono a 9000 e poi a 14000, cifra quasi incredibile per quei tempi.

L'ottimo risultato della iniziativa non scoraggiò i Valdesi che alla fine del 1853 pubblicarono un almanacco, L'amico di casa, distribuito gratuitamente porta, per porta o ai cancelli delle officine. Il popolo, fiducioso e poco istruito, lo leggeva volentieri e con tanta maggior sicurezza in quanto vi vedeva invocato il nome di Dio e di Cristo e vi leggeva il racconto di conversioni e di altri fatti edificanti presentati in modo da far conoscere la dottrina protestante. Per parare anche questo colpo, Don Bosco riprese in mano la penna e, fin dal mese di agosto dell'anno dopo, lo si vide aggiungere all'assistenza ai ragazzi in vacanza la correzione delle bozze di un almanacco che egli stesso aveva composto. Buon propagandista, pensò di dare alla sua opera un titolo ad effetto e la chiamò Il Galantuomo. C'era di tutto in quelle pagine: calendario, notizie di astronomia, elenco delle fiere, ricette di cucina, tabella delle monete, barzellette e, al debito posto, riflessioni morali e religiose e aneddoti edificanti. Se ne tirarono coraggiosamente parecchie migliaia di copie e per precedere i protestanti fu pubblicato in ottobre. Era nato così il primo almanacco cattolico d'Europa, che per moltissimi anni continuò la sua modesta ma preziosa opera di diffusione della dottrina della Chiesa.

Educatore appassionato, Don Bosco sentiva la sua penna naturalmente attirata dai manuali d'istruzione popolare. Cominciò il lavoro in questa direzione con l'aritmetica.

Nel 1845, il Governo aveva decretato l'introduzione del sistema metrico decimale in tutti gli Stati Sardi, concedendo cinque anni di tempo per sostituire progressivamente le nuove unità di misura alle vecchie piemontesi: la pinta, la brenta, l'oncia, il piede ed infinite altre.

Don Bosco vide in quel decreto legislativo un'occasione preziosa per dimostrare che il clero cattolico desiderava incoraggiare il progresso e non frenarlo, come troppo spesso si diceva, e nel 1846 pubblicava il suo Sistema metrico decimale, opuscolo di divulgazione straordinariamente chiaro e conciso, prezioso per tutti ma soprattutto per i commercianti e i contadini.

Il suo sforzo non si fermerà lì: nelle mani dei maestri elementari metterà anche una Storia Sacra che farà testo per molti anni, una Storia d'Italia egualmente fortunata e una piccola Storia Ecclesiastica che gli educatori cattolici, che ne sentivano la mancanza, accolsero favorevolmente.

Per chi desidera educare i giovani, la scuola è un fecondo mezzo di istruzione e di apostolato; ma il teatro può non esserlo meno.

Don Bosco lo capì ben presto e lo introdusse nelle sue Case fin dal 1849, componendo egli stesso varie opere di teatro tra cui alcune scene dialogate, per lo più allegri episodi di mercato, destinate a continuare sul palco l'insegnamento del sistema metrico decimale.

Inutile aggiungere che fra i molteplici generi tentati dal Santo, le opere di formazione religiosa avevano tutte le sue preferenze.

Numerosissimi furono gli scritti con cui alimentò la fede dei suoi ragazzi e quella del popolo. Molta di questa produzione apparve nella collana delle Letture Cattoliche: trattatelli di pietà, vite di Santi particolarmente venerati o recentemente canonizzati, storia delle grandi devozioni cattoliche, biografie di papi, vite dei suoi alunni esemplari, quali Domenico Savio, Michele Magone, Francesco Besucco.

Costretto dalla povertà dei mezzi, Don Bosco aveva dovuto fare stampare tutte queste

pubblicazioni da editori di Torino.
Ma il sogno accarezzato da tanti anni era-di aprire egli stesso un'officina tipografica.
A prezzo di grandi difficoltà, riuscì ad ottenere l'autorizzazione ministeriale e se ne servì

subito, impiantando in una camera al pianterreno dell'Oratorio di Valdocco l'officina tanto desiderata. Quella prima tipografia salesiana era molto rudimentale: due vecchie macchine a mano, una pressa comprata usata, un banco e qualche casellario per i caratteri costruiti dagli apprendisti falegnami. Per tutto motore, le braccia dei giovani. Questi trovarono l'impianto piuttosto primitivo ma Don Bosco li rassicurò: “Lasciate fare! Lasciate fare! Questo è solo un principio. Presto avremo due, tre, dieci tipografie”.

E il suo sguardo pareva che già contemplasse quelle grandi officine che domani, in Europa e in America, a Torino, a Marsiglia, a Parigi, a Lione, a Barcellona, a Buenos Aires, avrebbero lavorato a pieno ritmo, quelle centinaia di macchine messe in moto non più dalle braccia di ragazzi ma dall'energia elettrica e quelle montagne di libri, di opuscoli, di riviste, che da un secolo escono dalle tipografie salesiane.

Per alimentare la produzione editoriale, egli ricorse da principio alla penna di amici che collaborassero alla sua fatica ed apportassero all'esposizione della verità attitudini varie e originali.

Più tardi fece appello ai suoi figli. La passione per la stampa egli la infuse nei discepoli, e non certo a caso uno dei quattro compiti assegnati all'attività dei Salesiani è proprio l'apostolato attraverso la stampa.

Il popolo, pensava Don Bosco, attinge dal giornale, dal libro, dall'opuscolo, dal romanzo, le sue aspirazioni religiose, le sue concezioni

sociali, la regola dei suoi costumi: la sua fiducia nella carta stampata è assoluta.

Bisogna dunque presentargli la verità che libera sotto tutte le varietà di stampa possibili. Sentendo l'urgenza del compito, stimolava continuamente i suoi giovani alla familiarità con la penna, risvegliando attitudini e stimolando energie. Dopo avere messo in moto tante macchine, sognava un esercito di scrittori religiosi che fornissero buon materiale a quegli impianti.

In questo, come d'altronde in ogni altra cosa, Don Bosco voleva essere sempre all’avanguardia del progresso: lo disse egli stesso ad Achille Ratti, il futuro papa Pio XI, che nel 1883, allora semplice professore al Seminario di Milano, visitava le tipografie di Valdocco e stupiva della loro modernità.

Si ricorda di Don Bosco un episodio altamente indicativo della sua passione per la stampa cattolica e dell'abilità (da autentico imprenditore di Dio, come fu definito) che egli mostrava a favore di quella causa.

Nel gennaio del 1876 un gruppo di Salesiani parlava, lui presente, della Patrologia greca et latina del Migne e delle raccolte dei Bollandisti, i religiosi che dal XVII secolo curano le edizioni delle vite di tutti i Santi della Chiesa. Il Santo stette ad ascoltare i suoi figli che commentavano le enormi difficoltà della ristampa di quelle opere in parecchie centinaia di volumi e infine: “Intraprendere queste stampe sono opere che proprio mi piacciono!” esclamò, secondo la testimonianza di un salesiano presente. “Io desidererei ardentemente di ristampare i Bollandisti e l'ho detto in varie circostanze. Ma vedo che quasi si ride alle mie spalle, come di cosa che importa una spesa immensa e che appena potrebbe fare una società libraria sussidiata dalla munificenza di qualche re. Ebbene, io sostengo che con dodicimila lire di fondo mi sentirei di intraprenderne la stampa, sicuro che si verrebbe a guadagnarne assai! Non è che si abbia torto a ridere un po' sull'attuazione dell'impresa. Infatti sono tanto oppresso da altri lavori che per ora mettermi attorno a questo progetto sarebbe un tradire gli altri affari. Ma dico che la cosa in sé è attuabilissima. Andrei a Roma per ottenere la benedizione pontificia e un Breve che mi autorizzasse e incoraggiasse a ciò; si manderebbero manifesti e inviti a tutti i Vescovi della cristianità; ci metteremmo in relazione con tutti i librai d'Italia e i principali d'Europa; manderemmo attorno alcuni viaggiatori che trattassero personalmente con i nostri corrispondenti. Si farebbe un associazione avvertendo che chi si associa all'opera da principio la otterrà a metà prezzo di quello che costerebbe quando fosse com

piuta; e così, con l'acquisto che molti farebbero del primo volume, potremmo far fronte alle spese del secondo. Condizione di associazione sarebbe non pagare tutta l'opera da principio, ma volume per volume, in ragione di tanto per foglio e ogni anno uscirebbe un volume. Io credo che con queste precauzioni si arriverebbe a stampare, con vantaggio immenso per l'Italia e per l'Europa, la più grande opera che si possegga. Ora costa circa duemila lire o almeno millecinquecento; e io mi sentirei di darla a seicento lire, prelevando ancora il mio guadagno netto di circa la metà”.

E qui Don Bosco fece una pausa, per aggiungere poi con il suo sorrisetto: «Quando io possa fare di questi calcoli, ghiribizzare intorno a questi progetti, mi trovo nel mio centro. Certo però che bisognerebbe fare un patto con la morte, che non venisse a imbrogliare le cose fino ad opera compiuta. Saranno sessanta volumi, uno per anno!».

Si resta sconcertati davanti alla sua opera di autore-editore, che sarebbe bastata a riempire da sola la vita di un uomo. Furono più di 130 le opere che dette al pubblico la sua penna, tra libri, opuscoli, fascicoli, produzioni teatrali!

Quando trovava il tempo per scrivere Don Bosco, egli che aveva tanti ragazzi da nutrire e istruire, tante chiese da edificare, tante Congregazioni da fondare, tante opere di apostolato da condurre avanti e infinite anime da ascoltare, illuminare, consolare, guarire?

Se le sue giornate appartenevano a tutti, sue erano però le notti. Quando tutti i ragazzi dormivano, poteva chiudersi nella sua camera e, sopra un modesto tavolino, illuminato dalla lampada ad olio, riempiva di una grossa scrittura pagine e pagine. Molte volte l'alba lo trovava mentre stava terminando un manoscritto richiestogli la sera innanzi dalla tipografia per una consegna immediata. La sua opera di scrittore è figlia delle sue veglie: non c'è libro di Don Bosco che non sia costato innumerevoli notti insonni.

E poco mancò che l'attività di scrittore gli costasse anche la vita. Per circa tre anni, dal 1853 al 1856, all'inizio cioè della pubblicazione delle Letture Cattoliche, Don Bosco fu più volte assalito da ignoti, probabilmente fanatici esasperati dalla sua così decisa opposizione al proselitismo protestante. I suoi opuscoli ottenevano tanto successo tra il pubblico, riportavano alla fede cattolica tante anime e tante altre ne proteggevano, che alcuni estremisti avevano evidentemente deciso di liberarsi di quello scomodo prete.

Eppure Don Bosco, autentico uomo di Dio, ispirato da un amore che non escludeva alcuno e deciso a scendere in campo solo in seguito a continue provocazioni, si era sempre attenuto nei suoi scritti ad una moderazione lontana dal fanatismo intollerante, pur nella vivacità di stile imposta dal momento.

Nel concludere una sua pubblicazione, Il Cattolico Istruito, si rivolgeva ai ministri protestanti dicendo loro: “Queste sono parole di un vostro fratello che vi ama e vi ama più che voi non lo crediate. Parole di un fratello che offre tutto se stesso e quanto può avere in questo mondo per il vostro bene”.

Che l'aperta difesa della fede cattolica non contrastasse in lui con lo spirito di benevola carità è attestato, del resto, anche dalle sue relazioni con gli ebrei. Si sa come, purtroppo, non tutti i cattolici di quel secolo sapessero meditare con serenità sul mistero d'Israele. Don Bosco, che anche nelle questioni politiche e sociali seppe evitare, a differenza di molti, ogni fanatismo, non fu da meno nei rapporti con le altre confessioni cristiane e con gli ebrei, nella pratica di vita almeno.

Ebreo fu a Chieri uno tra i suoi amici più cari, ebrei furono molti dei giovani da lui assistiti in seguito poi convertiti e battezzati all'Oratorio. Nel 1881 un israelita di Milano si vide recapitare a casa il “Bollettino Salesiano” e se ne mostrò meravigliato al Santo che così gli rispose: “Sì, è cosa veramente singolare che un prete cattolico proponga un'associazione di carità a un israelita! Però la carità del Signore non ha confini e non eccettua alcuna persona di qualunque età, condizione e credenza. Fra i nostri giovani, che in tutto sono 80.000, ne abbiamo avuti, e tuttora ne abbiamo, che sono israeliti. D'altro lato Ella mi dice che appartiene alla religione mosaica e noi cattolici seguitiamo rigorosamente la dottrina di Mosè e tutti i libri che quel gran Profeta ci ha lasciati: vi è in ciò disparità soltanto nelle interpretazioni di tali scritti”. La lettera concludeva dicendo che Don Bosco avrebbe

continuato a spedire il “Bollettino” perché in esso quel signore non avrebbe trovato cosa alcuna che potesse offendere la sua coscienza.

“Ricordo che accompagnai da lui un ebreo sui cinquant’anni” scrisse Giovanni Bisio “che mi aveva esternato il desiderio di conoscerlo. Ciò che è avvenuto tra loro, io non so; ma quell'ebreo uscendo dall’Oratorio mi disse che, se in ogni città ci fosse stato un Don Bosco, tutto il mondo si sarebbe convertito”.

La testimonianza è convalidata da quella dello stesso rabbino di Alessandria che scrisse: “Fui già due volte a trovare Don Bosco e non

ci andrò più una terza volta, perché mi troverei costretto a restare con lui”.

Anche molti ragazzi arabi, musulmani di religione, profughi per la carestia dall'Africa del Nord, furono amorevolmente accolti all'Oratorio.

Purtroppo lo spirito dei tempi impedì che l'invito sereno al dialogo, più volte ripetuto dal Santo, venisse raccolto dai protestanti.

Così, nel 1854, Don Bosco era costretto a scrivere parole dalle quali traspare l'amarezza per l'impossibilità di dibattere questioni religiose senza scadere nella polemica: “Nel pubblicare la presente Raccolta di fatti contemporanei, stimiamo a proposito di avvisare i nostri lettori come i protestanti siansi dimostrati altamente indignati soprattutto per altri fatti da noi dati già alle stampe che li riguardano. Ciò dimostrarono con detti, con lettere private e con gli stessi loro pubblici giornali. Noi aspettavamo che entrassero in questione per farci rilevare qualche errore da noi stampato. Ma non fu così. Tutto il loro dire, scrivere e pubblicare non fu che un tessuto di villanie ed ingiurie contro le Letture Cattoliche e contro chi le scrive. A dire ingiurie e villanie, noi concediamo loro di buon grado la vittoria senza fermarci a dare nemmeno una parola di risposta”.

E il Santo concludeva lo sfogo accorato con parole straordinarie per quegli anni e quel clima: “Abbiamo avuto sempre massimo impegno di non volere mai pubblicare cosa alcuna che fosse contraria alla carità, che devesi usare a qualunque uomo di questo mondo. Onde, perdonando di buon grado a tutti i nostri dileggiatori, ci studieremo di evitare le persone; ma di svelare l'errore ovunque si nasconda».

Una domenica sera, mentre nella tettoia-cappella di Casa Pinardi Don Bosco teneva ai giovani più grandi il catechismo, uno sconosciuto scalò il muricciolo che circondava l'edificio e attraverso la finestra gli scaricò addosso il fucile. Il sicario non aveva mirato abbastanza bene e la pallottola sfiorò le costole e il braccio alzato di Don Bosco, per andare a schiacciarsi contro il muro di fronte, lasciandolo incolume. Un grido di spavento uscì dalla bocca degli allievi, seguito da un silenzio impressionante; quei poveri ragazzi non potevano credere ai propri occhi e restavano immobili, terrorizzati dall'esplosione. “Su, su allegri!” disse Don Bosco con la calma di sempre e con il migliore sorriso “O quel tale era un cattivo musicista oppure è la Madonna che lo ha fatto andare fuori tempo! Il peggio è che questa è l'unica mia veste e adesso è tutta strappata».

Un'altra volta, dopo il tramonto, andarono a chiamarlo perché si recasse ad amministrare i Sacramenti a un moribondo in una casa dei dintorni. Prima di partire, per precauzione, Don Bosco pregò quattro dei suoi giovani di accompagnarlo.

- Non si prenda questo disturbo, reverendo! - esclamarono premurosi i due uomini venuti a chiamarlo. - La riaccompagneremo noi stessi.

- Oh, ma lo faccio soltanto - rispose Don Bosco - per fare prendere una boccata d'aria a questi bravi ragazzi! Arrivati da voi, mi aspetteranno fuori.

In casa del presunto moribondo, Don Bosco si trovò davanti a un gruppo di tipi loschi che bevevano vino e mangiavano castagne.

- Aspetti un minuto qui al pianterreno - disse allora uno dei due uomini - mentre io vado a preparare l'ammalato.

- Un po' di castagne, padre? - domandò con affettata premura uno dei bevitori. - Grazie, ma non prendo nulla fuori pasto.

- Allora un bicchiere di vino! E barolo, sa?, e di quello buono!
- No, grazie, non insista. Non mangio e non bevo.
- Via, via, reverendo, non ci faccia questo torto! È per tenerci compagnia!

E senza aspettare la risposta, riempì un bicchiere. A Don Bosco non sfuggì che, per riempirlo, l'uomo aveva preso una bottiglia messa in disparte, sopra il camino.

- Alla sua salute, padre carissimo!

- Alla vostra, amici! - disse Don Bosco alzando il bicchiere e posandolo poi subito sopra la tavola senza portarlo alle labbra.

- Ma come, non beve?
- Ve l'ho detto, non prendo niente fuori pasto.
- Lei non ci offenderà così! - imprecarono tutti a una voce.

- Se non lo berrà per amore, lo berrà per forza!

E già i gesti cominciavano ad accompagnare fin troppo chiaramente le parole, quando Don Bosco con un salto fu sulla porta e l'aprì, facendo irrompere nella stanza i suoi accompagnatori. Alla vista di quei giovanottoni robusti, tutti si rimisero a sedere in silenzio.

- Ecco - disse Don Bosco con il tono più calmo del mondo

- ecco uno dei miei giovani che non rifiuterà il vostro barolo. E ciò dicendo fece l'atto di riprendere in mano il bicchiere.

- No, no! - gridarono allora i compari. - Abbiamo invitato lei e non i ragazzi!.

La riprova del tranello era abbastanza eloquente e Don Bosco non volle insistere. Chiese soltanto di vedere il “moribondo” per il quale era venuto. Lo condussero in una camera del secondo piano dove, mezzo nascosto sotto un mucchio di coperte, giaceva uno dei due sconosciuti che erano venuti a chiamarlo. Don Bosco, a quel punto, si rifiutò di prestarsi ancora a un gioco già troppo lungo e sempre scortato dai giovani ritornò all'Oratorio, ringraziando Dio di essere sfuggito a una brutta fine per l'avvelenamento o per le percosse che senz'altro gli sarebbero state inferte se non avesse bevuto quel vino.

Una domenica sera dell'estate del 1855, un attentato quasi identico venne a mettere di nuovo in pericolo la vita del Santo che però questa volta non riuscì a cavarsela del tutto senza danni. Era venuto uno sconosciuto a pregarlo di accorrere a portare l'Estrema Unzione a una donna che abitava poco lontano, nella via del Cottolengo, quasi di fronte al Rifugio della Marchesa di Barolo.

La notte era buia e Don Bosco, ormai esperto di agguati, decise di prendere con sé due compagni.

- Non occorre nessun altro - disse anche quella volta lo sconosciuto. - Non disturbi i suoi ragazzi, la accompagnerò io.

Queste parole aumentarono i sospetti di Don Bosco che invece che da due si fece scortare da quattro giovanotti scelti tra i più coraggiosi e robusti.

Arrivati alla casa, due dei ragazzi restano ai piedi della scala, mentre gli altri due salgono fin sul pianerottolo e si appostano davanti alla porta della stanza nella quale Don Bosco entra solo. Al suo ingresso quattro uomini si alzano e gli danno il benvenuto con un'aria che cercano di rendere cordiale ma il Santo non può non notare alcuni randelli posati qua e là come se fossero stati dimenticati. Si avvicina alla “moribonda” che, in verità, non aveva per nulla l'aspetto di una persona in fin di vita, e prega gli astanti di allontanarsi un po' per potere parlare all'ammalata e prepararla a una buona confessione.

- Allora, mia buona signora, siete disposta a riconciliarvi con Dio?

- Ma sì, ma sì! - risponde quella con voce tutt'altro che flebile. - Ma prima bisogna che quel furfante di mio cognato, quel mascalzone che vede là in fondo, mi domandi perdono! - E contro l'uomo scaglia un torrente di ingiurie spaventose.

- Vuoi tacere, brutta canaglia! - grida il “cognato”, buttando a terra con un manrovescio l'unica candela e facendo così piombare la stanza in una oscurità completa. Nel medesimo istante su Don Bosco

si abbatte una randellata che gli avrebbe spaccato la testa se non avesse fallito il colpo finendo su una spalla.

Con estrema prontezza di spirito l'aggredito afferra una sedia con la quale si copre il capo. I colpi piovono fitti sopra l'elmo improvvisato che gli assicura una copertura sufficiente a raggiungere, seppur malconcio la porta, spalancata la quale irrompono nella stanza i giovani già allarmati dai rumori della lotta.

Quando furono in mezzo alla strada, i ragazzi si accorsero con spavento che Don Bosco era coperto di sangue. Per buona fortuna le ferite non erano gravi: solo una spalla era dolorante e la mano sinistra ferita per un colpo di bastone.

Per quanto poteva, in quelle circostanze Don Bosco preferiva stare sulla difensiva e non servirsi della sua forza, che pure era eccezionale, né di quella delle eventuali guardie del corpo. Una volta, però, fu visto passare ad una offensiva rapida e fortunata. Tornando sul tardi da Moncalieri, percorreva la strada che costeggia il Po, quando, voltandosi al rumore di passi affrettati che lo seguivano, vide un figuro che correva verso di lui brandendo anche questa volta un randello. L'intenzione dello sconosciuto non poteva essere più chiara e Don Bosco, dato un veloce sguardo all'intorno, si preparò. Quando l'uomo fu quasi sopra di lui, l'aggredito si scostò e con mossa fulminea assestò una vigorosa spallata all'avversario, scaraventandolo giù per la scarpata del fiume dove rimase dolorante.

Don Bosco approfittò del momento per scappare, raggiungendo poco dopo un gruppo di passanti anch'essi in cammino verso Torino.

Inutile aggiungere che, dopo ciascuno di questi attentati, Don Bosco non pensava neppure a sporgere denuncia alla polizia ma, dimenticata subito ogni offesa, continuava tranquillamente la sua strada. La sola “vendetta” che egli si concesse, fu di continuare imperturbabile quella campagna di stampa che era forse la vera causa di tante aggressioni.

Le doti che Don Bosco cercò di infondere al suo stile di scrittore furono la limpida semplicità e la vivacità. Per meglio riuscirvi, leggeva le sue pagine al portiere del Convitto Ecclesiastico prima di consegnarle al tipografo; più tardi le leggerà a sua madre. Certi capitoli dei suoi libri furono interamente rifusi perché il giudizio della mamma era stato sfavorevole.

Una volta, volendo dire che San Pietro è “colui che detiene le chiavi del Paradiso”, aveva definito l'Apostolo Il Clavigero celeste.

- Clavigero? - esclamò mamma Margherita. - Dov'è questo paese? - Non è un paese, mamma. Clavigero vuol dire portinaio.
- Ah! E allora perché non dici portinaio?

Don Bosco capì la lezione e, una volta di più, docilmente cancellò.

Si scrive per farsi capire ma anche per farsi leggere e, per raggiungere lo scopo, niente giova quanto un certo fremito della pagina, qualcosa che palpiti, colorisca e riscaldi: la vita, in una parola. Don Bosco l'aveva compreso istintivamente. Lo dimostrano anche due procedimenti del suo stile: un continuo rivolgersi direttamente al lettore e l'uso del dialogo. Non c'è cosa che tenga desto chi legge come l'indirizzargli la parola. Il dialogo, quando è naturale, è vita, vita presa sul vivo.

Don Bosco scriveva come parlava e praticando tanto i ragazzi, capiva d'intuito quale linguaggio usare per attirare l'attenzione dei semplici sulle sue pagine. Continuava nei libri la sua abituale predicazione paterna, alla buona. E qui forse l'origine del grande successo che riscossero tutte le sue pubblicazioni.

Un elogio allo stile di Don Bosco venne addirittura da Niccolò Tommaseo. Il grande scrittore, che stimava molto il Santo e se ne giovò per l'istruzione professionale dei suoi figli, un giorno gli disse: “Sono lieto di poterle assicurare che ella ha trovato uno stile facile, il vero modo di spiegare al popolo le sue idee in maniera che le intenda. Anzi, ella seppe rendere popolari e piane anche le materie difficili».

Eppure, nei primi tempi della sua attività di scrittore, dubbioso delle sue capacità, Don Bosco si recava spesso con qualche manoscritto sotto il braccio nel palazzo della Marchesa di Barolo. Qui viveva, ospite di quella aristocratica, il mite Silvio Pellico che ben volentieri accettò il compito di revisore stilistico dei fascicoli di Don Bosco, a lui carissimo.

Una caratteristica della vita dei grandi Santi sembra essere il loro potere sul mondo della natura, che pare piegarsi docile ai loro comandi e ai loro bisogni. Così, ad esempio, tutti ricordano l'episodio del lupo di Gubbio narrato nei Fioretti di San Francesco d'Assisi.

Anche nella vita di San Giovanni Bosco si vide apparire all'improvviso il buon muso di un cane, chiamato il Grigio ('l Gris, in piemontese) per il pelo di quel colore. Bestia di una razza speciale, cane sconosciuto, senza bellezza ma di una forza prodigiosa, cane che rifiutava la cuccia e il cibo e che dormiva chissà dove, cane il cui collare non

rivelava alcun padrone, saldo sulle zampe e armato di zanne tremende contro i malfattori, ma dolce e affettuoso con i ragazzi e con uno sguardo buono quando fissava Don Bosco.

Il Grigio apparve misteriosamente, non si seppe mai da dove, una sera d'autunno del 1852.

Dalle ultime case della città alla dimora di Don Bosco, bisognava percorrere un tratto di strada solitario.

La regione di Valdocco era allora quasi deserta, e, tra i terreni incolti, solo di tanto in tanto sorgeva una casa o un losco albergo. Suolo tormentato, tagliato dalla Dora, su cui a ogni istante s'incontravano folti cespugli e macchie di gelsi e di acacie. Quel terreno rilevato, quella vegetazione, offrivano ai malintenzionati il più comodo riparo per aspettare al varco la loro vittima. Più di una volta mamma Margherita aveva tremato non vedendo tornare il figlio la sera.

Chi mai avrebbe potuto difenderlo in quel tratto pericoloso? Ci pensò la Provvidenza inviando a Don Bosco, appunto una notte del 1852, una specie di mastino che, appena oltrepassato il manicomio di via Giulio, al punto estremo cioè della città, gli si affiancò all'improvviso. Don Bosco fece subito un passo indietro, spaventato dall'aspetto imponente della bestia, ma quando si accorse che l'animale lo guardava con occhi buoni e che accettava le carezze, continuò per la sua strada, tallonato dal cane. Alla porta dell'Oratorio non volle entrare in casa e sparì nella notte con lo stesso passo tranquillo. Tutte le sere che Don Bosco ritornava tardi e solo a casa, si rinnovava quel fatto: il suo compagno l'aspettava alla svolta della strada o in un crocicchio solitario e lo seguiva pacifico per lasciarlo solo al cancello di casa Pinardi.

Non fu sempre inutile quella compagnia. Una sera d'inverno, mentre Don Bosco ritornava a casa molto tardi, uno sconosciuto nascosto dietro un albero gli scaricò contro a bruciapelo due colpi di pistola. Per buona fortuna le esplosioni andarono a vuoto, ma l'assassino mancato si gettò sopra Don Bosco con una violenza furibonda. L'avrebbe senza dubbio strangolato o accoppato a pugni se in quel momento non si fosse sentito un latrato e una bestia colossale non fosse saltata alla gola dell'aggressore. Il disgraziato ebbe appena il tempo di scappare con i vestiti a brandelli, mentre Don Bosco, rimessosi dallo spavento, accarezzava con gratitudine il folto pelo del cane che i suoi ragazzi già avevano soprannominato 'l Gris.

Un'altra volta, in una via buia nei pressi della Consolata, gli camminavano davanti due uomini dall'aspetto inquietante i quali - come

appariva chiaramente - regolavano il loro passo sul suo. “Brutto affare!” pensò Don Bosco. Stava per ritornare sui suoi passi per raggiungere un luogo più frequentato, quando i due gli si precipitarono addosso e gli incappucciarono la testa con un sacco. A furia di dibattersi Don Bosco riuscì a liberarsi ma il più robusto era già riuscito a mettergli alla bocca un bavaglio che rischiava di soffocarlo e gli impediva in ogni caso di chiamare aiuto. Stava per crollare a terra senza più forze, semi asfissiato, quando si udì nel buio il terribile ringhio del Grigio. In un minuto Don Bosco era libero, e mentre uno degli aggressori scappava, l'altro stava disteso a terra con l'animale ansante a pochi centimetri dalla gola.

- Chiami il suo cane! - urlava il disgraziato terrorizzato. - Lo chiami! Presto, presto!

- Lo farò se prometti di andartene!

- Tutto quello che vuole! Ma chiami subito la bestia! - rantolò il malandrino con gli occhi fuori dalle orbite. Don Bosco parlò al Grigio che lasciò a malincuore la preda che subito scomparve di corsa dietro il primo angolo.

In un'altra circostanza il formidabile Grigio tenne testa a tutta una masnada di briganti. Don Bosco aveva appena infilato il viale deserto che, costeggiando le ultime case della città, lo conduceva da Porta Palazzo all'Oratorio. La notte era molto inoltrata. Improvvisamente, da un angolo scuro sbucò un individuo con il bastone alzato. Don Bosco, non più giovanissimo, correva ancora e molto veloce, ma l'assalitore sembrava più allenato e in un attimo lo raggiunse. Allora il Santo passò risolutamente all'offensiva, come a Moncalieri, e assestò allo sconosciuto un pugno allo stomaco tanto violento da farlo cadere a terra urlante di dolore. A quel grido, da cespugli e siepi lungo la strada sbucarono altri briganti che stavano appostati per dare man forte al compare in caso di bisogno.

Don Bosco si vide perduto: ancora qualche secondo e lo avrebbero massacrato se anche questa volta non si fosse udito inaspettato il feroce abbaiare del Grigio. In pochi salti il cane fu in mezzo alla mischia e si mise a girare attorno a Don Bosco ringhiando con gli occhi iniettati di sangue e mostrando le zanne agli aggressori che, uno dopo l'altro, preferirono dileguarsi per la campagna vicina abbandonando la preda

Misteriosa bestia, il Grigio, il cui comportamento cambiava secondo le circostanze.

Una sera, invece' di offrirgli la sua scorta, impedì a Don Bosco di uscire. Sbucò improvvisamente dalla campagna immersa nelle tenebre

e, sdraiatosi sulla soglia di casa, non volle assolutamente andarsene.

Per la prima volta si mostrò ringhioso verso il suo protetto, respingendolo con il muso all'interno della casa.

“Se non vuoi dare ascolto a me, dai retta almeno a questa bestia!” disse mamma Margherita che quella sera si era già mostrata contraria all'intenzione del figlio di uscire. Don Bosco si rassegnò a restare in casa e fu bene per lui perché di li a poco giunse affannato un vicino a scongiurarlo di non muoversi di casa, avendo sorpreso le parole di un gruppo di figuri che dal tramonto si aggiravano attorno a casa Pinardi preparando un attentato.

Poi, col passare degli anni, finirono anche le persecuzioni violente e il Grigio non si fece più vedere. Per ventisette anni non si udì più parlare di lui. Ma nel 1883, una notte di nebbia in cui Don Bosco, accompagnato da uno dei suoi preti, tornava da Ventimiglia a Bordighera a piedi non avendo trovato una carrozza, il Grigio apparve all'improvviso latrando allegramente e scortò i due nel buio sino alla meta. Sembrava sempre la stessa bestia straordinariamente agile e forte: eppure erano passati più di trent'anni dalla sua prima comparsa e la vita di un cane supera di rado i 12-13 anni.

Dopo quell'ultima, ancor più misteriosa apparizione che precedeva di cinque anni la morte del Santo, il Grigio scomparve per sempre, inghiottito da quel mistero dal quale era sbucato all'improvviso nell'autunno del 1852.

La storia di questo animale prodigioso ha del leggendario. E leggenda la giudicarono molti, così come non mancarono gli scettici che considerarono prodotto di fantasia molti episodi che si narrano della vita di Don Bosco, questo piemontese realista, sorretto sempre dal solido buon senso della sua gente contadina, al quale toccò un'esistenza contrassegnata dall'impressionante irrompere del soprannaturale.

Eppure Don Bosco, non dimentichiamolo mai, non visse nell'oscuro Medioevo o in qualche terra sperduta. Don Bosco visse nel secolo della rivoluzione industriale e della scienza trionfante, nella capitale del più progredito Stato italiano, in quella Torino alla quale guardavano con ammirazione e speranza le migliori intelligenze della Penisola. Abbiamo numerosissime fotografie di lui; quando morì, nel 1888, già scoppiettavano i primi veicoli a benzina; sono ancora tra noi, sebbene sempre più rari, testimoni in carne ed ossa, persone che lo conobbero o almeno lo videro.

Come ogni altro episodio narrato in questo volume, anche le imprese del Grigio sono appoggiate da decine di testimonianze e sono

passate al vaglio dei processi canonici della Chiesa cattolica, la cui prudenza in questi casi è nota.

Possiamo onestamente credere, dunque, anche alle prodezze del Grigio, questo cane alla cui vista mamma Margherita, spaventata, non poteva fare a meno di esclamare ogni volta: «Ah, la brutta bestiaccia!”.

Nelle Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales, scritte di suo pugno, Don Bosco, venendo a parlare del Grigio, dice con il suo tono che si direbbe “allergico” ad ogni esagerazione: “Il cane grigio fu tema di molti discorsi e di varie supposizioni: non pochi di voi l'hanno anche accarezzato. Ora, lasciando a parte le strane storielle che di questo cane si raccontano, io vi verrò esponendo quanto è pura verità”.

Da quella fonte autobiografica veniamo anche a conoscere un'altra, meno nota ma non meno misteriosa apparizione del cane. Nel 1866 Don Bosco si recava da Morialdo a Moncucco presso i Moglia, i suoi antichi datori di lavoro.

“Il parroco di Buttigliera” scrive il Santo “mi volle accompagnare un tratto di via e ciò fu cagione che fossi sorpreso dalla notte a metà cammino. - Oh, se avessi il mio Grigio - dissi tra me - quanto mi sarebbe opportuno! - Ciò detto, montai in un prato per godere l'ultimo sprazzo di luce. In quel momento il Grigio mi corse incontro con gran festa, e mi accompagnò pel tratto di via da farsi, che era ancora di tre chilometri. Giunto alla casa dell'amico, dove ero atteso, mi prevennero di passare in sito appartato, affinché il mio Grigio non venisse a battaglia con due grossi cani della casa. - Si sbranerebbero l'un l'altro, se si misurassero, - disse il Moglia.

Si parlò assai con tutta la famiglia, poi si andò a cena, e il mio compagno fu lasciato in riposo in un angolo della sala.

Terminata la mensa: - Bisogna dare la cena anche al Grigio - disse l'amico; e preso un po' di cibo, lo si portò al cane che si cercò in tutti gli angoli della casa; ma il Grigio non si trovò più.

Tutti rimasero meravigliati, perciocché non si era aperto né uscio né finestra, né i cani della famiglia diedero alcun segno della sua uscita. Si rinnovarono le indagini nella abitazioni superiori, ma niuno più potè rinvenirlo”.

Racconto incredibile, questo, per l'esigente lettore moderno? Eppure chi scrive così, e con parole tanto pacate, è un Santo, uno dei più grandi nella storia della Chiesa, colui che fondò opere che hanno sfidato il tempo.

CAPITOLO VII.

La Società Salesiana.

Verso il 1854, al tempo in cui Don Bosco andava cercando collaboratori animati dal suo stesso spirito, qualche amico gli domandò:

- Ma che bisogno hai di tanti preti? Tre Oratori in città non sono poi molti e una dozzina di chierici ti potrebbe bastare!

- Il bisogno che io ho di questi collaboratori - rispondeva Don Bosco - voi non lo vedete, ma io lo vedo. Lasciatemi fare! Abbiate un po' di pazienza e vedrete.

Sempre egli anticipò con sicurezza l'avvenire cui era chiamata la sua opera. Del resto, non dovranno passare molti anni per vedere realizzate le sue previsioni: nel 1863 aprirà il primo collegio fuori Torino, a Mirabello Monferrato; poi un secondo a Lanzo nel 1864; un terzo a Cherasco nel 1869, trasferito l'anno seguente a Varazze. Una volta avviata l'opera salesiana non si arresterà più: in venticinque anni si spargerà per il mondo, sormontando difficoltà e distanze incredibili. Un successo preparato anche dalla previdenza del Fondatore che aveva saputo assicurarsi a tempo i collaboratori necessari.

Già fra i suoi primi ragazzi Don Bosco ne aveva scelti alcuni ai quali aveva pazientemente insegnato i primi rudimenti di latino. La speranza era poca, la vocazione di quei ragazzi non molto precisa ma conveniva tentare egualmente la prova.

Il risultato non fu incoraggiante: uno dopo l'altro quei primi alunni se ne andarono e

bisognò ricominciare da capo.
Don Bosco ripetè due volte l'esperienza scontrandosi con lo stesso insuccesso. Si volse

allora verso quei preti della Diocesi che lo aiutavano negli Oratori, cercando di fondare con loro un embrione di comunità, senza riuscire neppure in questo tentativo. Quella vita in comune, con tutti gli svantaggi di povertà e di perdita d'indipendenza che comportava, spaventava presto gli aspiranti. Don Bosco ritornò allora per la quarta volta all'idea primitiva e cercò tra i suoi alunni

dell'Oratorio qualche possibile candidato al sacerdozio: nel luglio 1849 ne aveva trovati quattro. Erano artigianelli tra cui il più istruito aveva terminato le classi elementari mentre gli altri tre sapevano leggere e scrivere appena il loro nome.

- Accettereste - chiese loro - di diventare miei collaboratori' nell'Oratorio?
- In che modo potremmo aiutarla, signor Don Bosco?
- Un po' in tutti i modi! Se accetterete, io completerò i vostri studi elementari, poi vi

insegnerò il latino e, se Dio vorrà, forse un giorno potrete diventare preti anche voi. Vi piacerebbe?

- Certamente, signor Don Bosco! - esclamarono i quattro che, detto fatto, sin dal giorno dopo lasciarono il lavoro per mettersi a studiare. La cronaca ci ha conservato i nomi di quei primi “seminaristi»: si chiamavano Gastini, Buzzetti, Bellia e Reviglio.

Con ardore ancor più vivo del solito, Don Bosco si mise al lavoro e per diciotto mesi continui lavorò quelle intelligenze piuttosto ribelli. Un prete amico lo aiutava ma la maggior parte delle lezioni le dava lui ed in modo eminentemente pratico. Uno dei suoi biografi, parlando di questi corsi intensivi, scrive una frase che rivela come il metodo pedagogico di Don Bosco fosse di una modernità sconcertante: “Egli non faceva quasi mai aprire la grammatica a scuola, se non per risolvere qualche dubbio sorto sopra il testo latino”.

Con questo metodo, in un anno e mezzo il Santo portò i suoi alunni al livello dei corsi superiori e il 2 febbraio 1851, con l'approvazione scritta dell'Arcivescovo esule a Lione, dava loro l'abito dei seminaristi. Tuttavia anche questo quarto tentativo doveva avere l'insuccesso dei precedenti. Dopo avere frequentato i corsi di filosofia nell'Università di Torino, quei primi allievi abbandonarono Don Bosco: mentre due lasciavano definitivamente l'abito ecclesiastico, gli altri entravano nel Seminario Diocesano di Torino.

Senza perdersi di coraggio, il Santo si rimise all'opera e questa volta la sua fatica doveva essere premiata.

Spesso, passando per Porta Palazzo, incontrava un ragazzetto di dieci anni che andava alla vicina scuola dei Fratelli delle Scuole Cristiane: Don Bosco, secondo il suo solito, non mancava di rivolgergli una parola affettuosa. Una volta il fanciullo, divenutogli amico, chiese una immaginetta; nell'atto di dargliela, Don Bosco la tagliò a metà e: «Prendi, Michelino!», disse al fanciullo stupito.

Cinque anni dopo, il giorno in cui a Castelnuovo il ragazzo di Porta Palazzo indossava la veste talare, Don Bosco gli diede la chiave

del piccolo mistero. «Caro Michelino», gli disse il Santo «oramai divideremo tutto a metà».

Quel giovane si chiamava Rua, Michele Rua. Sarà il primo successore di Don Bosco e dopo la sua morte la Chiesa aprirà il processo informativo per iscriverlo tra i suoi Santi.

A Rua vennero ad unirsi altri giovanetti, alunni dell'Oratorio o contadinelli trovati nelle campagne e con questa piccola schiera si potè iniziare un altro corso di latino. Don Bosco, ormai già troppo occupato, curava questa volta soltanto l'andamento generale degli studi;

infatti, come vedemmo, professori amici aprirono le loro scuole a quei giovani volenterosi. :

Il 5 giugno del 1852 è una data importante nella storia salesiana.
Per la prima volta quel giorno, dopo le preghiere della sera, Don Bosco riunì i discepoli

nella sua camera.
Apparentemente egli tenne loro una semplice meditazione spirituale; in realtà fece un

passo prudente verso la costituzione di una nuova Congregazione religiosa. La strada sarà lunga e difficile ma nulla e nessuno potrà arrestare il cammino di lui che si sentiva chiamato da Dio a diventare padre di molta gente, pater multarum. gentium, come proclama la liturgia della Chiesa nella Messa del suo giorno natale.

Era già un merito tentare l'impresa: mai, in nessun tempo, religione e Chiesa erano state tanto in discredito nel già cattolicissimo Piemonte.

Come dicemmo, la stampa liberale, la più diffusa a quei tempi, alimentava continuamente l'anticlericalismo tra l'opinione pubblica.

Se tutte le vesti nere erano guardate con sospetto, si era più che mai diffidenti verso le tonache e i sai dei religiosi. Si annetteva ormai un suono fastidioso a parole quali noviziato, professione religiosa, voti, congregazioni.

Poco si faceva per avviare i giovani al sacerdozio, nulla per indirizzarli al convento. Eppure nel segreto della casa di Valdocco stava germogliando una vita nuova, destinata a immettere linfa fresca nel corpo della Chiesa.

Don Bosco lasciò cadere nell'anima dei suoi figli con prudenza somma i primi semi della messe futura. Una parola in più, un'allusione troppo chiara che rivelasse il suo progetto interamente, sarebbero forse* bastate per allontanare quelle buone volontà, scatenando anche all'esterno reazioni imprevedibili.

Da principio egli chiese ai suoi allievi una sola cosa: essere disposti

ad aiutarlo. Niente di più. Le sue conferenze della domenica sera trattavano si delle virtù cristiane e della vita religiosa, ma quando Don Bosco ne esponeva la bellezza per farne amare la pratica, pareva che mirasse soltanto a formare accanto a sé, per la sua azione caritativa, collaboratori affezionati. Metodo ricalcato, in fondo, su quello del Cristo con gli Apostoli, metodo di rivelazione progressiva che manifesta il fondo del pensiero a poco a poco, man mano che le anime sono pronte a riceverlo e le menti a comprenderlo.

Per parecchi anni, dopo le preghiere della domenica, Don Bosco continuò l'opera di lenta formazione. I suoi primi discepoli si facevano grandi, Rua aveva preso la veste talare il 3 ottobre 1852 insieme con Rocchetti. Presto altri seguirono: Francesia, Cagherò, Bonetti. Un piccolo gruppo si costituiva attorno al capo e pareva promettere di perseverare; da un mese all'altro il nucleo si ingrossava e da una settimana all'altra l'idea del Santo, prendendo corpo e precisandosi, formava quei giovani secondo l'ideale desiderato.

Nel 1854, il 26 di gennaio, durante la novena in preparazione alla festa di San Francesco di Sales, la piccola schiera prende un nome. Tutti i quattro giovani che la compongono si chiameranno d'ora in poi Salesiani. L'atto di battesimo di quella che sarà una delle più numerose e importanti comunità della Chiesa, ci è stato conservato su un libriccino di appunti di Don Michele Rua: «La sera del 26 gennaio 1854 ci riunimmo nella camera di Don Bosco. C'erano, oltre a Don Bosco, Cagherò, Rocchetti, Artiglia e Rua. Ci fu proposto di cominciare, con l'aiuto del Signore, un periodo di esercizio pratico della carità verso il prossimo. Al termine di questo periodo avremmo potuto legarci con una promessa e, più in là, questa promessa si sarebbe potuta trasformare in voto. A partire da quella sera si dette il nome di Salesiani a tutti quelli che adottarono questo genere di apostolato».

Salesiani: discepoli di San Francesco di Sales.
Perché Don Bosco volle che i suoi figli prendessero questo nome?
La sua intenzione di porre tutte le fatiche apostoliche sotto la protezione del mite

Vescovo di Ginevra risaliva a molto tempo addietro. Aveva appena iniziato il suo primo Oratorio nel cortile del Convitto Ecclesiastico, che già, d'accordo con gli amici Cafasso e Borel, pensava di affidarlo all'intercessione del Santo savoiardo. Il culto per quel Dottore della Chiesa, Don Bosco lo condivideva con la Marchesa di Barolo che aveva avuto il progetto di fondare una Congregazione di sacerdoti da porre sotto il patrocinio del Santo. Anzi, ai piedi della scala che portava alle camere dei suoi cappellani,

la Marchesa aveva già fatto dipingere un medaglione con l'immagine del grande Vescovo.

I tempi di Don Bosco, come vedemmo, erano difficili per la fede cattolica: liberalismo, protestantesimo, residui di giansenismo ed altre correnti di pensiero cercavano di scalzare alle basi l'edificio dottrinale della Chiesa. In tali circostanze San Francesco di Sales, l'uomo di tutte le controversie dottrinali, il modello del polemista rispettoso delle persone ma implacabile verso gli errori, il primo divulgatore in grande stile di opuscoli religiosi, il predicatore instancabile, sembrava a Don Bosco il Santo ideale per ispirare una comunità che si proponeva la difesa e la diffusione della verità cristiana con la parola, la penna, l'insegnamento, la predicazione, la stampa.

Infine, dando ai suoi figli il nome del Vescovo di Ginevra (il Santo della dolcezza), Don Bosco indicava che lo stesso spirito di mitezza, di pazienza e di carità confidente, avrebbe dovuto ispirare le loro opere e i loro metodi. Attirare a sé le anime con la bontà, il sacrificio, la comprensione, la gioia, per condurle con naturalezza a Dio: questo il metodo di apostolato del Savoiardo. San Giovanni Bosco ne aveva scoperto il segreto meditandone l'opera e la vita: così, desiderando che i suoi figli dovessero il successo dei loro sforzi di educatori solo alla forza della carità, pensò che nulla meglio poteva fare che porre davanti a loro, come patrono, guida e modello, il Santo di cui avrebbero anche portato il nome.

Ora che il loro gruppo aveva un nome, cominciava per i giovani la prova del noviziato, anche se la parola non veniva ancora proferita apertamente, troppo in sospetto com'era.

Un anno dopo, la sera dell'Annunciazione, il 25 di marzo del 1855, nella cameretta di Don Bosco, il chierico Michele Rua, studente di filosofia, pronunciava i primi voti annuali nelle mani del Fondatore.

Fu un rito semplicissimo, svoltosi con molta discrezione: il sacerdote, in piedi, ascoltava il chierico che pronunciava una formula inginocchiato davanti a un crocefisso. Nessun testimone; nemmeno la cotta della più modesta liturgia, nella stanza povera e nuda, dove quella sera nasceva qualcosa di grande, addirittura uno degli Ordini religiosi più importanti della storia, una Congregazione che avrebbe dato alla Chiesa santi, missionari, cardinali, vescovi a decine, religiosi a migliaia.

Il chierico Rua che con il triplice voto s'impegnava a vivere con Don Bosco per aiutarlo nella sua missione, non sospettava certo quale parte decisiva gli sarebbe stata riservata nella Comunità di cui era il

primo membro. Don Bosco aveva visto chiaro: quel ragazzo di sedici anni era chiamato a dividere con lui i dolori e le gioie della Congregazione Salesiana.

“Noi due faremo tutto a metà, Michelino” gli aveva detto un giorno a Porta Palazzo, tra le bancherelle del mercato. Fu davvero così. Non si esagera affermando che senza Michele Rua Don Bosco non avrebbe potuto attuare tutti i suoi progetti. Quel suo primo chierico incarnerà così profondamente il pensiero del Fondatore, rispecchierà così fedelmente il suo spirito, che un giorno Don Bosco farà del suo primo discepolo questo elogio:

«Se il Signore mi dicesse: la tua ultima ora è vicina, scegliti un successore che impedisca alla tua Opera di perire e chiedimi per lui tutti i doni e tutte le grazie che giudichi necessarie, il mio imbarazzo sarebbe grande. Non saprei cosa chiedere al Signore che non sia già in Don Rua!”.

Dopo il chierico Rua, ad intervalli ravvicinati, altre promesse furono deposte nelle mani di Don Bosco. Ad uno ad uno tutti quei giovani,. quasi in punta di piedi, promettevano fedeltà al loro Padre. Verrà anche il giorno in cui, tutti riuniti in forma solenne, offriranno la loro giovinezza con voti pubblici, emessi davanti a numerosi testimoni. Ma sino a quel giorno i Salesiani si affiancheranno a Don Bosco ad uno ad uno in quella forma silenziosa e privata. Il Santo avanzava verso la meta che si era prefisso a tappe successive, con passo misurato e costante: egli sapeva che le grandi cose nascono nella pazienza, nella calma e nella prudenza.

Molti anni dopo, ottenuta l'approvazione definitiva della Santa Sede, quando vedrà la Congregazione definitivamente stabilita, Don Bosco riandrà col pensiero alla povertà degli inizi, all'insufficienza dei giovani con i quali lavorava, o ai difetti di quei primi compagni e sarà

lieto di essere stato paziente, di non avere voluto fare e riformare tutto di un colpo, di avere trattato l'umanità da uomo.

A sessant'anni, infatti, il Santo uscirà in una confidenza commovente trascritta dai figli così come uscì dalle sue labbra:

“Ci sono tra voi di quelli che ricordano ancora i primi tempi dell'Oratorio. Quante cose, piano piano, insensibilmente, si sono andate consolidando e migliorando! Allora Don Bosco era completamente o quasi completamente solo. Egli doveva far tutto: insegnare di giorno, insegnare di sera, scrivere libri, predicare, assistere, procurare di che vivere. E in casa non c'era certo un ideale di perfezione! Vi si scoprivano disordini: litigi di chierici che non si intendevano sul modo di

fare il bene; dispute letterarie o teologiche spinte talvolta molto in là; chiasso allo studio quando chi sorvegliava era assente. Parecchi la mattina non riuscivano ad alzarsi dal letto; altri non scendevano a fare scuola e nemmeno avvisavano il Superiore. Si pregava in compagnia dei ragazzi, ma mai lettura spirituale, mai meditazione come richiedono i maestri della vita spirituale. Tutti questi disordini io li notavo; di tanto in tanto avvertivo l'uno o l'altro, ma la maggior parte del tempo lasciavo che le cose facessero il loro corso perché non c'era offesa di Dio. Se avessi voluto estirpare d'un colpo tutte quelle abitudini, avrei dovuto congedare i miei ragazzi e chiudere la casa, perché mai quei chierici si sarebbero adattati ad un simile tenore di vita. E poi, soffiava per l'aria un vento d'indipendenza che rendeva assai malagevole il comandare. Non dico nulla delle molteplici attrattive che potevano stornare da me verso il clero secolare più d'uno di quei giovani né delle sollecitazioni stringenti delle famiglie, desiderose di vedere quelle vocazioni stabilirsi di preferenza nella Diocesi. Con quale prudenza bisognava agire! Io procuravo che ci fosse la sufficienza, perché trovavo tanti pregi in quei bravi chierici; erano un po' inquieti, ma così lavoratori, così di buon umore, di moralità tanto soda! Io pensavo: spento questo primo fuoco di giovinezza, saranno collaboratori preziosi. E non m'ingannavo. I migliori Salesiani di oggi provengono da quelle prime squadre; ma se allora avessi voluto imporre qualche restrizione alla loro attività mi avrebbero lasciato solo. Se avessi preteso la perfezione non avrei fatto nulla o avrei fatto ben poco. L'Oratorio avrebbe cinquanta o cento alunni, non di più”.

Le direttive da proporre all'attività dei suoi primi figli erano nelle Regole della nuova Congregazione che, oltre ai voti, dovevano unire con forte vincolo i figli al Padre. Da gran tempo questi contava di redigerle; finalmente nel 1855 ne tracciò un primo abbozzo. Per compilarlo attinse a tre fonti: ebbe innanzitutto presenti le costituzioni di diversi Ordini antichi e moderni (Gesuiti, Rosminiani, Oblati di Maria Vergine, Redentoristi), domandò poi consiglio a molte persone competenti, ma specialmente fece ricorso alla sua esperienza. Le Regole salesiane, come dirà Pio IX, sono la trascrizione sulla carta di venti anni di attività concreta, niente altro che vita codificata. Il loro autore non è partito da considerazioni a priori, ma ha come condensato in articoli tutto ciò che la sapiente selezione dell'esperienza aveva lasciato passare. Nel 1857 la redazione delle Regole era terminata.

A quel tempo tutto sembrava maturo per tentare il passo decisivo: fondare ufficialmente una Congregazione religiosa.

Diverse voci autorevoli gli dicevano che era giunto il momento di realizzare quello che era stato il sogno di tutta la sua vita.

“Fondate dunque una Congregazione, mio caro Don Bosco”, gli consigliava Giuseppe Cafasso, suo confessore. «Fondate una Congregazione se volete stabilire la vostra Opera in maniera permanente”.

L'Arcivescovo di Torino non pensava diversamente e dal suo esilio di Lione gli suggeriva di andare a Roma a prendere consiglio da Pio IX sulla questione. Il teologo Borel, instancabile aiuto del Santo, era dello stesso parere. Tutti insistevano perché pensasse ad assicurare in modo definitivo il futuro della sua Opera. Don Bosco, però, sembrava ancora esitare; per

indurlo ad agire ci volle il consiglio inaspettato di colui che, come Ministro della Giustizia, aveva presentato le leggi per la soppressione degli Ordini religiosi non chiaramente dediti al servizio del prossimo. Urbano Rattazzi, come vedemmo, teneva Don Bosco in alta considerazione.

- Caro reverendo - gli disse un giorno del 1857 - io le auguro di vivere a lungo, molto a lungo per l'educazione e l'istruzione di tanti poveri giovani. Ma lei non è immortale. Che ne sarà della sua Opera quando lei non ci sarà più? Ci ha pensato?

E poiché Don Bosco guardava il Ministro senza rispondere:
- Lei dovrebbe - continuò Rattazzi - associarsi più intimamente alcuni dei giovani o dei

chierici che l'aiutano a Valdocco, comunicare loro il suo metodo e'il suo spirito e finalmente riunirli in una qualche Società che permetta di continuare la sua Opera.

- Eccellenza - rispose Don Bosco sorridendo - proprio lei mi parla di Congregazione, mentre la legge.

- Oh, la legge! La legge io la conosco benissimo e ne so la portata. Essa non vuole la manomorta né quei vecchi Ordini che, dal punto di vista dello Stato, sono solamente un peso per la comunità. Fondi una Società in cui ogni membro conservi i diritti civili, si sottometta alle leggi dello Stato, paghi personalmente le tasse, una Società che non sia che un'Associazione di cittadini liberi che vivono insieme con uno scopo di beneficenza e le garantisco che nessun Governo potrà disturbarla. Anzi, lo Stato le dovrà protezione come alle altre Società, siano esse commerciali, industriali o di mutuo soccorso. Si decida dunque tranquillamente. Lei avrà l'appoggio del Governo e del Re, poiché si tratta di un'opera umanitaria di prim'ordine.

- Signor Ministro, - rispose Don Bosco - già stavo pensando a qualcosa di simile ma dopo le sue parole mi metterò al lavoro con nuova energia!

E infatti la mattina del 18 febbraio 1858, accompagnato dal chierico Rua e munito di una lettera di presentazione dell'arcivescovo Fransoni, Don Bosco si metteva in viaggio per Roma, portando con sé il testo delle Regole della Congregazione.

Il 9 di marzo aveva la prima udienza, durante la quale Pio IX gli dimostrò una simpatia vivissima. Fece parlare l'apostolo di Torino di tutte le sue attività e stupì del loro grandioso sviluppo.

- Quante e feconde opere avete iniziate, mio caro Don Bosco! - esclamò il Papa. - Ma se voi moriste, come andranno a finire?

Queste parole toglievano d'imbarazzo Don Bosco, che difatti ne approfittò subito:

- Beatissimo Padre - rispose - sono a Roma soprattutto per parlare di questo argomento. Desidererei che Vostra Santità mi aiutasse a fondare una Congregazione adeguata ai tempi in cui viviamo.

E brevemente espose il suo progetto.

Il Papa, che l'aveva ascoltato con interesse, rispose senza esitazione: “Compilate dunque le Regole di questa Società e compilatele in questo spirito: non bisogna, da una parte, che un governo anticlericale possa molestare la vostra giovane Congregazione; d'altra parte non bisogna che siano solo promesse, ma voti, voti semplici, naturalmente, che tengano i membri uniti al loro Superiore.

Per essere sicuro dei vostri collaboratori, bisogna che poniate questo vincolo. Finalmente occorre che le Regole della Società (perché la chiamerei piuttosto Società che Congregazione) siano di facile osservanza; niente poi nell'abito deve distinguere i vostri religiosi dagli altri sacerdoti, niente nei loro esercizi di pietà deve additarli all'attenzione del mondo. Insomma, cercate di fare di ognuno dei vostri Salesiani un vero religioso nella Chiesa di Dio e un cittadino che possieda tutti i suoi diritti di fronte al mondo. Il problema non è facile da risolvere. Tuttavia studiatelo e venite poi a portarmi il frutto delle vostre riflessioni”.

Dodici giorni dopo, il 21 di marzo, ricevuto una seconda volta in udienza, Don Bosco consegnava nelle mani del Papa il manoscritto delle Regole modificate secondo le direttive ricevute. Quest'atto costituiva il primo passo per ottenere dalla Santa Sede l'approvazione definitiva della Società e delle sue Regole.

Prima di arrivare alla mèta il Santo dovrà compiere tanti altri passi,

sopportare tante fatiche, sostenere tante lotte, richiedere tanti appoggi, distruggere tanti pregiudizi. Tuttavia un passo, un grande passo, era stato fatto e Don Bosco poteva tornarsene a Torino soddisfatto di avere iniziato quel cammino che sarebbe continuato per sedici lunghi anni!

L'anno seguente il Santo passava dalla fase delle prove e delle parole a mezza voce a quella delle realizzazioni concrete.

Il 9 dicembre del 1859 uscì infatti dal riserbo e spiegò chiaramente il suo piano. Nella riunione della domenica sera, dichiarò non senza commozione ai suoi giovani uditori che era tempo di prendere posizione riguardo all'idea cara al suo cuore: la fondazione della Società Salesiana. Questa già esisteva, ma come in germe; molti di quelli che lo ascoltavano vi appartenevano in spirito, altri legati da promesse private; il Papa approvava e benediceva questa forma di vita nuova; un corpo di regole era già costituito, ma regole che tutti praticavano liberamente. Si trattava ora di sapere dai giovani se l'istituzione avrebbe potuto uscire dalla semi-clandestinità in cui fino a quel giorno era vissuta, se avrebbe preso un nome ufficialmente conosciuto, se avrebbe confessato apertamente il suo scopo e annoverato membri dichiarati.

“Vi lascio otto giorni per riflettere” disse Don Bosco terminando il suo discorso. “Chi non si presenterà alla nostra riunione di domenica prossima dichiarerà con questo che non intende entrare nella Società”.

La domenica seguente mancavano soltanto due chierici. Subito fu eletto il Consiglio della nuova Congregazione che, accanto a Don Bosco come Superiore generale, ebbe a prefetto Don Alasonatti, sacerdote della Diocesi unitosi a Don Bosco, come direttore spirituale il suddiacono Michele Rua, come economo il diacono Angelo Savio e come consiglieri i chierici Cagherò, Bonetti e Ghivarello.

Sei mesi dopo, nel giugno del 1860, probabilmente anche per sollecitare Roma all'esame delle sue Regole, Don Bosco chiese all'Arcivescovo il suo parere e le sue correzioni. La lettera che accompagnava le Regole per mons. Fransoni era firmata dai novizi della Società. Nell'adunanza di quella sera, dopo avere apposto le loro firme, quei giovani pronunciarono un giuramento solenne che esprimeva chiaramente il loro spirito e la loro fedeltà alla comunità cui appartenevano.

“Se per disgrazia”, giurarono tutti “data la tristezza dei tempi, ci sarà impedito di legarci con voti, ognuno di noi promette che in qualunque luogo si trovi, anche se i compagni saranno dispersi per

il mondo, anche se ne resteranno appena due, anche se rimarrà solo, lavorerà a ricostruire questa Società e ne osserverà le Regole per quanto gli sarà possibile”.

Don Bosco per due anni ancora si applicherà a formare quei giovani secondo il suo spirito: sentiva di lavorare sulle fondamenta della sua Congregazione e, volendo che l'edificio sfidasse le tempeste e gli anni, veniva squadrando lentamente, con amore e con cura, le pietre angolari.

Finalmente, il 14 maggio 1862, egli credette giunto il momento di legare al servizio di Dio e degli uomini i giovani ormai impazienti. Nella modesta cameretta, sede di tutte le riunioni settimanali, i primi ventidue Salesiani emisero voti pubblici che li legavano per tre anni al loro padre e fondatore.

Erano presenti, oltre a Don Bosco e Don Alasonatti, i chierici Cagliero, futuro primo vescovo salesiano, Rua che sarebbe stato il primo successore del Santo, Albera un giorno Superiore generale, Francesia, Cerutti, Bonetti, che avrebbero occupato cariche importanti in seno alla Società. Mentre Michele Rua leggeva ad alta voce la formula che tutti ripetevano frase per frase, Don Bosco, inginocchiato ai piedi del Crocifisso, si abbandonava a lacrime di gioia e di riconoscenza.

Quando le ultime parole della professione furono pronunciate, il Santo rivolse ai suoi figli parole commosse e profetiche: “Figli miei, viviamo in tempi molto torbidi e sembrerebbe

una follia fondare una nuova Società religiosa proprio in un momento in cui il male nulla risparmia per distruggere quelle che già esistono. Tuttavia noi non abbiamo la probabilità, ma la certezza che Dio benedice il nostro sforzo e vuole che questo continui. Che cosa non è stato già fatto per ostacolare il nostro disegno! Ma a che è servito? A nulla. Sarebbe già una ragione per affidarci fiduciosamente all'avvenire. Ma io ho altre ragioni ancora più solide. La principale è che noi cerchiamo soltanto la gloria del Signore e il bene delle anime. Chi sa che Egli non voglia servirsi di questa nostra umile Congregazione per compiere grandi cose nella Chiesa di Dio? Chi sa che di qui a venticinque o trent'anni il nostro piccolo gregge, benedetto dal Signore, non si spanda per la terra e non diventi una schiera di almeno mille Salesiani?”.

La profezia sarà più che confermata dagli eventi. Ogni anno l'adesione di nuovi membri verrà ad ingrossare, lentamente ma sicuramente, le file della compagnia. Nel gennaio 1863 i Salesiani erano 39;

61 nel gennaio 1864; 80 nel 1865; 90 nel gennaio 1866; 320 nel 1874, alla pubblicazione del Decreto di approvazione definitiva delle Regole; 768 alla morte di Don Bosco nel 1888; 3996 alla morte di Don Rua nel 1910; 23.015 con 1166 novizi nel 1969.

Ora non mancava che l'approvazione di Roma, approvazione che si faceva aspettare più del previsto. Così, per richiamare l'attenzione delle Commissioni pontificie incaricate di studiare le Costituzioni della nuova Società, Don Bosco inviò loro, nell'agosto 1863, un'altra copia manoscritta delle Regole. Gli fu risposto che per ottenere dalla Santa Sede la prima approvazione che desiderava, il cosiddetto Decreto di Lode, era necessario che la domanda fosse appoggiata da un certo numero di commendatizie di Vescovi e soprattutto dal Placet dell'Autorità diocesana. Don Bosco moltiplicò allora i suoi passi presso l'Episcopato del Piemonte e in uno spazio di tempo relativamente breve ottenne documenti di raccomandazione dai Vescovi di Acqui, Cuneo, Susa, Mondo vi e Casale e infine - benché non senza difficoltà - il Placet del Vicario capitolare di Torino che sostituiva Mons. Fransoni morto due anni prima. Il 12 febbraio 1864, appoggiate da questo incartamento, le Regole della Società ripartivano per Roma. Questa volta le cose procedettero più velocemente: sei mesi dopo, il 23 di luglio, la competente Congregazione romana emetteva il Decreto di Lode a favore della Società Salesiana. Non era ancora, certo, l'approvazione definitiva ma un'altra tappa obbligata era superata.

A Torino la gioia fu grande, ma l'atteso Decreto era accompagnato da un Memorandum della Commissione romana che segnalava in tredici articoli altrettanti ritocchi da apportare alle Regole.

Per nove di quelle correzioni, Don Bosco si piegò senza difficoltà; ma per le altre quattro giudicò che non avrebbe potuto cedere senza grave danno per la sua Società. Si trattava della facoltà per il Superiore generale di dispensare i suoi, senza ricorrere a Roma, dai voti triennali; della facoltà di concedere ai candidati agli Ordini le cosiddette lettere dimissionarie; della dispensa dal ricorrere alla Santa Sede per contrarre debiti o alienare beni e infine della possibilità di rivolgersi semplicemente al Vescovo del luogo, e non direttamente a Roma, per l'apertura di nuove case.

Di questi quattro articoli gli stava a cuore soprattutto il secondo, poiché avrebbe assicurato piena libertà d'azione al suo governo. Difatti, s'egli non poteva, sotto la sua personale responsabilità, presentare agli Ordini sacri i suoi religiosi a titolo di membri della Società Sale

siana, munendoli cioè di lettere dimissionarie, ciò voleva dire che essi restavano ancora sotto la giurisdizione dei propri Vescovi i quali potevano, secondo i bisogni della Diocesi, portarli via dalla Congregazione quando loro piacesse.

Inoltre, dopo il Decreto di lode dato da Roma alla Congregazione, molti Vescovi consideravano la Società Salesiana come una Congregazione definitivamente costituita; ma intanto, per le Ordinazioni, si trovavano perplessi dinanzi ai candidati che essa presentava.

Con quali garanzie ordinarli? Da una parte Don Bosco non poteva ancora presentarli sotto la sua responsabilità personale; dall'altra i Vescovi, non conoscendo quei chierici, la cui vita morale e intellettuale si svolgeva lontano da essi, non potevano in coscienza giudicarli degni dell'Ordine che chiedevano di ricevere.

In pratica si rimettevano quasi tutti a Don Bosco, il quale firmava un certificato attestante l'idoneità del soggetto; ma questo procedimento non era per nulla regolare e rischiava di avere conseguenze anche gravi. Sarebbe infatti bastato che le due autorità entrassero in contrasto e Don Bosco non avrebbe potuto far altro che accettare la volontà del Vescovo, qualunque essa fosse.

Qualche volta il caso si verificò e il prezzo pagato da Don Bosco fu troppo elevato. Per esempio, un anno l'Arcivescovo di Torino decise all'improvviso che tutti i chierici di Valdocco seguissero integralmente i corsi del Seminario diocesano, il cui orario non si accordava affatto con quello dell'Oratorio. Ne seguì un grave scompiglio nell'andamento della casa e una grave perdita di tempo per gli studenti, costretti a recarsi quattro volte al giorno da Valdocco al centro di Torino e viceversa. La cosa non poteva durare a lungo anche perché in quel trambusto, contesi com'erano tra la Diocesi e la Congregazione Salesiana, molti giovani finivano col perdersi. “L'anno scorso” scriveva Don Bosco a Pio IX nel 1868 “di dieci miei studenti di teologia che frequentavano i corsi del Seminario, neppure uno è rimasto nella Società”.

La prova era intollerabile e così, per molti anni, si vedrà Don Bosco adoperarsi perché fosse risparmiata ai suoi giovani ottenendo dalla Santa Sede la facoltà di rilasciare personalmente le famose dimissorie. Nel 1867 egli tornava per la seconda volta a Roma.

Tre ragioni ve lo avevano condotto: il problema dell'ordinazione dei suoi sacerdoti; una questione delicata da regolare tra il Governo italiano e il Vaticano, questione che esporremo in un capitolo seguente; la necessità, infine, di sollecitare aiuto per la costruzione della basilica

di Maria Ausiliatrice a Torino. Sugli ultimi due punti, le sue pratiche furono coronate da pieno successo ma sul primo punto riuscirono inutili, perché Don Bosco incontrò presso la Congregazione dei Vescovi e Regolari una decisa volontà di non concedere il privilegio richiesto. A quel tempo, si delineava a Roma una corrente molto forte che voleva estendere la giurisdizione dei Vescovi sulle Congregazioni Religiose. Inoltre, fra i temi proposti all'imminente Concilio Vaticano I, ve n'era uno che proponeva di riunire le Congregazioni, fondendo in una sola quelle che si ponevano fini se non identici almeno molto simili. L'atmosfera del momento non sembrava dunque la più propizia alla fondazione di una Comunità religiosa: Don Bosco se ne ritornò a casa rattristato anche se non scoraggiato e più che mai deciso a portare avanti l'impresa.

Intanto, la giovane Congregazione non solo aumentava in numero, ma cresceva anche in età e in sapienza presso Dio e presso gli uomini (Le. 2, 52). Nel 1862, Don Bosco aveva consacrato a Dio e legato alla Società con voti triennali i suoi primi discepoli; nel 1865, al termine di quest'ultima prova, avendo ricevuto da Roma il Decreto di Lode, si credette autorizzato a fare emettere la professione perpetua ai suoi figli migliori. Il 10 novembre pronunciò i primi voti perpetui Don Lemoyne, il futuro biografo del Fondatore; il 15 fu la volta di Don Rua, Don Cagliero, Don Francesia, Don Bonetti, Don Ghivarello e di due coadiutori, Gaia e Rossi; il 6 di dicembre toccò ad un ultimo gruppo di cui facevano parte chierici e laici. Sembrava dunque che il vento spirasse favorevole all'ancor fragile barca di Don Bosco e invece una nuova, grave tempesta stava preparandosi.

A Roma, prima di lasciare la città, gli era stato detto: «Presto avrete un nuovo Arcivescovo; sarà Mons. Riccardi di Netro, l'attuale Vescovo di Savona. Cercate di propiziarvelo per la questione delle dimissorie; servirà a facilitare tante cose!”.

Mons. Riccardi di Netro, torinese di nascita, era amico di Don Bosco. Di passaggio a Roma durante l'ultimo soggiorno del Santo, era stato a trovarlo e gli aveva parlato della sua intenzione di affidargli i Seminari Minori di Giaveno e di Bra e il Seminario di Chieri. Pertanto, il Santo era tornato a Torino convinto che il nuovo Arcivescovo sarebbe stato per la sua Società un protettore e un padre; una seconda e cordiale visita che Mons. Riccardi di Netro

volle fare all'Oratorio di Valdocco lo confermò nella sua persuasione. Quel giorno Don Bosco non era in casa e il mattino dopo si fece premura di ricambiare la visita

per ringraziare del gesto cortese. Durante la conversazione, l'uomo di Dio chiese per la sua Società l'appoggio del prelato, che non aveva ancora preso possesso dell'Arcidiocesi e per la lunga assenza non ne conosceva bene la situazione.

- Come, Don Bosco! - esclamò Mons. Riccardi sorpreso - Lei ha fondato una Congregazione religiosa?

- Sì, Monsignore.
Si mise a raccontare tutte le difficoltà incontrate per portare avanti l'impresa, ma

l'Arcivescovo l'ascoltava distratto, quasi ostile. Aveva contato su Don Bosco per esserne aiutato a vantaggio della Diocesi ed ecco che ora gli veniva a parlare di una Società destinata ad una larga diffusione in Italia e forse nel mondo e a pregarlo per giunta di aiutarlo ad esimerla dalla dipendenza dal Vescovo!

I due si lasciarono con parole distaccate che mal nascondevano la freddezza che d'ora innanzi avrebbe contraddistinto i loro rapporti. Un giorno del settembre del 1867, Don Bosco ricevette dall'Arcivescovo un biglietto col quale gli si proibiva di impiegare al servizio della. sua Società i chierici originari della Diocesi di Torino e lo si avvisava che per l'avvenire Mons. Riccardi di Netro non avrebbe conferito gli Ordini se non agli studenti che vivessero nel Seminario Maggiore. Era una disposizione che, se applicata, avrebbe potuto essere mortale per la giovane Congregazione! Lo disse egli stesso all'Arcivescovo:

- Monsignore, in questo modo ella vuole la fine della mia Opera! I miei chierici in Seminario! I miei sacerdoti novelli al Convitto Ecclesiastico! Ma allora chi mi resterà per occuparsi dei miei ragazzi? Resterò solo e senza aiuti.

- Mio caro Don Bosco, è l'interesse stesso degli studi dei giovani che m'impone questa misura. Del resto, si tratta di una piccola questione.

Una piccola questione, quella, che doveva durare anni ed anni e trascinarsi da un Pontificato all'altro trafiggendo amaramente il cuore di Don Bosco prima di giungere a una soluzione positiva.

Tre mesi dopo quel colloquio, il problema si faceva immediato per l'imminente ordinazione d'un giovane salesiano originario della Diocesi torinese, il chierico Albera. Questa volta Don Bosco incaricò Don Cagliero di presentarsi a Mons. Riccardi nel tentativo di ottenere maggiore comprensione.

- Questa ordinazione è impossibile - dichiarò subito Mons. Riccardi di Netro.

- Ma perché, Monsignore?
- Perché il chierico Albera appartiene alla mia Diocesi.
- Ma appartiene anche alla Società Salesiana!
- Quale Società Salesiana? Io la ignoro totalmente! So soltanto che Albera è di None e

che None è nel territorio dell'Arcidiocesi di Torino.
- Ma ella, Monsignore, sa bene che Roma ha lodato, fin dal 1864, l'esistenza di questa

Congregazione con un Decreto che si conserva nell'Archivio dell'Arcivescovado.
- E allora, secondo lei, che cosa dovrei fare?
- Osservare se l'operato di Don Bosco e dei suoi è positivo. In questo caso potrà

incoraggiarlo. In caso contrario, prenderà i provvedimenti opportuni.
- Io voglio i miei chierici in Seminario!
- Così ella decreta la fine della nostra Opera!
- Ma no, ma no, Don Cagliero! Non tutti i vostri chierici sono di Torino.
- Ma Monsignore, come vuole che gli altri Vescovi del Piemonte non imitino il

Metropolita quando sapranno del suo atteggiamento?
Il disaccordo tra due poteri che, per il bene di tutti, avrebbero dovuto procedere in

armonia, aveva in Valdocco pesanti conseguenze.
Alcuni chierici, consigliati da parenti, amici e sacerdoti, finirono con l'entrare nel

Seminario diocesano; gli altri restarono con Don Bosco ma con sentimenti di inquietudine facili da comprendere. Davvero, il Santo sembrava molto mal ripagato di quanto aveva fatto nel 1850, allorché aveva raccolto sotto il suo tetto i chierici di Torino, sbandati e senza più né scuola né maestri dopo la chiusura d'autorità del Seminario Maggiore di Torino!

Mentre a Torino si diffidava dello “spirito d'indipendenza” di Valdocco, a Roma si guardava con un certo sospetto alle “novità” dell'Opera. Don Bosco aveva mandato alla Congregazione dei Vescovi e Regolari numerose raccomandazioni e attestati, tra cui quelli dei Cardinali Arcivescovi di Pisa, Ancona e Fermo; degli Arcivescovi di Lucca e di Genova; dei Vescovi di Alessandria, Novara, Susa, Mondovì, Saluzzo, Albenga, Guastalla, Reggio Emilia, Asti, Parma, Alba, Aosta. Malgrado ciò, il Segretario generale della Congregazione, Mons. Svegliati, pensava che la Santa Sede dovesse differire ancora l'approvazione: troppo pochi i Religiosi, Regole troppo semplici e sommarie, un voto di povertà apparentemente impossibile da con

ciliare con la conservazione del diritto di possedere, studi affrettati, l'ostinazione di quel Don Bosco che accettava solo nove delle tredici correzioni suggerite dalla Congregazione. L'ottimo Segretario generale trovava cento buone ragioni per motivare il suo parere contrario. Il giudizio negativo fu condiviso dagli altri responsabili della Congregazione e fu notificato a Don Bosco in una lettera datata 2 ottobre 1868. Il Santo allora capì che, se non si fosse recato nuovamente in Vaticano per rivolgersi direttamente a Pio IX, la questione dell'approvazione si sarebbe trascinata per un numero indefinito di anni. L'8 di gennaio del 1869 ripartì quindi per Roma, solo, portando con sé ancora una volta il libro delle Regole leggermente ritoccate. Da tutte le parti gli sconsigliavano questo passo: “Andiamo, Don Bosco! Non c'è niente da fare per lei adesso a Roma. Gli umori laggiù non le sono certo favorevoli e sa bene quali relazioni su di lei, sulla sua Società e la sua Congregazione l'hanno preceduta da Torino. Il tempo è una gran medicina, Don Bosco».

L'uomo di Dio non diede ascolto a questi discorsi che gli sapevano di prudenza troppo umana; una forza interiore lo spingeva a partire. Gli uomini e gli eventi sembravano congiurare contro di lui, eppure egli confidava in Maria Ausiliatrice a gloria della quale aveva appena innalzato un tempio grandioso e molto anche in Pio IX, la cui benevolenza non gli era mai venuta meno.

La sua fiducia non l'ingannò.

Appena giunto a Roma, si mise in giro ma i primi contatti gli confermarono i timori degli amici di Torino.

“Quando ebbi esplorato il terreno - scrisse - constatai che pochissimi prelati si mostravano favorevoli ai miei progetti. In quasi tutti c'era perplessità o perlomeno freddezza nei riguardi dell'Opera. Sentii soprattutto che avevo contro di me i più alti personaggi della Chiesa”.

Che fare? Per mutare quelle volontà contrarie, gli restava un mezzo soltanto: pregare Dio che, se la sua causa fosse giusta, intervenisse ad aiutarlo.

E ben presto la situazione andò cambiando a suo favore, grazie a una serie di spettacolari “colpi di scena”.

Uno dei più intransigenti avversari dell'Opera di Valdocco, il Cardinal Berardi, aveva un nipote di undici anni ridotto in quei giorni agli estremi da febbri tifoidee.

Era figlio unico e la disperazione dei genitori grande. Pregato dallo zio e supplicato dal padre dell'ammalato di recarsi a visitare il fanciullo,

Don Bosco pareva avesse dimenticato l'invito, quando una sera si presentò improvvisamente alla casa del piccolo infermo. Fu accolto con gioia da tutta la famiglia e subito condotto al capezzale del moribondo.

- Don Bosco, preghi anche lei per il nostro figliolo! - supplicavano il papà e la mamma. - Confidiamo in Maria Ausiliatrice e incominciamo insieme una Novena in suo onore!

Subito, seguito dagli altri, recitò le prime preghiere della Novena e dopo avere benedetto il fanciullo uscì. Aveva da poco lasciato il palazzo, quando le febbri che travagliavano il piccolo malato sparirono completamente e all'improvviso.

Tre giorni dopo il Santo ripassava da casa Berardi, dove il fanciullo, seduto sul letto, parlava e giocava tutto contento: il pericolo era ampiamente scongiurato, la convalescenza ormai iniziata. I genitori non sapevano come testimoniare la loro gratitudine e il buon Cardinal Berardi si profondeva in ringraziamenti.

- Che posso fare per lei, Don Bosco? Desidererei tanto esserle utile per mostrarle la nostra riconoscenza per questa grazia che ci ha ottenuta dal Cielo!

- Eminenza, una solo cosa le chiedo: spendere la sua autorevole parola presso il Santo Padre per l'approvazione della Congregazione Salesiana.

- Lei può contare sul mio pieno appoggio! - promise il Cardinale. E mantenne la parola. Disarmata un'ostilità, molte altre ne restavano negli ambienti di Curia. «Se arrivo a convincere il Cardinale Segretario di Stato» pensava Don Bosco “la sua influenza potrà molto

per mandare avanti la questione”.
Difatti si recò subito dal Cardinale Antonelli che trovò immobilizzato da un attacco di

gotta.
- Eminenza, ero venuto a chiederle il suo appoggio per ottenere finalmente

l'approvazione della mia Società.
- Ma, mio caro Don Bosco, vede in che stato mi trovo; mi è impossibile lasciare la

camera.
- Eppure, mi permetta d'insistere, Eminenza. E vedrà che starà meglio. - Che potrei fare, Don Bosco?
- Parlare in nostro favore al Santo Padre.
- Molto volentieri, non appena potrò muovermi.

- Confidi in Maria Ausiliatrice, Eminenza, e presto riprenderà le sue attività; ma mi prometta di pensare alla povera Congregazione Salesiana!

- Va bene, va bene, Don Bosco. Appena potrò muovermi, andrò dal Papa.
- Allora domani, Eminenza?
- Domani? Ma le pare possibile?
- Certo! Confidi in Maria Ausiliatrice, le dico, e domani sarà dal Santo Padre.

Difatti l'indomani mattina, il Cardinale Antonelli si sentiva molto, ma molto meglio: i dolori erano passati, poteva camminare, la crisi pareva scongiurata. Non occorre dire che non ebbe nulla di più urgente che recarsi a raccontare a Pio IX la sua rapida guarigione e il prezzo al quale l'aveva acquistata.

Impressionato da quei due fatti prodigiosi, alcuni giorni dopo il buon Papa convocava Don Bosco e si tratteneva un'ora e mezzo a parlare con lui del problema che l'aveva condotto a Roma. Al termine gli promise il suo più saldo appoggio e l'assicurò che tutto si sarebbe accomodato come desiderava.

“Voi, però” concluse il Papa “dovreste tirare dalla vostra Monsignor Svegliati che è il critico più irriducibile della vostra Opera. Convincetelo e la partita sarà vinta”.

Poche ore dopo, Don Bosco era nell'anticamera del Segretario generale della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Introdotto da Mons. Svegliati, lo trovò disteso sopra un divano, tormentato da un'influenza maligna.

- Capito molto male! - disse Don Bosco a quella vista. - Ero venuto, Monsignore, a pregarla di aiutarmi ad appianare le difficoltà che sono sorte circa l'approvazione della Società Salesiana.

- Non è cosa tanto facile superare tutte quelle difficoltà! Del resto, vede in che stato sono ridotto, non ho forze neppure per pensare.

- Eppure, Monsignore, ho tanto bisogno che ella vada a trovare il Santo Padre!
- Ma come vuole che faccia?
- Come? Ecco, glielo dico io: raccomandi la sua salute a Maria Ausiliatrice, e vedrà che

la Madonna la guarirà presto. - A dirlo ci vuol poco!

- Provi, Monsignore e vedrà! Abbia fede in Maria Ausiliatrice.

- Ah, Don Bosco, se domani, contro ogni previsione, potrò presentarmi in udienza dal Santo Padre, le assicuro che parlerò in suo favore.

L'indomani mattina la terribile tosse che scuoteva Monsignor Svegliati era scomparsa assieme alla febbre. E, dopo l'udienza dal Papa, il Segretario generale della Congregazione recatosi premurosamente a far visita a Don Bosco, non mancò di promettergli un pieno appoggio il giorno in cui si fosse discussa la questione.

La riunione decisiva ebbe luogo il 19 di febbraio. Quel giorno a Torino, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, tutti i ragazzi di Don Bosco si alternarono davanti al SS. Sacramento esposto, pregando per ottenere la grazia desiderata.

La Congregazione dei Vescovi e Regolari, esaminata un'ultima volta la causa, concluse secondo i desideri dei Salesiani e in data 1° marzo 1869 il Prefetto emetteva un Decreto che approvava la Società e concedeva per dieci anni al capo di essa la facoltà di fare ordinare, con il solito titolo della Congregazione, i giovani entrati prima dell'età di quattordici anni. L'approvazione definitiva delle Regole era rimandata ad altro tempo.

Appena ottenuto il documento, frutto di fatiche e miracoli, Don Bosco ripartì per Torino, dove giunse la sera del 5 marzo; non era ancora la fine di tante lotte ma era certo l'alba della vittoria. Se tutti gli amici di Don Bosco esultavano con lui, nessuno era più felice del buon Don Borel. Questi era a letto, colpito da un male inesorabile, ma quando seppe del ritorno dell'amico da Roma non si tenne più; ad onta dei consigli di tutti, volle alzarsi e vestirsi per andare ad abbracciarlo. Appoggiandosi con una mano al bastone e con l'altra ai muri di via Cottolengo, si trascinò febbricitante sino all'Oratorio e vi giunse proprio mentre Don Bosco stava per salire in camera.

- Oh, Don Bosco! - gridò vacillante sulle ginocchia malate.
- Caro Don Borel, che bellezza che sia venuto a trovarmi, quanta bontà!
- È approvata la Congregazione?
- Sì, Don Borel, è approvata!
- Deo gratias! Ora muoio contento! - esclamò con voce rotta da un singhiozzo e

facendo fronte indietro ritornò a casa piangendo di gioia.
Per trent'anni Don Borel era stato accanto a Don Bosco, condividendo con lui gioie e

pene. I Salesiani non dimenticarono mai l'umile prete che, nella buona come nella cattiva sorte, stette fedele accanto al loro Padre, dando il più prezioso degli aiuti alla nascente Congregazione.

Con l'approvazione ufficiale della Società e la facoltà limitata di dare le dimissorie, Don Bosco non era certo al termine del suo doloroso travaglio. Gli rimaneva da ottenere l'approvazione definitiva delle Costituzioni e la facoltà illimitata di rilasciare le famose lettere. Più di quaranta tra Cardinali, Arcivescovi e Vescovi avevano attestato a Roma che la Congregazione Salesiana sembrava loro poggiare su solide basi, ma colui la cui testimonianza doveva pesare di più, il nuovo Arcivescovo di Torino, Mons. Gastaldi, già Vescovo di Saluzzo, non deponeva la sua diffidenza nei riguardi di Don Bosco e della sua Opera, manifestando la propria avversione con misure spiacevoli, nelle quali i diritti di Valdocco erano apertamente misconosciuti. Le vecchie accuse contro la nascente Società, cento volte ripetute e cento volte confutate, si rimettevano in campo.

«Da Don Bosco, - si diceva - regna il disordine; gli studi dei chierici sono più che sommari; i professori di teologia non possiedono la scienza necessaria; il noviziato praticamente non esiste; le pratiche di pietà si riducono a ben poco; la formazione ascetica dei giovani Salesiani è incompleta; i chierici, dovendo pensare ai propri studi, all'ufficio di educatori e agli esercizi del noviziato, finiscono col non fare nulla bene”.

Avanzati com'erano dal Vescovo locale, questi giudizi non potevano non impressionare sfavorevolmente i giudici romani.

Per dissipare anche questi sospetti, Don Bosco affrontò altri due viaggi a Roma, nel 1871 e nel 1873; come voleva la Congregazione dei Vescovi e Regolari fece aggiunte e soppressioni alle sue Regole. Infine, ai primi del 1874, fece stampare a Roma un opuscolo

che in venti pagine rispondeva alle più gravi obiezioni mosse alla sua famiglia ed esponeva le ragioni per le quali insisteva nel chiedere l'approvazione definitiva delle Regole e la facoltà illimitata di rilasciare le dimissorie. L'opuscolo fu distribuito ai Cardinali di Curia e a tutti i membri influenti delle Congregazioni romane.

Nell'udienza di congedo che aveva avuto nel 1869, Pio IX gli aveva detto: “Un passo per volta, Don Bosco, un passo per volta! Chi va piano, va sano. Quando una cosa è buona, la Santa Sede è abituata ad aggiungere, non a togliere!”.

Don Bosco ricordava bene queste parole e ancora una volta sperava nella benevolenza del Papa che avrebbe potuto dare alla sua causa, al momento opportuno, la spinta decisiva.

Una circolare inviata da Roma il 16 marzo 1874, chiedeva a tutti i Salesiani e ai ragazzi degli Oratori tre giorni di speciale preghiera

dal 21 al 23 marzo. Questo triduo di preghiere, egli lo chiese ancora a tutti per i giorni dal 26 al 28 dello stesso mese. La prima adunanza dei quattro Cardinali chiamati a pronunciarsi sull'approvazione definitiva delle Regole fu tenuta il 29 e parve favorevole; la seconda ed ultima ebbe luogo il 31 e durò tre ore e mezzo. Tre soli Cardinali votarono per l'approvazione definitiva mentre tutti e quattro si trovarono d'accordo per l'approvazione temporanea ad experimentum. Il 3 aprile, che in quell'anno era il Venerdì Santo, Mons. Vitelleschi, Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari, ne riferì al Papa. Quando Pio IX ebbe ascoltato la lettura del verbale dell'adunanza, esclamò: «Allora manca un voto per l'approvazione definitiva! Va bene, ce lo metto io!”.

La sera dello stesso giorno Don Bosco, impaziente di conoscere il risultato finale della questione, si trovava al palazzo della Congregazione. Il Segretario era tornato da poco:

- Allegro, Don Bosco! - gli gridò da lontano appena lo vide. - Le sue Regole sono approvate in modo definitivo e lei avrà la facoltà di rilasciare senza condizioni le dimissorie!

Don Bosco, uomo di spirito in ogni circostanza, per tutta risposta prese dalla tasca una caramella e offrendola a Mons. Vitelleschi:

Prenda, Monsignore! Se l'è meritata.

Quell'approvazione giungeva dopo sedici anni di lotte, di angosce, di fatiche, di intime sofferenze: la figlia diletta di Don Bosco, la Congregazione Salesiana, trionfante degli ultimi ostacoli, poteva finalmente avanzare da sola. Ormai l'Opera era fondata su basi sicure che ne garantivano la continuazione.

Un giorno, quasi al termine della sua vita, Don Bosco si lasciò sfuggire una frase rivelatrice del travaglio di quegli anni: “Se, sapendo quello che so ora, dovessi ricominciare tutto il lavoro impostomi dalla fondazione della Società e sostenere tutte le fatiche che essa mi è costata, non so proprio se ne avrei il coraggio!”.

Due anni prima, all'inizio del 1872, egli aveva gettato le basi di una Congregazione femminile per l'educazione delle fanciulle, in particolare di quelle appartenenti alle classi più povere ed abbandonate.

A spingerlo a questa nuova fondazione erano stati i consigli di molti amici, tra cui alcuni Vescovi, che avrebbero desiderato a favore delle ragazze quell'opera di educazione che si era rivelata tanto proficua per i giovani.

È a partire dal 1866 che Don Bosco comincia a manifestare a Don Cagliero e a Don Lemoyne il suo desiderio di fondare una Società femminile di voti semplici con lo scopo di accogliere ed istruire le figlie del popolo. Nel 1870 egli espresse nuovamente il medesimo pensiero ad un altro dei suoi primi figli, Don Francesia. Nel 1871, in occasione del suo quarto viaggio a Roma, chiese il parere di Pio IX che subito accolse favorevolmente il progetto:

“Mi pare», disse il Papa, «mi pare che il vostro disegno sia ottimo; queste future religiose potrebbero essere come il riscontro femminile dei Salesiani. Esse faranno per le giovani quello che i Salesiani fanno per i giovani; e quanto allo spirito, staranno sotto la dipendenza vostra e dei vostri successori, come le suore di San Vincenzo de' Paoli stanno

sotto la dipendenza dei Lazzaristi”.
La volontà di Dio sembrava dunque chiara; non c'era che da aspettare il momento più

propizio per mettersi al lavoro.
Nel 1861, dunque dieci anni prima del colloquio con il Papa, ritornando da Acqui a

Torino in treno, in un carrozzone di terza classe Don Bosco aveva conosciuto un sacerdote di Mornese, un piccolo comune dell'Alessandrino. Quel prete si chiamava Don Domenico Pestarino ed era animato da un vivo desiderio di apostolato. Nella sua parrocchia era sorta nel 1856 un'associazione di signorine che aveva preso il nome di Pia Unione delle Figlie di Maria Immacolata. Questa aveva lo scopo di raccogliere in un medesimo spirito e sotto la stessa regola, a servizio delle opere parrocchiali, quelle giovani che pur non desiderando sposarsi non intendevano neppure entrare in convento. Erano insomma, come esse stesse dicevano, delle monache nel mondo.

Da quella piccola comunità di giovani devote si distaccò un gruppetto nei 1861. Una sera di quell'anno Maria Mazzarello, una ragazza di Mornese di ventiquattro anni, si recava alla chiesa in cui il parroco radunava le giovani per il rosario e la lettura spirituale. Maria, che in quei mesi era stata ridotta agli estremi dal tifo contratto nell'assistere un infermo, nei giorni d'immobilità aveva formulato nella sua mente un nuovo programma di carità. Ne parlò per la prima volta a una coetanea, incontrata quella sera sulla porta della chiesa.

- Io non posso più lavorare in campagna, dopo la mia malattia - disse Maria all'amica. - Quanto a te, tu sei libera. Se credi, potremmo farci insegnare dal sarto il suo mestiere: questo potrebbe servirci un giorno per fare del bene alle ragazze. Insegneremo loro a lavorare oltre che a pregare!

L'amica fu subito entusiasta del progetto.

- Allora - soggiunse Maria - entriamo in chiesa a pregare il Signore che ci illumini e ci aiuti, perché ogni nostra attività sia un atto d'amore!

L'indomani Maria e l'amica cominciavano il tirocinio presso il sarto del villaggio e alla fine dell'anno erano già in grado di lavorare per conto proprio. Altre amiche vennero pian piano ad unirsi a loro. Ricevevano anche bambini in custodia e fanciulli da istruire. Ben presto, cominciarono a prendere i pasti assieme, a pregare assieme, a vivere insomma in comunità, in una casa vicinissima alla chiesa, già costruita da Don Pestarino con l'intenzione di cederla un giorno alle Figlie di Maria Immacolata per tenervi le adunanze.

Erano sette le giovani raccolte attorno a Maria Mazzarello, dai quattordici ai venticinque anni di età. Sarebbero rimaste tutte meravigliate e forse confuse, umili e semplici com'erano, se qualcuno avesse detto loro che da quella povera comunità si sarebbe sviluppata una Congregazione destinata a spargersi nel mondo con migliaia di religiose.

Don Bosco, intanto, continuava a maturare lentamente la sua idea, stando in continua relazione con l'associazione di Mornese, sulla quale aveva già formato i suoi progetti; varie volte, tra il 1864 e il 1870, recatosi in quelle zone per altri motivi di apostolato, aveva visitato le giovani il cui numero era ormai salito a quindici.

Nel 1871 si decise all'improvviso e, riunito il Capitolo salesiano per una comunicazione urgente, «Da molto tempo», disse ai suoi figli adunati, «da mólto tempo persone autorevoli mi consigliano di cominciare per le giovani quello che, con l'aiuto del Signore, stiamo già facendo per i giovani. Se volessi seguire soltanto la mia inclinazione, vi confesso che non mi lancerei in questo campo, ma le istanze altrui si fanno così incalzanti che crederei di sottrarmi ai disegni della Provvidenza se non le prendessi in considerazione. Riflettiamo dunque dinanzi al Signore su questa impresa: domandiamoci che cosa richiedono la sua gloria e il bene delle anime. In questo mese tutte le nostre preghiere, private o pubbliche, non abbiano altro fine che di ottenere dal Cielo i lumi necessari”.

Un mese dopo il Capitolo, nuovamente riunito, deliberò all'unanimità di procedere a una nuova fondazione che, parallelamente alla prima, apportasse alla gioventù femminile i benefici della educazione salesiana.

A causa di una grave malattia che alla fine di dicembre dello stesso

anno immobilizzò per qualche tempo Don Bosco, l'attuazione del progetto subì un ritardo. Ma appena scampato al pericolo, il Santo chiamò a Varazze, al suo capezzale, Don Pestarino e lo pregò di far procedere all'elezione della Superiora e del Capitolo della piccola comunità di Mornese. Quest'incontro aveva luogo il 6 gennaio 1872, festa dell'Epifania; il 29, festa di San Francesco di Sales, le future suore, che raggiungevano già il numero di ventisette, si riunirono per la votazione; al primo scrutinio fu eletta con ventun voti Maria Mazzarello. Non restava che dare a quelle giovani l'abito delle religiose e un nome alla loro famiglia.

Il 5 agosto, festa della Madonna della Neve, dopo otto giorni di ritiro, il Vescovo di Alessandria impose in presenza di Don Bosco l'abito alle nuove monache. Quattordici ragazze presero l'abito, undici delle quali pronunciarono i voti triennali. Maria Mazzarello aveva allora trentacinque anni. Alla piccola Congregazione che nasceva quel giorno, il Santo diede il nome che da gran tempo le riservava in segreto:

«Vi chiamerete Figlie di Maria Ausiliatrice», disse alle suore novelle.

Nel suo pensiero, questo nome doveva testimoniare la gratitudine verso Maria, Aiuto dei Cristiani, che aveva colmato di benedizioni la sua Opera, le sue fatiche, i suoi figli. Poco dopo, nello stabilire le religiose in una nuova casa, all'estremità del paese, Don Bosco diceva loro: «Avrete delle fanciulle, ne avrete tante da non sapere neppure dove ospitarle! Ora siete poche e tanto povere! Ma coraggio, mantenetevi fedeli alla Regola che vi ho tracciata e vedrete crescere prodigiosamente il vostro numero. Per mezzo vostro la SS. Vergine vuol venire in aiuto alle figlie del popolo”.

Restarono a Mornese nove anni, il tempo per soffrire molto* e per aumentare in modo considerevole il loro numero: in poco tempo la comunità contò settanta suore. Le domande di fondazioni giungevano numerose e le giovani cominciarono a sciamare a Torino, a Chieri, a Biella. Nel 1874, per ordine del Santo, la Casa Madre si trasferì da Mornese a Nizza Monferrato. Quella cittadina, nota sino ad allora quasi soltanto per la qualità dei suoi vini, fu letteralmente trasformata dalla invasione del pacifico esercito. Accanto all'antico convento dei Cappuccini, riscattato dalle suore, sorse tutta una serie di opere dalla vitalità sorprendente: scuole elementari, oratorio festivo, istituto magistrale, noviziato.

La meravigliosa fecondità non si limitava alla città sede della Casa Madre, ma si riversava al di là. Abbiamo già veduto queste umili religiose aprire opere a Torino, Biella, Chieri, ma il loro desiderio di

espansione accarezzava sogni ben più vasti e ben presto non ci fu quasi angolo d'Italia che non vedesse al lavoro le Figlie di Maria Ausiliatrice.

Per aiutare e per moltiplicare, in certo modo, quelle due schiere di educatori, Don Bosco completerà la sua famiglia religiosa creando, con l'Unione dei Cooperatori Salesiani, una istituzione davvero rivoluzionaria per i tempi.

Egli sentiva fortemente che ormai era giunta l'ora di organizzare in modo nuovo l'apostolato dei laici.

Quando si era trovato attorno centinaia di giovani bisognosi di tutto, sopraffatto dal lavoro aveva invocato aiuto. Generosi sacerdoti di Torino accorsero, ma l'aiuto era pur sempre insufficiente: l'Opera stava infatti prendendo dimensioni inaspettate. Si rivolse allora ai laici, ai cattolici della città. “Perché” disse loro “perché non mettere un po' del vostro tempo, della vostra esperienza, delle vostre molteplici capacità, del vostro denaro, al servizio del Signore che soffre in questi piccoli infelici?».

L'appello fu raccolto e da ogni classe della società torinese vennero collaboratori che accettarono di tenere il Catechismo agli ormai famosi birichini di Valdocco.

Quei laici generosi si prestavano anche ad altri lavori urgenti: insegnamento nelle scuole serali, assistenza in cappella, preparazione alla prima Comunione, ricerca di lavoro per i disoccupati, visita ai giovani operai nelle fabbriche, assistenza in ricreazione.

Presto si unirono anche le madri, le mogli, le sorelle di quei volenterosi, collaborando al medesimo compito nel modo più semplice e pratico ma anche più utile. Infatti, molti dei ragazzi non riuscivano a trovare lavoro perché da tutta la persona rivelavano la loro miseria.

Ciò che avrebbe dovuto farli accogliere li faceva invece purtroppo respingere: biancheria sudicia, vestiti a brandelli, scarpe scalcagnate, capigliatura arruffata e spesso infestata da parassiti. Le donne, allora, riunite in casa di Don Bosco si misero a fare camicie, a rattoppare calzoni, a riparare, smacchiare, ingrandire abiti o a farne di nuovi, a insegnare infine l'arte di lavarsi e pettinarsi a quei ragazzi che, così trasformati e quasi irriconoscibili, riuscivano più facilmente a trovare un padrone benevolo.

La collaborazione di quei buoni cristiani aveva permesso a Don Bosco di sviluppare in modo insperato la sua Opera, ma egli andava cercando il modo di esprimere in forma concreta e “giuridica” la sua gratitudine.

Infatti, quando nel 1864 tornò da Pio IX con il testo delle Regole, un capitolo tutto speciale (il sedicesimo) era consacrato ai suoi collaboratori laici.

Egli li incorporava senz'altro alla Congregazione Salesiana di cui avrebbero costituito i membri esterni, i “Salesiani nel mondo”.

Il testo che il Santo aveva dedicato ai nuovi membri della Comunità era di straordinaria novità per quella seconda metà dell'Ottocento. Diceva infatti quel famoso sedicesimo capitolo:

1. Qualunque persona, anche vivendo nella propria casa, in seno alla propria famiglia, può appartenere alla Società Salesiana.-

2. Egli non farà alcun voto, ma procurerà di mettere in pratica quella parte del regolamento che è compatibile con la sua età, stato e condizione.

3. Per partecipare ai beni spirituali della Società, il socio farà almeno una promessa al Rettore d'impegnarsi in quelle cose che giudicherà tornare a maggior gloria di Dio.

Come si vede, si trattava di un modo nuovo di intendere la “vita religiosa”: cristiani nel mondo e nello stesso tempo religiosi nel senso reale della parola, in quanto vincolati con una promessa formale ad una Congregazione approvata dal Papa, confratelli in senso pieno dei Salesiani sacerdoti.

Purtroppo, come vedemmo, Roma chiese tredici correzioni al testo presentato da Don Bosco e tra quelle tredici modifiche c'era anche la soppressione del capitolo XVI, quello intitolato De externis nell'originale latino e dedicato ai cooperatori. La ragione addotta era l'anticlericalismo dei tempi che, stando a Roma, sarebbe divenuto ancor più virulento qualora si fosse creata quella nuova organizzazione di cattolici.

L'insuccesso del progetto addolorò molto il Santo che non si diede però per vinto. Questa idea dell'unione compatta del laicato attorno ai religiosi e alla gerarchia era divenuta quasi la sua “idea fissa”.

“Che c'è di più debole di un filo di spago?” diceva spesso a coloro che lo attorniavano. “Ebbene, provate a moltiplicarlo per tre e non lo romperete più!”. Le forze del male, ripeteva, non si arresteranno che davanti a forze eguali, decise, audaci, raggruppate attorno a un preciso programma di apostolato cristiano.

E allora, ancora una volta, tornò alla carica: costante dei Santi è proprio il non scoraggiarsi mai, soprattutto quando li sorregge la cer

tezza che la loro idea è ispirata da Dio. Si pose pertanto al lavoro per ricostituire i quadri della sua schiera di collaboratori da indirizzare verso il settore allora più esposto: l'educazione della gioventù povera.

Fu tra il 1873 e il 1875 che venne rielaborando in forma definitiva un altro progetto di mobilitazione dei laici. Da uomo prudente qual era, volle tuttavia consigliarsi ancora una volta con persone fidate. L'occasione propizia giunse durante una riunione a Lanzo di tutti i suoi

collaboratori, tra cui i direttori delle case salesiane. Dopo che ebbe esposto il suo piano e sollecitato i pareri dei presenti, tutti manifestarono la loro perplessità.

- No, Don Bosco, è meglio lasciar perdere! Associazioni religiose? Confraternite? Nessuno ne vuole più sentir parlare, nemmeno gli stessi buoni cattolici. Solo una parte del clero, e proprio quello meno aggiornato, le difende ancora. Ed è giusto, perché le esigenze dei tempi sono cambiate: occorrono strumenti nuovi di apostolato, soprattutto in questi tempi in cui la violenza anticlericale è scatenata. Se realizzassimo il progetto rischieremmo un grosso fallimento.

- Evidentemente non ho saputo spiegarmi bene! - ribatté paziente il Santo. - Il mio progetto non mira a creare una nuova confraternita, come voi dite: sono anch'io d'accordo che non sarebbe ben accetta. La vasta associazione che io medito è di una specie di terz'ordine, ma molto diverso da quelli di un tempo che nel Medioevo, quando sorsero, si collegavano all'Ordine che li aveva creati con dei vincoli religiosi: recita dell'Ufficio, determinate pratiche di pietà, riunioni spirituali. Il nostro sarà invece un terz'ordine di azione, legato a noi dalle stesse finalità e dagli stessi ideali di bene e troverà la propria salvezza nel promuovere come noi quella della gioventù povera e abbandonata.

Chiarito meglio il progetto, non tardò a venire l'approvazione dell'assemblea. E Don Bosco continuò così sulla strada iniziata da tempo: possediamo almeno quattro minute, piene di correzioni, che testimoniano del progressivo precisarsi del progetto.

Il Santo non aveva completamente rinunziato al testo del 1864, a quel famoso capitolo sedicesimo. Ne fa fede la duplice osservazione che troviamo sul primo dei quattro manoscritti:

“Si vorrebbe creare quésta associazione per soddisfare il desiderio di molte persone che vivono nel mondo. Lo scopo è duplice: primo, offrire un mezzo di perfezione spirituale a tutti i cristiani che non possono abbracciare la vita religiosa; secondo, farli partecipare alle

opere di bene che i Salesiani compiono per la gloria di Dio e il bene delle anime”.

Il pensiero di Don Bosco era dunque chiarissimo: questa terza schiera, composta da laici, si collegava volontariamente all'azione salesiana e all'osservanza delle sue costituzioni nella misura possibile a dei cristiani che non potevano “abbracciare la vita religiosa” - per dirla con le parole del Santo - o per l'età o per la condizione sociale o per mancanza di vocazione o per ragioni di salute.

Se si volesse sintetizzare la visione del Santo su questa sua ultima creatura, la si potrebbe raccogliere in questa espressione: «Salvarsi salvando le anime, dei giovani soprattutto, lavorando in stretta cooperazione con i figli di Don Bosco e adoperando gli stessi metodi che si ispirano alla scuola di San Francesco di Sales”.

Don Bosco assegnava obiettivi estremamente concreti ai cooperatori: l'insegnamento della dottrina cristiana; la ricerca delle vocazioni; la diffusione della stampa cattolica; la cura dei fanciulli con tutti i mezzi utili e necessari; la preghiera; l'aiuto economico per sostenere le opere a favore della gioventù. Ma sarebbe stato non conoscere Don Bosco pensare che il suo animo dagli ideali grandi come il mondo limitasse a questo il programma di apostolato dei nuovi figli.

Un giorno del 1884 il Vescovo di Padova aveva affermato in un articolo che Don Bosco, con i suoi cooperatori, mirava a raggiungere tutta intera la gioventù e insieme a lavorare per una totale rigenerazione cristiana della società. “Ecco, è proprio questo il mio pensiero!” esclamò il Santo nel ripiegare il giornale dove aveva letto quelle affermazioni. E continuò: “Ho riflettuto a lungo sull'istituzione dei cooperatori: il loro fine principale non è solo quello di aiutare i Salesiani, ma di portare aiuto alla Chiesa di Dio, ai Vescovi, ai Parroci, sotto la direzione dei Salesiani, in qualunque opera di bene per la gioventù povera. Noi faremo appello a loro, in caso di necessità, ma essi sono soprattutto a disposizione dell'episcopato dei loro Paesi”.

Papa Pio XII, ricevendo in una memorabile udienza il 12 settembre del 1952 i cooperatori e le cooperatrici convenuti a Roma per il loro Congresso, diceva tra l'altro:

“Apostolo e suscitatore di apostoli, Don Bosco divinò, or è un secolo, con l'intuizione del genio e della santità, quella che doveva essere più tardi nel mondo cattolico la mobilitazione

del laicato contro l'azione del mondo nemico della Chiesa. Così, un giorno del lontano 1876, l'uomo di Dio, parlando dei suoi cooperatori, potè uscire in

questi audaci pensieri: - Finora pare una cosa da poco; ma io spero che con questo mezzo una buona parte della popolazione italiana diventi salesiana e ci apra la via a moltissime cose. - Il suo zelo lungimirante così preconizzava, sotto i segni della istituzione salesiana, un nuovo provvidenziale movimento del laicato cattolico che si preparava a scendere in campo, ordinato nei suoi quadri, formato all'azione, alla preghiera e al sacrificio, affiancandosi alle forze di prima linea, cui per divino mandato spettano la direzione e la parte primaria nella santa battaglia”.

Terz'ordine d'azione, dunque, quello di Don Bosco, dalle attività molteplici secondo le esigenze locali, con tre principali legami di unità:

1. Un capo, innanzitutto: il Rettor Maggiore dei Salesiani. Dal 1947, un Superiore è stato aggiunto nel consiglio del Rettor Maggiore per la direzione generale dell'Unione. Nelle Diocesi l'Unione dei Cooperatori è raccomandata a un Direttore diocesano.

2. La vita spirituale che circola nelle membra di questo organismo e che si alimenta con speciali e brevi preghiere quotidiane, con il ritiro mensile, con il corso di esercizi annuali e con due conferenze all'anno.

3. Un periodico mensile, il «Bollettino Salesiano», che tiene tutti gli associati al corrente delle attività salesiane nel mondo intero e li forma sempre più allo spirito del Fondatore. Il “Bollettino Salesiano” si pubblica ormai in diciassette lingue e raggiunge una tiratura complessiva di circa un milione di copie per i cooperatori sparsi in ogni Paese della terra.

Il 4 maggio del 1876 Don Bosco era ritornato a Roma per fare approvare definitivamente l'Unione dei Cooperatori e il relativo regolamento e per ottenere dal Papa importanti favori spirituali per i membri.

Pio IX lesse con la consueta cura, parola per parola, il regolamento dell'Associazione e, prima di approvarlo, convocò il Santo.

“Come avete potuto dimenticare le donne, mio caro Don Bosco?” gli chiese non appena se lo trovò davanti. «Perché non parlate affatto di cooperatrici? Questa è una grave lacuna. No, no, non dovete escludere nessuno. Bisogna che la vostra Unione comprenda anche le donne. Che magnifico compito hanno sostenuto nella Chiesa, per l'evangelizzazione dei popoli! Scorrete la storia e troverete che nel campo della carità le donne sono sempre state in prima linea. Per naturale inclinazione esse sono benefiche, intraprendenti, pronte al sacrificio.

E voi, mio caro Don Bosco, privandovi di loro, vi privereste del più forte degli aiuti!”.

Dietro quelle parole del Papa, il Santo si affrettò a fare posto anche alle donne nella sua Unione; così, sul Breve pontificio del 9 maggio 1876 che accordava l'approvazione del Papa e conferiva larghe indulgenze a favore dell'Unione, si poteva leggere: Omnibus utriusque sexus christifidelibus, a tutti i fedeli dell'uno e dell'altro sesso.

Don Bosco non voleva abbandonare il mondo senza lasciare a coloro che avevano beneficato la sua opera e soprattutto ai Cooperatori e alle Cooperatrici un ultimo segno della sua riconoscenza.

Scrisse così quel documento che è conosciuto appunto come la Lettera-testamento ai Cooperatori e che riportiamo nella sua interezza:

“Miei buoni Benefattori e mie buone Benefattrici,

Sento che si avvicina la fine di mia vita, ed è prossimo il giorno in cui dovrò pagare il comune tributo alla morte e discendere nella tomba.

Prima di lasciarvi per sempre in questa terra, io debbo sciogliere un debito verso di voi e così soddisfare a un grande bisogno del mio cuore.

Il debito, che io debbo sciogliere, è quello della gratitudine per tutto ciò che voi avete fatto coli'aiutarmi nell'educare cristianamente e mettere sulla via della virtù e del lavoro tanti poveri giovinetti, affinché riuscissero la consolazione della famiglia, utili a se stessi ed alla civile società, e soprattutto affinché salvassero la loro anima e in tal modo si rendessero eternamente felici.

Senza la vostra carità io avrei potuto fare poco o nulla; colla vostra carità abbiamo invece cooperato colla grazia di Dio ad asciugare molte lacrime e a salvare molte anime. Colla vostra carità abbiamo fondato numerosi Collegi ed Ospizi, dove furono e sono mantenuti migliaia di orfanelli tolti dall'abbandono, strappati dal pericolo della irreligione e della immoralità e mediante una buona educazione, collo studio e coli'apprendimento di un'arte, fatti buoni cristiani e savi cittadini.

Colla vostra carità abbiamo stabilito le Missioni sino agli ultimi confini della terra, nella Patagonia e nella Terra del Fuoco, e inviato centinaia di operai evangelici ad estendere e coltivare là vigna del Signore.

Colla vostra carità abbiamo impiantato tipografie in varie città e paesi, pubblicato tra il popolo a più milioni di copie libri e fogli in difesa della verità, a fomento della pietà e a sostegno del buon costume.

Colla vostra carità ancora abbiamo innalzato molte cappelle e chiese, nelle quali per secoli e secoli sino alla fine del mondo si canteranno ogni giorno le lodi di Dio e della Beata Vergine, e si salveranno moltissime anime.

Convinto che, dopo Dio, tutto questo ed altro moltissimo bene fu fatto mediante l'aiuto efficace della vostra carità, io sento il bisogno di esternarcene e perciò, prima di chiudere gli ultimi giorni, ve ne esterno la più profonda gratitudine, e ve ne ringrazio dal più intimo del cuore.

Ma se avete aiutato me con tanta bontà e perseveranza, ora vi prego che continuiate ad aiutare il mio Successore dopo la mia morte. Le opere che con il vostro aiuto io ho cominciate, non hanno più bisogno di me, ma continuano ad avere bisogno di voi e di tutti quelli che, come voi, amano di promuovere il bene su questa terra. A tutti io le affido e le raccomando.

A vostro incoraggiamento e conforto lascio al mio Successore che nelle comuni e private preghiere, che si faranno nelle case salesiane, siano sempre compresi i nostri Benefattori e le nostre Benefattrici, e che metta ognora l'intenzione che Dio conceda il centuplo della loro carità anche nella vita presente colla sanità e concordia nelle famiglie, colla prosperità nelle campagne e negli affari, e colla liberazione ed allontanamento da ogni disgrazia”

A vostro incoraggiamento e conforto noto ancora che l'opera più efficace ad ottenerci il perdono dei peccati ed assicurarci la vita eterna, è la carità fatta ai piccoli fanciulli: Uni ex minimis, ad un piccolino abbandonato, come ne assicura il Divin Maestro Gesù. Vi fo eziandio notare come in questi tempi, facendosi molto sentire la mancanza dei mezzi materiali, per educare e fare educare nella fede e nel buon costume i giovinetti più poveri ed abbandonati, la Santa Vergine si costituì essa medesima loro protettrice; e perciò ottiene ai loro Benefattori e alle loro Benefattrici molte grazie spirituali ed anche temporali straordinarie.

Io stesso e, come me, tutti i Salesiani siamo testimoni che molti nostri Benefattori, i quali prima erano di scarsa fortuna, divennero assai benestanti dopo che cominciarono a largheggiare in carità verso i nostri orfanelli.

In vista di ciò, e ammaestrati dalla esperienza, parecchi di loro, chi in un modo e chi in un altro, mi dissero più volte queste ed altre consimili parole: Non voglio che Lei mi ringrazi, quando fo la carità ai suoi poverelli; ma debbo io ringraziare Lei, che me ne fa domanda. Dacché ho cominciato a sovvenire i suoi orfanelli, le mie sostanze hanno triplicato.

Un altro Signore, il comm. Antonio Cotta, veniva sovente egli stesso a portare limosine, dicendo: Più le porto danaro per le sue opere, e più i miei affari vanno bene. Io provo col fatto che il Signore mi dà il centuplo di quanto io dono per amor suo. Egli fu nostro insigne benefattore fino all'età di 86 anni, quando Iddio lo chiamò alla vita eterna per godere colà il frutto della sua beneficenza.

Sebbene stanco e sfinito di forze, io non lascerei più di parlarvi e raccomandarvi i miei fanciulli che sto per abbandonare; ma pur debbo far punto e deporre la penna.

Addio, miei cari Benefattori, Cooperatori Salesiani e Cooperatrici, addio. Molti di voi io non ho potuto conoscere di persona in questa vita, ma non importa: nell'altro mondo ci conosceremo tutti e in eterno ci rallegreremo insieme del bene, che colla grazia di Dio abbiamo fatto, in questa terra, specialmente a vantaggio della povera gioventù.

Se dopo la mia morte, la Divina Misericordia, per i meriti di Gesù Cristo e per la protezione di Maria Ausiliatrice, mi troverà degno di essere ricevuto in Paradiso, io pregherò sempre per voi, pregherò per le vostre famiglie, pregherò per i vostri cari, affinché un giorno vengano tutti a lodare in eterno la Maestà del Creatore, ed inebriati delle sue divine delizie, a cantare le sue infinite misericordie. Amen.

Sempre vostro obbl.mo servitore Sac. Giovanni Bosco.

Il grande albero a tre rami della Famiglia Salesiana che estende le sue radici in sessantacinque nazioni della terra, ha prodotto nel tempo frutti meravigliosi di santità.

Oltre a Don Bosco, la cui statua scolpita dal Canonica guarda dall'alto e al posto d'onore l'interno della Basilica di San Pietro, Maria Domenica Mazzarello e Domenico Savio già sono iscritti nel Canone dei Santi della Chiesa. Altre quindici cause di beatificazione sono in corso.

Tra questi futuri Beati e Santi, ricordiamo Don Michele Rua e Don Filippo Rinaldi, il primo e il terzo successore del Fondatore; Don Beltrami e Don Augusto Czartoryski, principe polacco fattosi salesiano; Mons. Luigi Versiglia e Don Callisto Caravario, martirizzati in Cina; il piccolo Zeffirino Namuncurà, l'aspirante salesiano venuto dalla Patagonia; la Serva di Dio Dorotea de Chopitea, spagnola, madre di cinque figli, cooperatrice salesiana; la Serva di Dio Laura Vicuna, giovane alunna delle Figlie di Maria Ausiliatrice; Mons. Luigi Olivares,

Vescovo di Sutri e Nepi; Don Luigi Variar a, l'apostolo dei lebbrosi in Colombia; Don Rodolfo Komorek, polacco, l'instancabile soccorritore degli emigrati in Brasile; il Coadiutore Simone Srugi, di Nazareth.

A queste cause di beatificazione sono da aggiungere quelle che interessano novantasette tra sacerdoti, chierici, coadiutori, Figlie di Maria Ausiliatrice, aspiranti, cooperatori, uccisi per la fede in Spagna nella guerra civile del 1936-39.

San Pio X, infine, San Giuseppe Cafasso, San Leonardo Muriàldo, il Ven. Federico Albert, furono uniti a Don Bosco come cooperatori salesiani.

A questa fioritura impressionante di santità germogliata dall'umile prete dei Becchi, devono aggiungersi i nomi del Beato Luigi Guanella, di Don Luigi Orione, di Don Giuseppe Allamano e Padre Giuseppe Picco, usciti dalla famiglia sterminata degli ex-allievi salesiani.

Gli ex-allievi! Sono ormai più di un milione i giovani che nelle tremila case dei figli e delle figlie di Don Bosco sparse per il mondo, hanno ricevuto istruzione, imparato un mestiere e sono stati avviati ad una vita cristiana.

Nel 1911 l'Unione degli ex-allievi salesiani, tenendo a Torino il suo primo Congresso internazionale, si diede uno Statuto e volle eretto un monumento in bronzo a Don Bosco davanti alla basilica di Maria Ausiliatrice.

I membri di questa schiera di padri e di madri, di professionisti e di operai, di bianchi e di negri, portano nel loro impegno quotidiano nella vita sociale il ricordo della parola che Don Bosco rivolse ai primi di loro.

“Ovunque andiate”, disse loro il Santo, “ricordate che siete figli di Don Bosco. Fate vedere al mondo che si può essere allo stesso tempo buoni cristiani e buoni cittadini!».

CAPITOLO VIII.

Tre grandi basiliche.

Le interminabili pratiche, i ripetuti viaggi, la copiosa corrispondenza con l'Episcopato e la Santa Sede, le prove senza numero, gli ostacoli che sorgevano ad ogni iniziativa, non arrestavano i progressi dell'Oratorio che dilatava le sue mura, mentre gli allievi si moltiplicavano: verso il 1860 erano già parecchie centinaia.

Un giorno si era costruita la chiesa di San Francesco di Sales perché la cappella Pinardi era divenuta troppo piccola: ora anche la nuova chiesa appariva insufficiente. Bisognava provvedere, tanto più che Don Bosco notava con sofferenza come nel quartiere di Valdocco, sparso sulle due rive della Dora, parecchie migliaia di cittadini mancassero di ogni assistenza religiosa.

C'era sì, a nord, la parrocchia di San Donato e a sud la parrocchia di Borgo Dora, ma fra le due chiese, distanti l'una dall'altra quasi tre chilometri, non esisteva che la cappella del Cottolengo e la chiesetta di San Francesco di Sales. Era troppo poco: occorreva un vasto tempio tra le due parrocchie per facilitare la vita cristiana a quella popolazione dispersa.

Anche indipendentemente da ragioni pastorali, Don Bosco desiderava da tempo innalzare una grande chiesa e dedicarla a Maria, colei che da tanti anni gli illuminava la strada, gli sosteneva il braccio e lo spingeva verso sempre nuovi traguardi.

Il progetto impiegò lunghi anni a precisarsi. La sera del 6 dicembre 1862, il Santo aveva confessato fino a tardi nella chiesa di San Francesco; verso le undici vide allontanarsi l'ultimo penitente e alcuni minuti dopo, in compagnia del chierico Albera poteva finalmente sedersi a tavola per un po' di cena. Contrariamente al solito appariva stanco, preoccupato, assorto in un pensiero che lo assorbiva interamente. All'improvviso uscì dal suo silenzio, dicendo: «Stasera ho

confessato tanto che alla fine non sapevo più che cosa dicessi, ma un pensiero mi assillava di continuo la mente: quando costruiremo una chiesa più grande di questa, una chiesa da dedicare a Maria Ausiliatrice? Quella attuale è troppo stretta, i ragazzi vi stanno ammucchiati. Lo so, l'impresa è ardua e io non ho un soldo. Ma che importa? Se Dio la vuole, la chiesa sorgerà”.

Il titolo glorioso di Maria Ausiliatrice, Maria Aiuto dei Cristiani, era in Don Bosco un'idea ricorrente. Due giorni dopo le parole ad Albera, nella festa cioè della Immacolata Concezione, diceva al chierico Cagliero, dopo i Vespri:

- La festa è andata bene, ne sono contento. È questo il giorno in cui abbiamo iniziato la maggior parte delle nostre opere; ma la Madonna ora vuole che noi la onoriamo con il titolo di Ausiliatrice. I tempi non sono buoni: noi abbiamo più che mai bisogno che il suo potente soccorso ci aiuti a conservare e a difendere la fede. Quindi a lei, invocata con questo titolo, ho in animo di innalzare una grande chiesa. E poi ho ancora un'altra ragione per intraprendere questa nuova impresa!

- Quale, Don Bosco? - chiese Cagliero che lo ascoltava attento e commosso.

- Questo tempio a Maria Ausiliatrice sarà la chiesa madre della nostra Congregazione, la chiesa dalla quale si irraggerà tutta la nostra azione a favore della gioventù. Maria Ausiliatrice sarà la vera fondatrice e il sostegno permanente delle nostre Opere.

- Ma dove fabbricherà il tempio? - Era il chierico Anfiossi, entrato in sagrestia in quel momento, a porre la domanda.

- Qua vicino, proprio davanti alla cappella di San Francesco di Sales. E con un gesto ampio Don Bosco indicò un vasto spazio davanti a sé.

- Allora, come faremo per passare dalla chiesa alla casa, se c'è di mezzo la via della Giardiniera?

- Questa verrà soppressa. La via del Cottolengo sarà invece prolungata e passerà davanti alla chiesa che formerà una cosa sola con i nostri fabbricati.

- E sarà grande la chiesa?
- Certo! E vi accorrerà la gente da ogni parte ad onorare e invocare la potenza della

Madonna.
- Ma il denaro?

- È una chiesa voluta dalla Madonna. Ci penserà lei!

Ancora una volta la sua fiducia era ben riposta: appena sei anni dopo quel colloquio, si consacrava il grandioso Santuario di Maria Ausiliatrice che ogni anno, nei giorni attorno al 24 maggio, vede accorrere da ogni parte grandi folle di pellegrini.

Il Santuario di Maria Ausiliatrice, dalla facciata ispirata allo stile neoclassico, occupava una superficie di milleduecento metri quadrati, innalzando la statua della Madonna in rame dorato a sessanta metri dal suolo, alla sommità di una cupola illuminata da sedici immense vetrate. Vi erano quattro cappelle laterali e altre due alle estremità di ogni braccio della croce latina formata dalla Basilica. Dietro l'altar maggiore un coro semicircolare, che poteva ospitare un centinaio di fedeli, aveva altri cinque altari. Varcata appena la soglia del portale una spaziosa tribuna era in grado di raccogliere attorno all'organo trecento cantori. Presto però, nonostante le dimensioni, la capienza della chiesa si mostrò insufficiente all'afflusso dei fedeli e si impose il problema dell'ampliamento, realizzato nel 1938 raddoppiando quasi l'area dell'edificio. Eppure, quando fu progettato, il Santuario aveva ancora una volta fatto accusare di follia il costruttore per la sua ampiezza!

Il primo dei molti ostacoli che incontrò Don Bosco nella costruzione di Maria Ausiliatrice gli venne dai proprietari del terreno. Quell'area gli era appartenuta un tempo, comprata a poco prezzo in un giorno di buona sorte e rivenduta in un giorno di bisogno. Ceduta da Don Bosco all'amico e benefattore abate Rosmini (il filosofo fondatore anch'egli di una congregazione), alla morte di lui era passata nelle mani dei suoi Religiosi i quali, non servendosene per nulla, cercavano di rivenderla.

Ma, per ragioni che restano ancora inesplicabili, tra le condizioni che i Rosminiani ponevano al loro rappresentante, vi era quella che la vendita non dovesse essere fatta a Don Bosco, che fu dunque costretto a servirsi di una terza persona per acquistare il terreno necessario!

Avuto finalmente il terreno, ecco le opposizioni da parte del Consiglio Comunale di Torino. Si acconsentiva cioè volentieri all'erezione di una chiesa in quel quartiere abbandonato, ma non si voleva vederla dedicata a Maria, Aiuto dei Cristiani. Taluni infatti pensavano che un simile titolo attribuito alla Madonna nascondesse significati politici: le relazioni tra il Regno di Sardegna e il Papato continuavano infatti ad essere difficili. Per aggirare anche questo ostacolo, nella domanda al Comune per iniziare i lavori Don Bosco fu costretto a non indicare il nome del Santuario che intendeva costruire, chiedendo soltanto il

permesso di erigere una chiesa in un quartiere della città che ne era privo. Dopo qualche tempo giunse così il permesso desiderato.

I lavori cominciarono nel maggio del 1863. Per prima cosa si scavò il terreno per una profondità di due metri e mezzo poiché si voleva adibire il sottosuolo del tempio a diversi servizi: milleduecento metri quadrati di terreno da sterrare a una simile profondità con i soli badili del tempo era un lavoro che richiedeva somme ingenti. Eppure, fra l'acquisto del suolo e quello delle tavole occorrenti per lo steccato, si erano gettate nell'impresa tutte le risorse della Società Salesiana: quattromila lire. In cassa non c'era più un soldo.

- Non ho nemmeno di che affrancare la posta di oggi! - si lamentava l'economo.

- Avanti egualmente! - rispondeva imperturbabile Don Bosco. - Nessuno mi ha mai visto cominciare qualcosa con dei soldi in tasca. Bisogna lasciare fare alla Provvidenza!

Il lavoro di sterro era ormai a buon punto, quando ci si accorse che tutto l'edificio avrebbe dovuto poggiare su terreno alluvionale dove era impossibile costruire se non piantando palafitte sino a venti metri di profondità. La spesa imprevista era enorme; eppure si riuscì a coprirla ma nell'aprile del 1864, quando si trattò di venire su dal suolo e di alzare le mura, la cassa era nuovamente vuota e questa volta in un modo che pareva irrimediabile.

All'impresario, che gli chiedeva un anticipo, Don Bosco rispondeva: «Aprite le mani, prendete tutto quello che ho, sarà un acconto!”. E così dicendo, rovesciava il portamonete nelle mani tese dell'uomo: ne caddero otto soldi, non uno di più. Dinanzi allo stupore dell'altro, Don Bosco uscì in una delle sue frasi di invincibile ottimismo: “Non temete! La Madonna penserà a fare giungere il denaro necessario alla costruzione del suo tempio! Io non sarò che il cassiere. Vedrete!”.

E con l'abituale sorriso congedò l'impresario sconcertato.

La fiducia di Don Bosco nell'esito felice dell'impresa poggiava anche sul sogno di una notte di marzo del 1846, allorché stava per essere messo nuovamente sul lastrico con tutti i suoi giovani. Con l'anima angosciata si domandava dove potesse ormai trovare un rifugio, quando, addormentatosi, si presentò al suo sguardo uno spettacolo sconcertante: davanti a lui, a perdita d'occhio, si estendeva una pianura. Gruppi di giovani vi giocavano; ma che giovani! Alcuni bestemmiavano, altri facevano bricconate, litigavano, tiravano sassi. Erano ragazzi abbandonati dalle famiglie e ormai profondamente traviati.

“Accanto a me - raccontò poi più volte il Santo - una voce di donna mi disse:
- Va' verso di loro e mettiti all'opera.
Avanzai verso quei giovani, ma che fare? Mancava un luogo in cui riunirli, mancavano

gli aiuti. Allora mi rivolsi verso la Signora misteriosa che mi disse:
- Cerchi un posto per questi ragazzi? Eccotene uno!
- Ma questo non è che un prato! - esclamai.
- Che importa? Il Figlio mio e gli Apostoli non avevano nemmeno una pietra su cui

posare il capo.
Mi misi allora al lavoro, ma avevo un bel confessare, predicare, avvertire! Sentivo che

non si sarebbe fatto nulla di duraturo, fino a che non avessi avuto un luogo chiuso per raccogliere quegli infelici. La Signora, allora, mi condusse un po' più in là, verso nord.

- Guarda! - mi disse.

Vidi una modesta cappella con il tetto molto basso, un -cortile e un gran numero di ragazzi. Mi rimisi con ardore al lavoro e Dio lo benedisse in tal modo che ben presto tutti quei locali furono troppo stretti.

Allora la Signora scoprì al mio sguardo una seconda chiesa più vasta ed una casa vicina abbastanza spaziosa. Prendendomi per mano e conducendomi di fronte alla chiesa: - Qui, disse, i martiri di Torino, Solutore, Avventore e Ottavio, trovarono morte gloriosa per la loro fede. Voglio che qui Dio sia onorato in modo speciale.

In quel momento mi vidi circondato da una moltitudine di giovani, il cui numero cresceva continuamente mentre, nello stesso tempo, mi sembrava crescessero i miei mezzi di azione. Intanto vidi elevarsi davanti a me, proprio sul luogo del martirio, un tempio grandioso circondato da fabbricati che andavano a fronteggiare un grande monumento”.

Erano proprio, quelle intraviste nel sogno, le tre tappe per cui doveva passare l'Opera di Don Bosco prima di giungere al porto definitivo: la cappella con il tetto molto basso era quella ricavata dalla tettoia Pinardi; la seconda chiesa più vasta era la chiesa di San Francesco di Sales tuttora esistente tra i cortili dell'Oratorio; il tempio grandioso, poi, era la Basilica di Maria Ausiliatrice.

Il grande monumento, che Don Bosco non vide in vita, fu quello dagli ex-allievi sulla piazza Maria Ausiliatrice, tutta circondata dagli edifici dell'Opera Salesiana.

Il passato, avveratosi punto per punto, era dunque una garanzia per l'avvenire e la fiducia dell'Uomo di Dio, serena e incrollabile, infondeva sicurezza anche a coloro che lo circondavano.

Molte volte, in cinque anni, i lavori per la chiesa furono sospesi, ripresi, interrotti di nuovo, di nuovo ripresi, a mano a mano che i soccorsi finanziari arrivavano o finivano.

Nel 1867 il Santo così scriveva ad un amico di Roma: «Avevo quaranta muratori nel

cantiere e ora ne ho soltanto sei. E nemmeno un soldo in cassa!”. Si era prevista una spesa complessiva di duecentomila lire ma l'intera costruzione richiese più di un milione! Ci fu un momento in cui, stretti dalle difficoltà, si esaminò persino l'idea di sopprimere la cupola, la cui costruzione richiedeva una somma enorme.

Per cinque anni la vita di Don Bosco fu una tormentosa caccia al denaro: la sua immaginazione inventava sempre nuove iniziative per forzare le borse ad aprirsi. Ora, ottenuta fortunosamente l'autorizzazione governativa, bandiva una lotteria, la cui estrazione si doveva spesso prorogare perché si stentava a vendere i biglietti; ora inviava ai devoti di Maria di tutta Italia una circolare per supplicarli di aiutarlo. Un anno chiedeva al Consiglio Comunale le trentamila lire dovute alle parrocchie povere in costruzione e, se non le otteneva, chiedeva che almeno non lo si citasse in giudizio se per innalzare la sua chiesa aveva dovuto intaccare leggermente una striscia di terreno pubblico attiguo al suo. Un altro anno bussava addirittura alla porta del Re e del Papa, ottenendo da quest'ultimo un'offerta e una incoraggiante benedizione. Altre volte apriva sottoscrizioni in cui c'era chi offriva un mattone, chi un sacco di cemento, chi un pilastro e chi anche una vetrata.

Più tardi, nel 1867, privo ormai di risorse e di ulteriori espedienti per procurarsene, percorreva questuando l'Italia settentrionale e centrale; viaggio proficuo, durante il quale vide il popolo, la borghesia, gli aristocratici gareggiare per dargli aiuto.

Intanto, non dava tregua ai benefattori consueti. Ecco ad esempio il testo di un suo biglietto all'amico Marchese Fassati:

“I muri della nostra chiesa raggiungono già l'altezza di due metri e il nostro cantiere è pieno di vita. Odo la Marchesa che domanda: " E la cassa, a che altezza sta? ". Ahimè, dacché è partita lei, diminuisce sensibilmente! Ma spero che il Signore, il quale fino ad oggi ci ha visibilmente aiutati, non lascerà interrompere i lavori”.

E quest'altro alla Contessa Callori:
“La statua della Vergine che deve coronare la cupola della nostra

chiesa ci costerà più cara di quel che si pensava. Bisogna che misuri quattro metri d'altezza, che sia di rame molto spesso e curata in tutti i particolari. La fattura ammonterà, mi si dice, sicuramente a dodicimila lire. Ho già trovato una buona signora che mene promette otto. La mia intenzione non è certo di domandarle il resto, a meno che, a meno che questa buona Madre non le abbia fatto piovere marenghi in casa in questi ultimi tempi”.

Finalmente, quando aveva esaurito tutte le risorse umane capaci di procurargli denaro, con la massima naturalezza ricorreva ai “mezzi” soprannaturali, rivelando facoltà taumaturgiche.

Terminata la costruzione della Basilica, Don Bosco poteva dire in umiltà ma in verità che non c’era una sola pietra “che non rappresentasse un favore concesso da Maria Ausiliatrice”.

Ecco (per non citare che un solo, famoso esempio) come la cupola, alla quale si era ad un certo punto quasi deciso a rinunciare, trovò il benefattore che ne permise la costruzione.

Un vecchio amico dei Salesiani, il Commendator Cotta, stava lentamente spegnendosi a Torino all'età di 83 anni.

- È proprio finita per me! - mormorava rivolto a Don Bosco che era andato a fargli visita. - Pochi giorni ancora e partirò per l'eternità.

- No, Commendatore! - rispose il Santo. - La Madonna ha ancora bisogno di lei per la costruzione della sua Chiesa!

- Come l'aiuterei volentieri! Ma vede bene.
- E che farebbe se Maria Ausiliatrice le rendesse la salute?
- Verserei duemila lire al mese per la costruzione della sua Basilica!
- Abbia fiducia, Commendatore, ed esperimenterà ancora una volta la potenza della

Madonna!
Tre giorni dopo, mentre stava in camera a scrivere una lettera, Don Bosco vide

comparire sulla soglia il suo moribondo guarito e tutto contento di versare egli stesso la prima rata; Cotta visse ancora tre anni e fino alla morte non mancò mai di aiutare nelle sue imprese il Santo.

Un'altra volta - era il 16 novembre 1866 - Don Bosco doveva pagare la sera stessa

quattromila lire agli impresari e, al solito, non aveva una lira.
Fin dal mattino Don Rua, allora economo della Casa, e alcuni coadiutori s'erano messi

in caccia: Dio solo sa quante strade avevano

percorso e quante scale salite in quelle ore! Ma a mezzogiorno ritornavano con appena mille lire.

Si guardavano l'un l'altro desolati e senza proferire parola. Vedendoli, Don Bosco cominciò a sorridere:

- Coraggio! Dopo pranzo andrò io a cercare il resto! Difatti all'una prese il cappello e uscì, in cerca di Provvidenza.

Camminando a caso per la città, si trovò a passare davanti alla Stazione di Porta Nuova.

Mentre era fermo, pensando dove dirigersi, gli si avvicinò un domestico in livrea: - Scusi, reverendo! È lei Don Bosco?

- In che posso servirvi?
- Il mio padrone mi manda a pregarla di venire subito da lui. - Andiamo allora dal vostro padrone! Sta lontano?

- No, abita qui in fondo alla strada. Il mio padrone è il signor. - E pronunciò il nome di uno dei più ricchi uomini della città, indicandogli il grande palazzo poco lontano nel quale risiedeva. Dopo poco, i due arrivarono in una bellissima camera dove un signore anziano, a letto, dimostrò una grande gioia alla vista di Don Bosco.

- Reverendo, ho un gran bisogno delle sue preghiere! Lei dovrebbe proprio farmi guarire!

- È molto tempo che sta male?

- Sono tre anni che non lascio questo letto! Non posso fare nessun movimento e i medici non mi danno alcuna speranza. Se ottenessi un po' di sollievo, farei volentieri qualcosa per le sue opere.

- Va giusto bene! Abbiamo bisogno, entro stasera, di tremila lire per la chiesa di Maria Ausiliatrice.

- Tremila lire sono molte, Don Bosco! Ma mi ottenga dal cielo un po' di respiro dai miei mali e io, gliel'assicuro, non la dimenticherò alla fine dell'anno.

- Alla fine dell'anno? Ma noi abbiamo bisogno di questa somma per questa sera!

- Questa sera! Tremila lire, capirà bene, non si tengono in casa. Bisogna andare alla banca, compiere delle formalità.

- Ebbene, non potrebbe andare alla banca lei stesso?
- Lei scherza! Sono tre anni che non scendo più dal letto! E impossibile! - Niente è impossibile a Dio, e l'intercessione della Madonna è potente.

E così dicendo Don Bosco fa riunire nella camera tutte le persone

della casa, circa una trentina. Suggerisce loro una formula di preghiera e la recita con loro.

Fatto questo, ordina di portare gli abiti al malato.

- Gli abiti! - rispondono i domestici costernati. - Ma il padrone non ne ha più. Sono tre anni che non si alza!

Durante questa scena entra il medico che a tutti i costi vuole impedire quella che definisce una “insigne pazzia”. Ma intanto i vestiti si sono trovati. Il malato li indossa e comincia a camminare su e giù per la camera in mezzo all'indicibile stupore dei presenti, del medico innanzitutto. Comanda poi di attaccare i cavalli alla carrozza e intanto chiede di rifocillarsi: gli portano uno spuntino e lo divora con un appetito non più conosciuto da anni. Quindi, tutto arzillo scende le scale rifiutando ogni sostegno e monta in vettura.

Mezz'ora dopo era di ritorno portando tremila lire per Don Bosco.
- Sono completamente guarito! Sono completamente guarito! - continuava a ripetere

in modo quasi ossessivo.
- Lei fa uscire i suoi soldi dalla banca e Maria Ausiliatrice fa uscire lei dal letto! - gli

diceva intanto Don Bosco sorridendo con aria d'intesa.

Così, tra un miracolo e l'altro, dopo tanti arresti e tante riprese, il Santo vide avverarsi il suo sogno. Quando l'edificio fu compiuto nelle grandi linee e sopra le altre costruzioni dell'Opera salesiana innalzò la sua mole maestosa, nella mente di colui che l'aveva voluto balenò un'idea suggestiva. Ancora ventiquattro ore e la cupola avrebbe saldato ermeticamente i suoi archi: Don Bosco volle allora che l'ultima pietra vi fosse collocata dalla mano d'un fanciullo.

Una grande folla di fedeli, di amici, di giovani, accorsa nella piazza, vide quella sera di settembre l'uomo di Dio salire lentamente e con precauzione la serie di scale metalliche che conducevano alla cima dell'edificio. Davanti a Don Bosco si arrampicava il piccolo Emanuele Fassati, figlio del Marchese Fassati e della Contessa De Maistre, grandi benefattori dell'Opera salesiana.

Dal basso si seguiva trepidando l'ascensione del prete e del fanciullo; quando i due si chinarono per chiudere definitivamente la cupola posandovi l'ultima pietra, una immensa acclamazione si levò dalla folla verso il gruppo che in quel momento parve simbolico.

Questa scena si svolgeva nell'autunno del 1866; occorsero ancora quasi due anni per condurre a termine i lavori di finitura e di decorazione e per l'arredamento della chiesa.

Finalmente spuntò l'alba del giorno tanto atteso: il 9 di giugno del 1868, Mons. Riccardi di Netro, Arcivescovo di Torino, procedeva alla consacrazione del Santuario di Maria Ausiliatrice. Quando, verso le dieci del mattino, terminata la dedicazione, le porte si aprirono ai fedeli, ci fu come un assalto della folla che in pochi minuti gremì la grandiosa navata e l'Arcivescovo celebrò la Messa davanti a una moltitudine fervente. Seguì subito dopo la Messa di Don Bosco che fu come un inno di ringraziamento alla Vergine potente e buona, il cui aiuto continuo aveva permesso di erigere in cinque anni la basilica.

Per più di vent'anni Don Bosco aveva visto, con gli occhi della fede, innalzarsi al disopra del prato ove giocavano i suoi ragazzi il tèmpio sormontato da una cupola che egli doveva innalzare alla Vergine Maria. Quante volte, in sogno, l'aveva scorto tal quale sarebbe sorto un giorno lontano!

La sera della consacrazione, tutte le finestre dell'Oratorio erano illuminate a giorno e il cortile echeggiava di musiche e di canti: una folla di ragazzi vi si pigiava, accorsa dalle case salesiane di Lanzo e Mirabello Monferrato. Il tiepido vento di una sera di primavera passava sopra quella gioventù: a sessanta metri di altezza la Vergine Ausiliatrice, incoronata da una aureola di luci, troneggiava sulla cupola innalzata grazie a un miracolo.

«Don Bosco, ricorda?» diceva un ex-alunno ormai adulto, guardando la statua. “Venti anni fa lei già ci indicava quella statua nell'aria!”.

“È vero”, rispondeva con voce rotta dall'emozione Don Bosco. “È vero! Quello che io vi vedevo allora, voi lo contemplate adesso. Quanto ci vuole bene la Madonna!”.

Quel 1868 non era ancora finito e già il Santo pensava di trasportare in un altro punto della città la sua attività di costruttore. Nel 1847, già lo vedemmo, per fronteggiare l'aumento straordinario degli ospiti di Valdocco, egli aveva aperto nel quartiere di Porta Nuova una seconda opera a favore dei giovani abbandonati: era l'Oratorio di San Luigi Gonzaga. La zona, poco popolata quasi quanto Valdocco, era allora il quartiere generale di tutte le lavandaie di Torino. Il fiume scorreva vicino, con le sue acque basse e le rive boscose, e tutto intorno si stendevano vasti prati per appendere al sole la biancheria lavata. Gente equivoca si aggirava nella zona, attratta dai facili nascondigli offerti dalla boscaglia nella quale i carabinieri si avventuravano di rado. Tutto pareva aspettare l'Opera giovanile che Don Bosco vi aprì l'8 di

dicembre di quell'anno. Egli non era però il solo ad avere compreso l'avvenire del

quartiere: anche i Valdesi vi avevano stabilito il loro principale centro di apostolato. Sul bordo di quel viale dei Platani o del Re, oggi corso Vittorio Emanuele II, sul quale andavano sorgendo sempre nuove ville e palazzi, i protestanti costruivano un tempio imponente al quale aggiungevano scuole ed opere sociali.

Per questo, Don Bosco appena ebbe terminato di costruire il muro maestro della Basilica di Maria Ausiliatrice, pensò di innalzare il campanile cattolico accanto alle guglie protestanti. Anche per questa nuova impresa le difficoltà da superare, soprattutto per l'acquisto del terreno, non furono poche: si dovette addirittura ottenere un Decreto Reale che dichiarasse di pubblica utilità la costruzione di una chiesa cattolica in quei luoghi.

Una volta iniziati i lavori di sterro non andarono però molto a lungo ed il 14 agosto del 1878 il Vicario generale dell'Arcidiocesi poteva procedere alla benedizione della pietra angolare della chiesa: sarebbe stata in stile romanico-lombardo, capace di contenere quasi quattromila persone. Grazie ancora una volta alla generosità dei benefattori, sollecitati dai ripetuti appelli del “Bollettino Salesiano”, bastarono quattro anni per terminare la costruzione, anche questa benedetta e incoraggiata da Pio IX che non mancò di fare giungere il suo cospicuo aiuto. La chiesa fu dedicata da Don Bosco a San Giovanni Evangelista, Patrono di colui che, prima di ascendere al trono pontificio, si era chiamato Giovanni Mastai Ferretti. Presso l'ingresso del nuovo tempio il Santo volle fosse posta una statua monumentale del Papa che per più di trent'anni non aveva cessato di benedire l'attività salesiana.

Terminava appena quest'ultima impresa e già il successore di Pio IX, Leone XIII, poneva sulle spalle ormai stanche del costruttore di chiese di Torino un peso che per chiunque altro sarebbe stato eccessivo.

Nel 1878, pochi mesi prima della morte di Pio IX, un comitato di cattolici romani aveva deliberato di innalzare sull'Esquilino una chiesa da dedicare al Sacro Cuore. Roma non aveva ancora un tempio consacrato a questa devozione e il vecchio Pontefice aveva non solo benedetto l'iniziativa ma comprato con denari suoi il terreno. In quella zona, vicinissima alla Stazione Termini, si stava sviluppando un popolosissimo quartiere abitato da coloro che giungevano in cerca di lavoro nella nuova capitale: una parrocchia per le loro necessità religiose pareva quanto mai opportuna, poiché tra Santa Maria Maggiore e San Lorenzo fuori le Mura non esisteva alcuna chiesa cattolica.

Leone XIII che, come Arcivescovo di Perugia, era stato il primo Vescovo d'Italia che avesse consacrato la sua Diocesi al Sacro Cuore, riprese il progetto, incaricando il Cardinale Vicario di mandarlo avanti speditamente. Questi spedì lettere ai Vescovi di tutto il mondo esponendo il progetto e pregandoli di aiutarlo a condurre a termine la costruzione che sarebbe stata dedicata alla memoria del Papa defunto. Le offerte raccolte permisero di iniziare lo scavo e il 17 agosto 1879 fu collocata la prima pietra. Tuttavia, poco tempo dopo, l'impresa si arrestava per mancanza di mezzi: anche qui le fondamenta, che avevano dovuto spingersi a diciotto metri di profondità per non posare sopra le gallerie di antiche cave di pietra, avevano esaurito i fondi. Leone XIII parlava un giorno della cosa ai Cardinali dopo un Concistoro, mostrandosene preoccupato:

- Dobbiamo proseguire i lavori del Sacro Cuore all'Esquilino - diceva - ma le relazioni dei tecnici avvertono che i lavori saranno costosissimi e i fondi sono ormai esauriti!

- Avrei io un'idea da suggerirle, Santo Padre, per portare avanti i lavori - disse a quel punto il Cardinale Alimonda.

- Quale, Eminenza?
- Affidi l'impresa a Don Giovanni Bosco: le assicuro che saprà portarla a termine! - Ma, accetterà? Lo so così occupato tra i suoi ragazzi.
- Io lo conosco bene! Un desiderio del Papa sarà per lui un comando!

Leone XIII non perdette tempo e poiché il Santo era in quei giorni a Roma, per discutere con le competenti Congregazioni delle missioni salesiane in Patagonia, gli fu fissata una udienza per il 5 aprile 1880. Fu in quel colloquio che il Papa gli prospettò per la prima volta la possibilità di assumere la gravosa impresa.

Ritornato a Torino, Don Bosco riunì il suo Capitolo per averne il parere. La discussione fu lunga: i sei consiglieri temevano di vedere il loro Fondatore, già così stanco e ormai

ammalato, assumersi un peso che poteva rivelarsi insopportabile. Questa terza costruzione, pensavano, gli abbrevierà la vita, tanto più che la chiesa di San Giovanni Evangelista, non ancora interamente pagata, continua a gravare sulle non floride finanze della Società. Al momento dello scrutinio, che fu segreto, ci furono sei no ed un solo sì: quello di Don Bosco. Il quale, per niente stupito dell'esito della votazione, rivolgendosi ai suoi figli:

“Voi avete votato”, disse, “come consigliava la prudenza umana e sta bene. Ma credete a me: se ora, invece di votare contro, voterete

a favore, posso assicurarvi che il Cuore di Gesù, al quale sarà dedicato questo tempio, ci invierà i mezzi, pagherà i nostri debiti e, ci farà anche un bel regalo!”.

Il tono di convinzione profonda con cui Don Bosco pronunciò quelle parole convinse il Capitolo: al secondo scrutinio ci furono tanti si quanti erano i votanti. Si decise anzi di proporre al Papa una modifica della pianta, aggiungendo accanto al Santuario un grande istituto per la gioventù povera e abbandonata della Capitale. Il nuovo disegno piacque a Leone XIII e i Salesiani, come prima cosa, comprarono altri cinquemila metri quadrati di terreno e si misero all'opera. Per raccogliere i fondi necessari alla costruzione anche Don Bosco, come il Cardinale Vicario, inviò una lettera ai Vescovi di tutto il mondo e ai direttori di giornali cattolici, spiegando l'origine e lo scopo dell'impresa; una colossale lotteria portò un altro grosso contributo finanziario.

Per iniziativa del Conte Balbo di Torino, il giornale “L'Italia Cattolica”, incoraggiato dall'Arcivescovo della capitale piemontese, concorse per offrire l'ammontare delle spese per la facciata. Lo stesso Leone XIII venne più volte in aiuto di colui al quale aveva affidato una così faticosa impresa.

- Ebbene, i lavori vanno avanti? - chiedeva nell'aprile del 1881 il Papa a Don Bosco ricevuto in udienza.

- Santità, abbiamo attualmente più di centocinquanta muratori nel cantiere. La carità dei fedeli incoraggia il nostro sforzo ma confesso che l'impresa comincia a pesare molto sulle mie vecchie spalle.

- Allora accettate questo, Don Bosco! - gli disse Leone XIII commosso, porgendogli un biglietto da cinquemila lire ricevuto pochi minuti prima. - Questi denari li ho appena avuti e ve li dono volentieri, augurandomi che si imiti l'esempio per un'opera che sta tanto a cuore al Papa!

Fu imitato sì, il grande Pontefice, ma non nella misura richiesta dall'impresa: più di una volta si dovettero sospendere i lavori per aspettare fondi. Accettando l'incarico, Don Bosco aveva sperato di terminare in quattro anni, ma nel 1883 si era giunti appena alla copertura dell'edificio.

Fu allora che gli venne l'idea di recarsi in Francia per sollecitare la carità di quel popolo.

Fin dai primi giorni troverà in quel Paese, come vedremo, una generosità persino superiore all'attesa. Un benefattore, il Conte Colle di

Tolone, gli aprirà la sua cassa senza porgli condizioni; a Parigi raccoglierà decine, di migliaia di franchi.

Quando di tanto in tanto i Salesiani di Roma e lo stesso architetto lo interrogavano su qualche particolare del disegno o su qualche modifica dei progetti primitivi, Don Bosco chiudeva la sua risposta con queste parole: «E poi, questo tempio sia degno del Sacro Cuore e degno di Roma!”. E degno, per grandiosità almeno, fu certamente: lungo sessanta metri, largo trenta, imitò la pianta delle grandi basiliche romane a tre navate. La porta principale e le due laterali hanno gli stipiti in marmo di Carrara finemente cesellato; nell'interno, dodici colonne a capitelli corinzi, in granito turchino, segnano le grandi linee del santuario; più di centocinquanta affreschi decorano le pareti e sei altari laterali, tutti di marmi preziosi, arricchiscono la casa del Signore. Infine, a destra dell'ingresso, una statua maestosa, riproduzione esatta di quella posta in San Giovanni Evangelista a Torino, innalza in marmo di Paros la figura di Pio IX. La destra del Pontefice è levata nel gesto della benedizione, mentre

la sinistra presenta il Breve di approvazione della Congregazione Salesiana. Sul piedistallo si legge:

PIO IX P.M.
ALTERI SALESIANORUM PARENTI FILII POSUERUNT

A Pio IX Pontefice Massimo - Secondo Padre dei Salesiani -I figli dedicarono.

Nessun titolo era più meritato e nessuna gratitudine più sincera di quella espressa dalla iscrizione.

Il 14 maggio 1887 ebbe luogo la consacrazione solenne per mano del Cardinal Parocchi, Vicario del Papa. Don Bosco era impaziente, di vedere spuntare quel giorno perché dal suo povero corpo logorato sentiva sfuggire lentamente la vita. “Se volete che assista alla consacrazione” ripeteva spesso ai suoi “fatela prima della fine di maggio: dopo, sarà troppo tardi!”.

Per accrescere lo splendore della festa, la Schola Cantorum dell'Oratorio di Torino scese a Roma al completo. Fu una cerimonia grandiosa, quella consacrazione che apriva al popolo cristiano, in un quartiere abitato già da ventimila persone, il tempio che si era voluto “degno di Roma e degno del Sacro Cuore”. Più di una volta, durante il sacro rito, Don Bosco fu visto piangere di commozione: non gli restavano che pochi mesi di quella vita durante la quale aveva saputo innalzare, praticamente da solo, tre grandi chiese destinate a sfidare il tempo.

CAPITOLO IX.

Alle soglie del mistero.

Sono numerosissimi i fatti prodigiosi ottenuti dalla preghiera di Don Bosco e vagliati con la severità consueta dai processi di beatificazione e di canonizzazione. Esaminando le testimonianze dei Salesiani, degli allievi, dei contemporanei che lo avvicinarono, appare con evidenza che la morte, la vita, il demonio, la malattia, la natura tutta, sembravano spesso piegarsi alla voce dell'uomo di Dio.

Don Bosco fu tra i più prodigiosi taumaturghi e veggenti nella storia della santità.

Anche i miracoli (non si saprebbe trovare altra parola) contribuirono a confermare presso i contemporanei la missione provvidenziale affidata a Don Bosco. Le opere straordinarie compiute in mezzo secolo dall'umile sacerdote non avrebbero forse potuto essere realizzate se la potenza di taumaturgo non avesse guadagnato ai suoi progetti la commozione delle folle e i cuori dei singoli ai quali egli rendeva la salute, la gioia, la vita.

Si può dire che non soltanto la Basilica di Maria Ausiliatrice, come vedemmo, ma tutta l'opera del grande apostolo crebbe accompagnata da eventi straordinari.

In una riunione di ex-allievi salesiani tenuta al Collegio di Valsalice il 19 luglio del 1883, Don Bosco disse:

«Da qualche tempo corre voce, e i giornali la riproducono, che Don Bosco fa miracoli. Che grosso sbaglio! Don Bosco non fa miracoli. Egli prega e fa pregare per le persone che gli si raccomandano. Ecco tutto. I miracoli li fa il Signore e spesso per intercessione della Madonna Santa. Ella vede che Don Bosco ha bisogno di denaro per nutrire e per educare cristianamente migliaia di ragazzi e gli porta dei benefattori mediante le grazie che spande sopra di essi».

Consapevole delle facoltà prodigiose di cui era dotato, Don Bosco fu sempre preoccupato di evitare che attorno a lui si creasse un clima di fanatismo o, peggio, di superstizione.

Questa preoccupazione è evidente anche riguardo ai sogni, cui accenneremo in questo capitolo. Scriveva infatti il Santo il 10 febbraio 1885 a Mons. Cagliero: «Mi raccomando ancora che non si dia gran retta ai sogni, ecc. Se questi aiutano all'intelligenza di cose morali, oppure delle nostre Regole, va bene; si tengano. Altrimenti non se ne faccia alcun pregio”.

Per celare ai curiosi i suoi doni soprannaturali, lo sorreggeva anche l’humour, una delle più costanti caratteristiche del suo temperamento.

L'atteggiamento sorridente e sereno di Don Bosco anche davanti ai fatti sconvolgenti di cui era protagonista, ci sembra la prova migliore della saldezza del suo spirito, alieno da ogni fanatismo o misticheria fumosa.

Così un giorno Don Bonetti, uno dei primi Salesiani, gli chiese “come facesse a vedere le cose lontane”.

- Ecco! - rispose sornione il Santo. - È come se ci fosse un filo telegrafico che parte dalla mia testa.

- Ma questo non si può capire! - replicò Don Bonetti perplesso. E Don Bosco, allora:

- Ah, per forzai È perché voi non sapete la mia furberia, non conoscete la ginnastica e neanche il gioco dei bussolotti!

Una gran risata che seguì quelle parole dissolse per incanto l'inquieta tensione dei discepoli.

A chi gli chiedeva come potesse sapere cose che tutti ignoravano, invariabilmente rispondeva, con tutta serietà, di adoperare una sua formula magica, l’otis botis pia totis che, a sentire lui, avrebbe significato: le tue botte prendile tutte!.

Questo lato faceto del carattere di Don Bosco era un'arma efficace anche per sdrammatizzare le inquietudini pseudo-religiose di tante anime del suo tempo.

Un giorno Madre Daghero, Superiora delle Figlie di Maria Ausiliatrice, gli condusse una suora tormentata da una scrupolosità patologica. Don Bosco ascoltò pazientemente la religiosa e alla fine, chiamata Madre Daghero, le consigliò di acquistare subito una copia del Bertoldo, Bertoldino e Caccasenno, e di farne leggere un capitolo al giorno alla malata, aumentando la dose a due o tre capitoli se l'avesse vista particolarmente pensierosa.

Tra le tante operate del Santo, particolarmente commovente è la guarigione istantanea avvenuta il giorno dopo la consacrazione della Basilica di Maria Ausiliatrice.

Era il 10 giugno 1868: una giovane paralitica si era fatta portare sino al Santuario sopra un carretto tirato da un asinello. Giunto nei pressi del tempio, il misero veicolo dovette fermarsi, pressato della folla fittissima. Il conducente tentò invano di aprirsi un varco in quella diga umana.

A un tratto la malata scorge Don Bosco nel cortile, circondato dai fedeli che chiedono la sua benedizione. A quella vista la ragazza si alza, scende a terra, si avvicina al Santo e solo in quel momento si accorge di essere guarita. Un grido di gioia le erompe dal petto. I genitori che l'hanno accompagnata, passati dallo sbalordimento alla commozione, vogliono ricondurla subito a casa, ma la ragazza continua a gridare:

- Sono guarita! Sono guarita!
- Lo vediamo - le rispondono i parenti - ma adesso andiamo, vieni con noi a casa.
- No - risponde decisa la miracolata. - Prima voglio andare a ringraziare Maria

Ausiliatrice. - E unendosi alla folla, pellegrina tra le altre, con le proprie gambe raggiunge l'interno della grande chiesa, raccogliendosi in preghiera.

Un sabato sera del maggio 1869, una ragazza con gli occhi coperti da una fitta benda nera e sorretta da altre due donne, entrò nel Santuario di Maria Ausiliatrice. Si chiamava Maria Stardero, era di Vinovo. Era stata colpita da due anni da una malattia agli occhi che le aveva tolto completamente la vista. La zia e una vicina l'accompagnavano nel pellegrinaggio che aveva voluto compiere a Valdocco. Dopo una lunga preghiera, le tre donne chiesero di parlare con Don Bosco che trovarono nella sacrestia.

- Da quanto tempo siete malata? - chiese Don Bosco coll'abituale dolcezza.

- Da molto tempo soffro - rispose la giovane - ma è da un anno circa che non vedo più nulla.

- Avete consultato medici? Vi siete curata?

- Abbiamo - rispose piangendo la zia - abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare senza ottenere neppure un miglioramento. I dottori dicono che gli occhi sono ormai rovinati e che non c'è più alcuna speranza.

- Vedete almeno qualche ombra? - insistè il Santo.
- Non vedo assolutamente nulla - mormorò la giovane.
- Levatevi la benda! - ordinò allora Don Bosco. E mettendo la ragazza davanti alla

finestra ben illuminata:
- Vedete la luce di questa finestra?
- No, nulla.
- Se riacquistate la vista, vi servirete degli occhi soltanto per il bene?
- Oh, certo Don Bosco! Lo prometto con tutto il cuore!
- Abbiate allora fiducia nella Vergine Santa ed ella vi aiuterà.
- Lo spero, ma intanto sono cieca.
- A gloria di Dio e della Santa Vergine, ditemi il nome dell'oggetto che tengo in mano!

La giovane fece un grande sforzo con gli occhi e fissando l'oggetto gridò: - Ci vedo!
- Che cosa vedete?
- Una medaglia della Madonna!

- E da questo verso della medaglia?
- C'è un vecchio con un bastone in mano, è San Giuseppe! - Vergine Santa! - gridò la zia. - Sei guarita!

A questo punto la ragazza tese la mano per prendere la medaglia che, cadendo, rotolò in un angolo oscuro della sacrestia. La zia e la vicina si precipitarono per raccoglierla, ma Don Bosco le trattenne.

- Lasciatela: ora può fare da sé!

Infatti la giovane ritrovò immediatamente e strinse nel pugno la medaglia; come presa da delirio, si precipitò fuori per ritornare subito a Vinovo a dare la buona notizia ai parenti. Non tardò però a ritornare a ringraziare Maria Ausiliatrice nel suo Santuario. Alcuni anni dopo, anzi, entrava nella Congregazione delle suore di Don Bosco.

Un anno, un vecchio generale torinese fu colpito da una malattia che lo ridusse agli estremi. Si era confessato da Don Bosco ma questi, con sorpresa della famiglia, non accennò al Viatico benché, a detta dei medici, il pericolo fosse molto grave. Era il 22 di maggio.

«Generale», aveva detto Don Bosco, «dopodomani celebriamo la festa di Maria Ausiliatrice. La preghi molto e in riconoscenza della guarigione venga quel giorno a partecipare alla Messa nella sua chiesa”.

Il 23 lo stato del generale peggiorò. La morte pareva ormai imminente. Non si voleva certo lasciarlo morire senza i Sacramenti ma la

famiglia si trovava imbarazzata, avendo Don Bosco raccomandato di non amministrargli l'Unzione degli infermi senza il suo consenso. Alle otto di sera si corse ad avvertirlo del grave stato in cui versava l'ammalato e del timore che non arrivasse vivo al giorno dopo. Essendo la vigilia della festa tanto cara alla Famiglia Salesiana, Don Bosco era sin dal mattino in confessionale: quando andarono a chiamarlo era attorniato da una piccola folla di ragazzi che attendevano il loro turno.

- Venga presto, Don Bosco! - gli gridavano affannati. - Il generale sta per morire e sarà già fortuna se lei farà in tempo a vederlo.

- Vedete bene che sto confessando - rispose tranquillo Don Bosco. - Non posso rimandare questi poveri ragazzi. Appena sarò libero, verrò.

E così dicendo riprese a confessare i suoi giovani. Quando ebbe terminato, erano le undici. I parenti del generale lo aspettavano alla porta con una carrozza.

- Faccia presto! - gridavano. - Faccia presto!

- Farò presto si - rispose ancora una volta calmissimo. - Soltanto vi dirò che non ho preso nulla da stamattina e sono sfinito. Se non ceno prima di mezzanotte mi toccherà astenermi da quel po' di cibo di cui ho veramente bisogno: domani dovrò essere in confessionale dalle cinque del mattino.

- Ma venga a casa nostra, presto, presto! Troverà tutto quanto le occorre!
E, mentre il Santo saliva in vettura, quasi con tono di rimprovero:
- Non farà in tempo ad amministrare il Viatico: il malato è agli estremi.
- Gente di poca fede! Non vi ho detto che il generale farà la Comunione domani, festa

di Maria Ausiliatrice? A momenti è mezzanotte: mi facciano dare per favore un po' di cena. Consumato un frugalissimo pasto, si recò nella stanza del malato che dormiva profondamente. Il mattino dopo, di buon'ora, il generale già creduto morto, si svegliò e pregò il figlio di portargli gli abiti: sentendosi benissimo, desiderava recarsi a ricevere la Comunione

dalle mani di Don Bosco.
Verso le otto, questi stava vestendosi per la Messa in sacrestia, quando gli apparve un

personaggio pallido pallido: - Reverendo, eccomi!

- Ah, generale! Sia lodata Maria Ausiliatrice.

- Don Bosco, la pregherei di confessarmi perché desidero comunicarmi alla sua Messa. - Si è confessato ieri l'altro e può bastare.
- Niente affatto! Voglio per lo meno accusarmi della mancanza di fede di cui mi sento

colpevole, io con tutti i miei familiari ed amici!
Il Santo lo confessò, lo comunicò, rimandandolo poi in buona forma alla famiglia

commossa e sbalordita.

Nel gennaio del 1867, Don Bosco era ospite a Roma della famiglia De Maistre. Un figlio del Conte Eugenio, Paolino, di appena diciotto mesi, soffriva di un pericoloso ascesso alla gola che minacciava l'intossicazione del sangue. I chirurghi esitavano ad operare l'infermo, sia per la sua età tenerissima sia perché l'infezione era già molto estesa. Il mattino del 16 gennaio, prima di recarsi a celebrare la Messa, il Santo benedisse il bambino promettendo speciali preghiere.

Al ritorno dalla chiesa di San Carlo al Corso, Don Bosco trovò il piccolo malato notevolmente migliorato: pochi giorni dopo cominciava la convalescenza.

«Il loro bambino non può morire» aveva detto il Santo ai genitori affranti. “Il Signore vuol farne un sacerdote”.

I De Maistre tennero nascosta questa predizione al figlio fino al giorno in cui ricevette l'ordinazione sacerdotale. Il Padre Paolo De Maistre divenne infatti un apprezzato professore nei collegi francesi della Compagnia di Gesù.

Molte altre volte, Don Bosco predisse il futuro di bambini che gli venivano presentati, profetizzando per alcuni di loro un avvenire religioso.

Un giorno (è un esempio tra i tanti, ma particolarmente significativo perché dell'episodio fu protagonista un noto prelato) il Santo si recò in visita a Lu, la cittadina del Monferrato che fu anche patria di Don Filippo Rinaldi, secondo successore del Fondatore alla guida della Società Salesiana.

Don Bosco era già molto avanti negli anni e prossimo alla morte; la sua fama di santità era ormai tanto diffusa che anche a Lu tutta la popolazione andò incontro all'apostolo, portando con sé i bimbi e i malati.

Don Bosco avanzava a stento in mezzo a quella folla festante e implorante, quando una donna gli presentò il figlio di pochi anni che stringeva per mano. Il Santo si arrestò un momento e, accarezzando il

bambino, disse alla madre commossa: «Vostro figlio diverrà prete e avrà un giorno una

posizione di rilievo nella Chiesa”.
Quel bambino si chiamava Evasio Colli. Nel novembre del 1905 sarà ordinato sacerdote.

Consacrato Vescovo nel 1927, dal 1932 ha retto, con il titolo di Arcivescovo, quella Diocesi di Parma che, con le sue più che trecento parrocchie, è tra le più importanti d'Italia.

Nel gennaio del 1879, suscitò grande commozione a Marsiglia la guarigione di un bambino ottenuta dal Santo. Don Bosco lamentava che la casa per artigiani che aveva fondato da qualche mese nella città francese non fosse ancora solidamente stabilita. Un giorno, durante un soggiorno colà, gli si presentò una popolana accompagnata dal figlio di otto anni che, tutto rattrappito, con le gambe contorte, si trascinava sulle grucce. Don Bosco ne fu mosso a compassione e benedisse sorridendo paternamente il fanciullo. Immediatamente dopo il gesto di benedizione, le membra del piccolo paralitico cominciarono a muoversi, le gambe si raddrizzarono e il fanciullo, gettate le grucce, si mise a correre per la stanza come pazzo di gioia.

La notizia del miracolo si sparse in un baleno per la città: tutte le buone volontà, sino ad allora anch'esse rattrappite, furono come liberate dalla paralisi. L'istituto di Marsiglia prese un impulso che nulla riuscì più ad arrestare.

Sei mesi dopo il Santo, sollecitato da alcuni intimi a raccontare come si era operato quel prodigio, narrò che aveva semplicemente detto alla Madonna, pieno di fiducia: «Cominciamo!».

Per opera del Santo un altro piccolo marsigliese recuperò istantaneamente l'uso delle gambe, dell'udito e della parola. Il padre e la madre lo avevano condotto a Roma, sperando un miracolo dal pellegrinaggio nella Città Eterna.

Pio IX aveva voluto ricevere in udienza i genitori e, congedandosi, aveva detto loro:

- Andate a trovare Don Bosco a Torino. Ha operato guarigioni sorprendenti. Chissà che non possa ottenere la guarigione anche per il vostro figliolo.

I due erano allora partiti per Torino con il loro piccolo infermo: poteva avere quattro o cinque anni, non si reggeva sulle gambe e non aveva mai udito né pronunciato una sola parola.

Al vederlo, Don Bosco si commosse profondamente e invocò la Madonna mentre benediceva il fanciullo. Poi, presolo per mano, lo invitò con gli occhi a camminare. Il bambino cominciò davvero a

camminare, prima con passo incerto, poi sempre più sicuro. Il Santo gli si mise allora dietro e batté forte le mani. Il fanciullo si voltò: aveva udito.

“Su caro”, disse allora Don Bosco in francese, “dì' babbo, mamma». E subito il bambino ripetè, sia pure con fatica ed esitazione, quelle parole.

I genitori piangevano ancora di gioia mentre scendevano le scale della camera di Don Bosco per recarsi nel Santuario a ringraziare Maria Ausiliatrice.

Che dire ora degli episodi straordinari che stiamo per raccontare, se non che per il contenuto e il calore sembrano riportarci alcuni secoli addietro, al tempo della Leggenda Aurea? Alla lettura, qualche incredulo sorriderà. Eppure, ciascuno degli episodi ha avuto i suoi testimoni che hanno confermato più volte la veridicità dei fatti davanti a severe commissioni e sotto il vincolo sacro del giuramento.

Un nuovo alunno dell'Oratorio, dopo un mese di collegio, scriveva alla madre che egli non avrebbe mai potuto abituarsi a quel tipo di vita: venisse dunque a riprenderselo.

La mamma arriva e si prepara ogni cosa per la partenza. La mattina del giorno stabilito il ragazzo vuole confessarsi un'ultima volta da Don Bosco, ma i penitenti sono tanto numerosi che il suo turno non giunge se non all'ora in cui tutti i convittori si riuniscono per la colazione. Dalmazzo - così si chiamava il fanciullo - sta per cominciare la confessione quando il compagno addetto alla distribuzione del pane si avvicina a Don Bosco, sussurrandogli all'orecchio:

- Non c'è pane per la colazione!

- Impossibile! - ribatte sorpreso il Santo. - Cercate bene. Chiedete ai ragazzi che ne sono incaricati.

Passati alcuni minuti, il messaggero ritorna:

- Abbiamo cercato in tutti i ripostigli ma abbiamo trovato solo poche pagnottelle! Don Bosco pareva sempre più meravigliato.

- Se proprio non ce n'è, correte dal fornaio ad avvertire che porti quanto occorre.

- Il fornaio? Signor Don Bosco! È inutile. È in credito da noi di dodicimila lire e si rifiuta di darci ancora qualcosa se prima non è pagato.

- Bene, bene. Se è così, mettete nel canestro quello che avete potuto raccogliere. Il resto lo manderà il Signore. Verrò io stesso tra poco a fare la distribuzione.

Dalmazzo, che del dialogo non aveva perduto neppure una sillaba, fu colpito in modo particolare dalle ultime parole di Don Bosco e quando lo vide alzarsi dalla sedia, gli andò dietro. La sua curiosità era tanto più viva in quanto nei giorni precedenti si era parlato molto di fatti meravigliosi avvenuti all'Oratorio e nei quali Don Bosco aveva avuto parte.

Il ragazzo si mise dietro al Santo e contò le pagnottelle che stavano nel canestro. Ce n'erano quindici e i ragazzi che aspettavano di mangiare erano trecento.

“Quindici per trecento! Trecento per quindici!” diceva tra sé il ragazzo, senza riuscire a capire come il prete se la sarebbe cavata.

Cominciò la fila. Ognuno passò e ricevette la sua pagnottella. Il testimone guardava con occhi smarriti Don Bosco che non rimandava alcuno a mani vuote. Servito l'ultimo alunno, Dalmazzo contò quello che era restato nel fondo del canestro: quindici pagnottelle, né più né meno. Quindici pagnottelle, come all'inizio della distribuzione prodigiosa. L'effetto fu che il piccolo Dalmazzo disse alla mamma di non voler più partire da un luogo in cui avvenivano simili fatti. Divenuto sacerdote, Don Dalmazzo fu il primo Curato della Parrocchia del Sacro Cuore a Roma e il primo Procuratore generale della Congregazione Salesiana presso la Santa Sede.

Negli ultimi anni della sua vita, il Santo aveva l'abitudine di riunire ogni settimana gli alunni della quinta ginnasiale per una breve conferenza spirituale. Il 1° gennaio del 1886 i ragazzi, finita la conversazione, vollero presentare al Padre gli auguri per l'anno nuovo. Erano circa trentacinque, come raccontò uno dei testimoni della scena, Don Saluzzo, allora assistente. Don Bosco, dopo averli ascoltati e ringraziati, sospirò commosso: «Come mi piacerebbe potervi regalare qualcosa!”. Così dicendo, cercava attorno a sé, quando scorse sul tavolo un sacchetto che conteneva nocciole regalategli da un ragazzo giunto dalla campagna. Si mise subito ad attingervi a piene mani, dandone una bella manciata allo studente che gli stava più vicino.

Gli altri si misero a ridere: era evidente che, se avesse continuato con quella larghezza, le nocciole sarebbero bastate e a fatica per tre o quattro di loro. Invece, con enorme sorpresa di tutti, la distribuzione continuò e ognuno ne ebbe quante ne potevano contenere le mani riunite.

Quando tutti furono accontentati, fu fatto notare a Don Bosco che tre alunni mancavano alla riunione e che sarebbero stati addolorati

di non avere ricevuto la loro parte. Immediatamente, egli rimise la mano nel sacchetto e ne tirò fuori quante nocciole bastavano.

Quei ragazzi, finché vissero, non dimenticarono più il capodanno delle nocciole, sul quale testimoniarono unanimi ai processi canonici.

Del potere prodigioso con cui comandava alla natura, Don Bosco (lo vedemmo) era ben lungi dal menar vanto, raccomandando invece il silenzio, come schiacciato da un peso sovrumano.

Così, un giorno un salesiano, Don Stefano Trione, ritornando da una missione che aveva predicata nei dintorni di Torino, andò dal Santo a raccontargli come erano andate le cose. Don Bosco, quasi per rallegrarsi con lui, gli disse:

- Che ne diresti se ti ottenessi il dono dei miracoli?

- Oh, ben volentieri, Don Bosco! - rispose Don Trione. - In questo modo sarei sicuro di convertire facilmente i peccatori più induriti!

- Taci.' - replicò il Santo divenuto a un tratto pensieroso e grave. - Taci.' Se tu avessi questo dono, ben presto, piangendo, scongiureresti il Signore di togliertelo.

Egli stesso aveva chiesto un giorno a Domenico Savio come avesse potuto avere conoscenza di un avvenimento occulto a tutti.

“Savio”, scrisse Don Bosco, “Savio mi guardò con aria di dolore, di poi si mise a piangere. Io non gli ho fatto più ulteriore domanda”.

Lo sgomento del piccolo Domenico, Don Bosco lo comprendeva bene: condividevano, maestro e allievo, il peso di facoltà misteriose, ignote agli altri mortali, e la coscienza sconvolgente che Dio si serviva delle loro persone come di mezzo per far balenare la sua gloria.

Dio permise che Don Bosco fosse gravato da un altro peso tremendo.

Anche nella sua vita, infatti, troviamo traccia di quelle manifestazioni diaboliche che raramente mancano nella vicenda terrena dei Santi.

La sensibilità moderna preferisce spesso sorvolare sul problema del principe di questo mondo, come lo chiamò Gesù che di Satana parlò decine di volte nel suo Vangelo.

Eppure, anche per questo capitolo della biografia di Don Bosco, ci troviamo di fronte a testimonianze numerose, precise, circostanziate, rese dal Santo stesso e da chi gli fu vicino.

Tra queste testimonianze, riportiamo per prima quella, autografa, di Giovanni Cagliero, che fu particolarmente vicino al padre in quella prova spaventosa.

«Nei primi giorni di febbraio del 1862”, scrisse il futuro Cardinale, “noi ci eravamo accorti che la sanità del Servo di Dio andava di giorno in giorno deperendo: lo vedevamo pallido, abbattuto, stanco più del solito e bisognoso di riposo. Gli si domandò qual fosse la causa di così grande spossatezza e se non si sentisse bene. Allora egli rispose:

- Avrei bisogno di dormire! Sono quattro o cinque notti che non chiudo più gli occhi. ¦ - E dorma! - gli dicemmo. - E di notte lasci ogni lavoro.

- Non è che io vegli volontariamente, ma vi è chi mi fa vegliare contro voglia.
- E come va la cosa?
- Da parecchie notti - rispose - lo spirito folletto si diverte a spese del povero Don

Bosco e non lo lascia dormire; e vedete se non ha proprio buon tempo. Appena addormentato, mi sento un vocione all'orecchio che mi stordisce, ed anche un soffio che mi scuote come una bufera, intanto che mi rovista e disperde le carte e mi disordina i libri. Correggendo a sera tarda il fascicolo delle Letture Cattoliche intitolato La potestà delle tenebre e tenendolo perciò sul tavolino, levandomi all'alba, talora lo trovai per terra e tal'altra era scomparso e dovevo cercarlo or di qua or di là per la stanza. È curiosa questa storia. Sembra che il demonio ami di starsene con i suoi amici, con quelli che scrivono di lui! - A questo punto sorrise e poi continuò: - Sono tre notti che sento spaccare le legna che stanno presso il caminetto. Stanotte poi, essendo spenta la stufa, il fuoco si accese di per sé e una fiammata terribile pareva che volesse incendiare la casa. Altra volta, essendomi gettato sul letto e spento il lume, incominciavo a sonnecchiare, quand'ecco le coperte tirate da mano misteriosa muoversi lentamente verso i piedi, lasciando a poco a poco metà della mia persona scoperta. Benché la sponda del letto alle due estremità sia alta, pure sulle prime volli credere che quel fenomeno venisse prodotto da causa naturale; quindi, preso il lembo della coperta me la tiravo addosso, ma non appena l'avevo aggiustata, di bel nuovo sentivo che essa andava scivolando sulla mia persona. Allora, sospettando ciò che poteva essere, accesi il lume, scesi dal letto, visitai minutamente ogni angolo della stanza, ma non trovai nessuno e ritornai a coricarmi abbandonandomi alla divina bontà. Finché il lume era acceso, nulla accadeva di straordinario; ma, spento il lume, dopo qualche minuto

ecco muoversi le coperte. Preso da misterioso ribrezzo, riaccendevo la candela e tosto cessava quel fenomeno, per ricominciare quando la stanza ritornava al buio. Una volta vidi

spegnersi da un potente soffio la lucerna. Talora il capezzale incominciava a dondolare sotto il mio capo, proprio nel momento che stavo per pigliare sonno; io mi facevo il segno della Santa Croce e cessava quella molestia. Recitavo qualche preghiera, di nuovo mi componevo sperando di dormire almeno per qualche minuto; ma appena cominciavo ad assopirmi, il letto era scosso da una potenza invisibile. La porta della mia camera gemeva e pareva che cadesse sotto l'urto di un vento impetuoso. Spesso udivo insoliti e spaventosi rumori sopra la mia camera, come di ruote di molti carri correnti; talora un acutissimo grido improvviso mi faceva trasalire”.

Si decise allora che Don Angelo Savio andasse ad appostarsi nell'anticamera di Don Bosco per vegliare sul suo sonno ed accertarsi della natura del fenomeno, ma verso la mezzanotte uno spaventoso rumore che andava sempre più crescendo lo mise in fuga. “Eppure”, nota sempre Mons. Cagliero, “Don Savio era un uomo fra i più coraggiosi e si era dimostrato impavido in molte occasioni, uomo che non temeva ostacoli e nemici, sempre pronto ad affrontare qualsiasi pericolo”.

La sera dopo si provarono a ripetere l'esperienza i chierici Bonetti e Ruffini ma quando i rumori puntualmente ricominciarono, un tremito fortissimo che li colse li costrinse a ritornare alle loro camere.

Così Don Bosco se ne rimase solo, ad aspettare pazientemente che finisse la persecuzione. Questa continuò tutto il mese di febbraio: Don Bonetti ce ne ha lasciato la cronaca particolareggiata, così come fu udita dalla bocca di Don Bosco.

«Vi assicuro», diceva il Santo dopo aver narrato una delle sue notti, «che se io avessi udito raccontare quanto ho veduto e sentito, non avrei certamente creduto. E non ci pare di vedere i fatti delle streghe che ci raccontava la nonna? Se io narrassi mai simili cose ai giovani guai!, morirebbero di paura».

Si rifiutava'di soddisfare l'ansiosa curiosità dei Salesiani, dicendo: “Quando si ha da raccontare qualche cosa, bisogna anche vedere se quel racconto sia di gloria a Dio e vantaggioso per la salute delle anime: ora questo mio racconto sarebbe inutile”.

Pur in mezzo al pandemonio notturno che si scatenava nella sua stanza, il Santo se ne stava tranquillo aspettandone la fine: «Paura non ne ho proprio” diceva. “Ribrezzo sì, ma paura no. Faccia pure

quello che vuole Satana; ora è il suo tempo; ma verrà pure anche il mio!”.

Dopo quasi un mese di insonnia completa, decise di rifugiarsi in casa di Mons. Moreno, Vescovo di Ivrea, “per vedere se lassù il demonio perdesse le sue tracce”. La prima notte, infatti, potè dormire, ma la seconda ripresero i rumori che continuarono per tutte le notti seguenti facendo accorrere nella sua stanza tutto l'episcopio, Vescovo compreso. Di ritorno a Torino, la notte tra il 3 e il 4 marzo, una mano misteriosa afferrò verso l'alba un cartello appeso al muro sul quale aveva fatto scrivere una delle sue massime e lo sbatacchiò per terra col rumore di una fucilata. Subito levatosi, Don Bosco trovò il cartello in mezzo alla stanza.

I giovani cominciarono allora speciali preghiere perché il Padre potesse ritrovare un po' di riposo: pian piano la persecuzione andò attenuandosi ma non cessò definitivamente che nel 1864.

Una sera che il Santo raccontava a un gruppo di giovani le tragedie di quelle notti:
- Io non ho paura del diavolo! - esclamò uno dei ragazzi.
- Taci! - disse Don Bosco con una voce severa che colpì tutti. - To non sai quale

potenza avrebbe il demonio se il Signore gli desse licenza di operare.
- Macché! Se lo vedessi lo prenderei per il collo e gli farei vedere io.
- Non dire sciocchezze, caro mio. Moriresti di paura al solo vederlo.
- Ma io mi farei il segno della croce!
- Questo lo fermerebbe per un solo momento.
- E lei come faceva a respingerlo?
- Il mezzo per metterlo in fuga ora lo conosco bene. Da quando l'adopero mi lascia in

pace.
- E qual è, signor Don Bosco? Forse l'acqua santa? - In certi momenti anche questa non basta.
- Ma quale allora?

- Io lo conosco, l'ho adoperato e so quanto sia efficace!
Su questo mezzo non volle dire altro. Ma, dopo un istante di silenzio:
- Quello che è certo è che non auguro a nessuno di trovarsi nei momenti terribili in cui

mi sono trovato io. E voi dovete pregare tutti perché Dio non permetta mai più al nostro nemico di farci simili scherzi!

Migliaia di altre testimonianze, però, attestano come Dio parlasse a quell'umile prete la notte, in sogno, e come i sogni avessero una puntuale conferma nella realtà.

“Parlare di Don Bosco e non parlare dei suoi sogni” ha scritto Don Lemoyne “sarebbe sollevare un'ondata di proteste. - E i sogni? - domanderebbero tutti gli antichi alunni, meravigliati dell'omissione”.

Infatti, per più di sessant’anni il Cielo gli manifestò la sua volontà con questo mezzo singolare.

Il primo e il più importante dei sogni del Santo risale, come sappiamo, all'età di nove anni. L'ultimo è dell'8 dicembre 1887, un mese e mezzo prima della sua morte: la Madonna gli apparve in sogno suggerendogli l'apertura della casa salesiana di Liegi, nel Belgio.

Don Bosco da principio era molto guardingo verso quei messaggi notturni che sollevavano davanti ai suoi occhi i veli dell'avvenire, gli scoprivano il fondo delle coscienze, gli indicavano la via per la quale incamminarsi, il metodo da seguire o il pericolo vicino. Qualche volta, anzi, considerava quei sogni come semplici giochi della fantasia. Eppure, troppo spesso era costretto a ricredersi.

Spesso la parola rassicurante di Don Cafasso, suo confessore, non bastava ad acquietare i dubbi e il Santo, per quanto poteva, metteva il sogno alla prova. Così, dopo una notte durante la quale gli era stato mostrato in sogno lo stato di coscienza dei ragazzi del Collegio, chiamò uno dei giovani visti durante la notte, poi un secondo ed un terzo. “La tua anima non ha forse da rimproverarsi questo o quello?” domandava a ciascuno. Tutti confessarono sbalorditi che non si ingannava e il veggente dovette concludere che il sogno gli aveva mostrato il vero.

Con il passare degli anni, vedendo immancabilmente realizzarsi nella realtà quanto la notte gli mostrava, non ebbe più incertezze e andò avanti, finalmente persuaso che il Cielo aveva scelto quella via misteriosa per rivelargli ciò che da lui si voleva. ,

Uno dei segreti della gigantesca attività svolta da Don Bosco a dispetto di ogni ostacolo sta dunque nella sua ferma determinazione di piegare le circostanze e gli uomini a tradurre in pratica le visioni balenategli nel cuore della notte.

“I disegni di Dio, ben conosciuti” rivelava un giorno ai suoi figli di Valdocco «mi hanno spinto sempre avanti; ecco perché né le avversità, né le persecuzioni né i peggiori ostacoli hanno potuto abbattere il mio coraggio”.

Verso il 1854 cominciò a narrare ai ragazzi, nella buona notte, i suoi sogni: non occorre descrivere l'attenzione con cui erano ascoltati e la commozione che destavano, soprattutto quando annunciavano morti imminenti, manifestavano con parole velate i segreti delle coscienze, indicavano mezzi per perseverare nel dovere o predicevano pubblici avvenimenti. Il sermoncino della sera spesso non bastava ad esaurire il racconto di quei sogni di cui pure Don Bosco non dava che le grandi linee.

Una gran parte delle visioni si riferiva alla missione del Santo e all'avvenire della sua opera.

A nove anni, infatti, intravide in sogno l'apostolato cui era chiamato; a sedici presagì che Dio avrebbe messo a sua disposizione i mezzi indispensabili per compierlo; a diciannove una voce misteriosa gli fece intendere che non aveva il diritto di sottrarsi ai disegni di Dio; a ventuno un'altra rivelazione notturna ribadì che la sua carità e il suo apostolato dovevano avere per oggetto la gioventù povera e abbandonata; a ventidue anni vide chiaramente che a Torino avrebbe dovuto compiersi la sua opera.

Nel 1861, poi, si vedrà trasportato in sogno in una grande piazza di Torino: qui un

personaggio misterioso girava una ruota di cui ogni giro, come subito comprese, rappresentava dieci anni di storia della sua Opera. Al primo giro, sembrò a Don Bosco che il rumore prodotto dalla macchina fosse udito soltanto da lui e da qualche altro che gli era accanto; al secondo giro, l'udiva tutto il Piemonte; al terzo giro tutta l'Italia; al quarto l'Europa e al quinto il mondo intero.

La profezia era chiara: la Società Salesiana era destinata da Dio ad estendersi su tutti i continenti.

C'è, fra i moltissimi, un sogno che sembra staccarsi dagli altri nei quali il messaggio era per lo più coperto da simboli. Una notte, Don Bosco vide che gli regalavano a Marsiglia una sontuosa villa di cui potè osservare i minimi particolari. Ne scrisse allora ai suoi amici residenti in quella città, descrivendo l'edificio e pregandoli di individuarlo.

Si credette ad una trovata scherzosa; tuttavia, per fargli piacere, si batté la città e i dintorni senza riuscire a trovare nessuna proprietà che corrispondesse, anche parzialmente, alla descrizione. Qualche anno dopo, nel 1884, Don Bosco passeggiava in località Sainte- Marguerite, alla periferia del grande porto francese in compagnia del canonico Guiol, curato della parrocchia marsigliese di San Giuseppe. Quel sacerdote, ad un tratto, indicò al Santo una casa che apparteneva

ad una benefattrice; la proprietà era chiusa ed impossibile vedere all'interno, essendo sbarrato il cancello del giardino. Soltanto una parte della facciata era visibile.

All'indicazione distratta del canonico Guiol, Don Bosco si fermò di colpo, mentre il suo volto assumeva l'espressione di uno stupore indicibile. “Ci siamo!” esclamò davanti all'ecclesiastico sbalordito. “È proprio questa! Dietro quel muro c'è un gran viale di platani disposti a semicerchio; in fondo, due colonne massicce sormontate da statue di leoni; a sinistra c'è un prato, poi un ruscello ed una grande quercia. Dio sia lodato! L'abbiamo trovata!».

I particolari erano naturalmente esatti e poco dopo, in seguito ad una serie di avvenimenti imprevedibili, la villa di Sainte-Marguerite era donata ai Salesiani perché vi stabilissero un collegio.

Poco tempo prima della morte del Santo, il 7 dicembre,1887, giungeva a Valdocco Mons. Doutreloux, Vescovo di Liegi, venuto espressamente dal Belgio per chiedere che nella sua città si stabilisse una Casa salesiana.

Il Capitolo Superiore, riunito da Don Bosco la sera stessa, non vedeva altra risposta che una dilazione illimitata, non avendo la Congregazione religiosi sufficienti per procedere ad una nuova fondazione.

Anche Don Bosco sembrava essersi arreso alla realtà quando il giorno dopo,, festa dell'Immacolata, con sorpresa generale promise all'illustre visitatore che entro pochi mesi si sarebbero trovati i Salesiani da inviare a Liegi.

Perché quell'improvviso cambiamento di decisione?

È che ancora una volta, misteriosamente, “voci” soprannaturali avevano spinto Don Bosco in una direzione diversa da quella consigliata dalla prudenza umana, come attestano le righe che, appena alzato, dettò al suo segretario: «Parole testuali pronunciate dalla Vergine Immacolata che mi apparve questa notte: Piace a Dio ed alla Madre Sua che i figli di San Francesco di Sales aprano a Liegi una casa in onore del SS. Sacramento. In quella città furono resi i primi onori pubblici all'Ostia Santa. Da quella città si spargeranno i Salesiani per propagare il culto dell'Eucarestia nelle famiglie e particolarmente in mezzo ai giovani che in tutte le parti del mondo saranno affidati alle loro cure”.

Sino alla fine dell'esistenza, dunque, il Cielo sembrava intervenire per indicargli la strada della maggiore gloria di Dio.

E quando più palese e impressionante si rivelava quell'intervento, Don Bosco si turbava nel più profondo dell'anima.

Così, a Pinerolo, nel silenzio del giardino del vescovado, coloro che gli erano vicini lo videro piangere. Aveva aperto una lettera nella quale, con termini perentori, gli si intimava il pagamento immediato di trentamila lire.

Una somma gigantesca. Non si scompose, però, secondo il suo solito.

Aperse la seconda delle lettere che teneva in mano: era il biglietto di una signora belga che gli annunciava di avere spedito quel giorno stesso trentamila lire per i bisogni dell'Opera salesiana.

A quella lettura, anche la sua calma proverbiale non resse. Con le due lettere in mano, Don Bosco piangeva senza ritegno, mormorando a chi gli era accanto: «Come ci vuole bene la Madonna!».

CAPITOLO X.

Per la Chiesa ed il Papa.

Al termine di un'udienza che nel gennaio del 1875 Pio IX concesse al Santo, pregato da Don Bosco di dargli una parola d'ordine da portare ai suoi Salesiani ed ai suoi giovani, il Papa si raccolse un momento e disse: Raccomandate a tutti l'obbedienza e la fedeltà al Vicario di Cristo.

- Direi che va giusto bene! - esclamò Don Bosco. - Mi restava da dire a Vostra Santità una cosa che avevo annotata su questo pezzetto di carta.

Pio IX volle vedere e lesse: “Nell'ultima udienza, prima di partire, assicurare Sua Santità dell'obbedienza e della fedeltà di tutti i Salesiani e di tutti gli alunni”.

- Vedete dunque come andiamo d'accordo! - esclamò Pio IX. Obbedienza e fedeltà al Pontefice romano furono tra le virtù che per tutta la vita il Santo si sforzò di trasfondere nei suoi figli. La sua vita intera di apostolato potrebbe simbolicamente racchiudersi tra due episodi che dicono quale fosse la sua devozione alla cattedra di Pietro.

Nel 1848, scoppiata a Roma la rivoluzione, papa Pio IX che sino a qualche mese prima era stato l'idolo dei patrioti, doveva rifugiarsi a Gaeta, nel territorio del Regno delle Due Sicilie.

L'esilio forzato commosse il mondo cattolico che pensò di aiutare il Pontefice fondando l'opera dell'Obolo di San Pietro. Dappertutto si aprirono sottoscrizioni e a Torino l'apposito Comitato fu non poco sorpreso nel vedere un giorno l'Oratorio di Don Bosco figurare tra i sottoscrittori per la somma, modesta e favolosa al tempo stesso, di trentatré lire. Quei poveri ragazzi, che ricevevano dal Santo cinque soldi per comprare qualcosa da mangiare dopo la minestra o la polenta, avevano economizzato sulla loro miseria per raccogliere quell'obolo di cui Pio IX, commosso fino alle lacrime, ringraziava alcune settimane dopo, a mezzo del suo Nunzio a Torino.

L'episodio avveniva proprio all'inizio dell'apostolato del Santo. Ed ecco che cosa egli mormorava il 23 dicembre del 1887 sul letto di morte al suo Arcivescovo, il Cardinale Alimonda, che si era recato a fargli visita:

«Tempi difficili, Eminenza! Passiamo tempi difficili. Ma l'autorità del Papa. L'ho detto a Mons. Cagliero perché lo ripeta al Santo Padre: i Salesiani stanno per la difesa dell'autorità del Papa dovunque essi lavorino”.

Questa vita che, sul finire, poteva giustamente gloriarsi di avere ben servito il Vicario di Cristo, trascorse sotto due pontificati: quelli di Pio IX e di Leone XIII.

Don Bosco conobbe per la prima volta Pio IX nel 1858. Era andato a Roma, come sappiamo, nella primavera di quell'anno per gettare le basi del riconoscimento canonico della sua Congregazione. Il Papa

10 conosceva solo di fama e, volendo vedere alla prova l'uomo che Torino già considerava come un grande apostolo, gli chiese di predicare alle detenute delle carceri

romane. Il Santo accettò di buon grado e la sua parola semplice, ma ricca di dottrina e di esempi, commosse il cuore di quelle infelici; l'esito della predicazione fu consolante.

Il Papa se ne rallegrò alcuni giorni dopo in una seconda udienza e, a segno della sua gratitudine, comunicò a Don Bosco che l'avrebbe insignito del titolo di Monsignore, nominandolo “cameriere segreto”. A quelle parole l'uomo di Dio sobbalzò: «Santo Padre, di grazia, riserbi questo onore ad altri più degni! Bella figura farei in mezzo ai miei birichini con una veste paonazza! Quei poveri ragazzi non mi riconoscerebbero più, perderei tutta la loro confidenza. E poi, i benefattori della mia Opera mi crederebbero diventato ricco; non avrei più il coraggio di andare a stendere la mano per i miei figlioli. No, no, Santo Padre! Mi lasci restare il povero Don Bosco”.

Dalla benedizione papale ricevuta prima di partire, Don Bosco e Don Rua capirono che ormai l'Opera salesiana aveva a Roma un grande amico, un amico che non cessò mai di dispensare i suoi benefici sulle imprese del Santo.

Con Don Bosco, Pio IX fu prodigo di consigli, di favori, di stima, di fiducia.

Abbiamo già veduto quanto le esortazioni, i consigli, gli interventi del Papa giovassero non solo alla nascita ma allo sviluppo e al consolidamento delle due Congregazioni Salesiane.

La benedizione del Papa era assicurata per ogni nuova iniziativa di

Don Bosco. Fin dal primo incontro con il Santo, il Pontefice gli dette facoltà di confessare in omni loco Ecclesiae, in ogni luogo della Chiesa e, senza che Don Bosco gliel'avesse domandata, gli concesse la dispensa dalla recita del Breviario nei giorni di lavoro eccessivo.

E non era meno generoso davanti alle necessità materiali di quel povero prete di Torino sempre assillato dalle scadenze finanziarie! Nella prima visita di congedo che gli fece il Santo, Pio IX gli regalò qualche centinaio di lire per pagare una merenda ai ragazzi degli Oratori. Per l'erezione delle due chiese costruite a Torino, non mancava di inviare somme cospicue. Alla seconda partenza di missionari salesiani, tirò fuori dal cassetto un altro buon gruzzolo. Un giorno che Don Rua era stretto da bisogni urgenti, gli dette ventimila lire in una volta sola.

Testimonianze di bontà che accompagnavano le prove di stima e di fiducia di cui il Papa onorava il Santo. Oggi lo incaricava di una missione sommamente delicata: assicurarsi che il clero delle parrocchie di Roma impartisse regolarmente l'istruzione catechistica; domani, e a due riprese, l'accoglieva benevolmente quale plenipotenziario incaricato di risolvere lo spinoso problema della nomina dei Vescovi in più di cento Diocesi vacanti; alcuni giorni dopo lo pregava di collaborare alla compilazione delle liste dei candidati all'Episcopato e accettava tutti i nomi che egli aveva proposti; un'altra volta gli affidava la riforma di un Istituto romano che avrebbe voluto fosse incorporato nella Società Salesiana.

Regnante Pio IX, per quattordici volte Don Bosco andò a Roma e quasi ad ogni viaggio il buon Papa gli dette prova di una stima che avrebbe fatto insuperbire chiunque altro. Arrivò sino al punto di mettere a sua disposizione la carrozza pontificia o di concedergli udienza mentre era a letto, malato. Da quella visita, avvenuta nel 1877, il Santo riportò un affettuoso ricordo: “Figurati” riferiva a Don Rua scendendo le scale del Vaticano “Figurati che il Santo Padre mi ha ricevuto stando a letto. Quel letto, se l'avessi visto! Povero e basso come quello dei nostri ragazzi. Nemmeno un piccolo tappeto per posare i piedi, scalzandosi. La camera ha il pavimento di mattoni tutti vecchi, tanto che bisogna guardare bene per non inciampare. Pio IX, sapendo che ci vedo poco, mi guidava con la voce: Non da quella parte, Don Bosco! C'è un buco! Di qua! Un bell'esempio di povertà, nel capo della Chiesa! Che spettacolo vedere il Vicario di Cristo vivere in quelle strettezze!”.

Perché, da parte del Papa, tanta benevolenza per l'Apostolo di Torino? Evidentemente Pio IX, con l'intuito degli autentici uomini di

Dio, aveva subito compreso quale devoto servitore avesse in Don Bosco la Chiesa e quale fosse l'importanza storica dell'opera da lui intrapresa.

Da parte sua, Don Bosco manifestò sotto mille forme, durante tutta la vita, la propria fedeltà al Papato.

Scrittore popolare e direttore delle Letture Cattoliche, le biografie dei Pontefici Romani ebbero sempre le preferenze della sua penna: nei primi otto fascicoli del periodico pubblicò le biografie di ventun Papi della Chiesa primitiva. Scriverà poi la Storia della Chiesa, destinata a ispirare nei giovani l'amore per i successori di Pietro.

Nel novembre del 1859, egli scriveva una lettera nella quale esprimeva la sua partecipazione alla prova del Papa per le conseguenze della seconda guerra d'indipendenza italiana nei territori dello Stato Pontificio. Nel gennaio dell'anno seguente, Pio IX rispondeva con un Breve traboccante di paterna riconoscenza. In quei mesi di tensione non ci voleva molto per appiccare fuoco alle polveri, tanto più che il numero di aprile delle Letture Cattoliche riportava la traduzione della risposta del Papa al Santo. Da qui alla conclusione che la casa di Don Bosco era un focolaio di cospirazione e che essa albergava uomini che tramavano con l'Arcivescovo esiliato, con Pio IX e con i Gesuiti, mancava solo un passo. Così il 26 di maggio e il 9 di giugno del 1860 l'Oratorio salesiano fu per sette ore continue sottoposto a perquisizione.

Sui dolorosi fatti, primi di una serie di misure poliziesche, Don Bosco scrisse di persona una “Memoria che servisse di norma qualora la Divina Provvidenza permettesse che talun nostro socio dovesse trovarsi in casi simiglianti”.

Quelle pagine scritte “a caldo” sono una preziosa, commovente testimonianza del modo di agire di Don Bosco. Le riportiamo dunque in parte perché in esse il Santo sembra rivivere con la sua carità che non esclude la difesa aperta del proprio diritto, con il suo humour, la sua tollerante esperienza di uomini, in una parola col suo stile inconfondibile:

“Erano le due pomeridiane, in giorno di sabato”, dice dunque la Memoria, «quando mi si presentò una caritatevole persona che con

una lettera del Ministro dell'Interno accompagnava un povero fanciullo. Mentre la stavo leggendo sul ripiano della seconda scala, ecco giungere tre uomini signorilmente vestiti che dicono:

- Abbiamo bisogno di parlare con Don Bosco.

- Eccomi, abbiano pazienza un momento. Deliberato quanto riguarda questo ragazzo, sarò ai loro comandi.

- Non possiamo attendere.
- In che li posso servire, se hanno tanta premura? - Dobbiamo parlare in confidenza.
- Vengano nella camera del prefetto.
- Non nella camera del prefetto, ma in camera sua. - Ma chi siete voi?
- Noi siamo qui per una visita domiciliare.

Allora capii chiaramente quello di cui fin da principio io dubitavo. Presi pertanto a parlare così:

- Avete con voi qualche scritto?
- No; ma costui è l'avvocato Tua, Delegato di pubblica sicurezza.
- Questi due sono l'avvocato Grasselli e l'avvocato Fumagalli che rappresentano il

Fisco.
In quel momento si sparsero per le scale, pel cortile, alla porta, parecchie guardie di

pubblica sicurezza, mentre un corpo d'altre guardie bene armate stava in sentinella fuori dallo stabilimento. Il Delegato di pubblica sicurezza con voce alta e severa ripigliò:

- Ci conduce adunque in sua camera?

- Io non posso e non vi condurrò in mia camera, fino a tanto che non mi facciate vedere chi vi manda e con quale autorità e per quale ragione. Guardatevi bene dal venire ad opera di fatto, perché in tal caso io chiamerei i miei figli in aiuto, farei suonare le campane e considerandovi come aggressori e violatori del domicilio altrui, vi sforzerei ad allontanarvi di qui. Voi potrete, è vero, tentare di condurmi in prigione colla violenza, ma in questo caso voi

commettereste un'azione biasimevole in faccia a Dio e in faccia agli uomini e forse con cattive conseguenze e con vostro danno.

A queste parole una guardia si avvicina per mettermi le mani addosso, ma il Delegato lo impedì soggiungendo:

- Per quanto è possibile facciamo le cose senza guai. Andate a prendere il decreto che esiste nell'uffizio del questore.

In quel lasso di tempo io ho terminato il colloquio col ragazzo raccomandato che, tutto sbalordito a quella discussione, da lui certamente non intesa, stava aspettando una risposta definitiva. Venne

accettato e, se non iscambio il nome, credo fosse il giovane Rattazzi, nipote del celebre Urbano Rattazzi.

Fu allora che una voce sparsa per tutto lo stabilimento fece persuasi i nostri giovinetti come si voleva condurmi in prigione. Un'agitazione ed una specie di furia li invase tutti, mentre una scelta dei più coraggiosi e arditi si avvicinano e sottovoce mi dicono:

- Permette?

- No, risposi tosto, vi proibisco ogni parola, ogni tratto che possa offendere chicchessia. Non abbiate alcun timore; io aggiusterò tutto, e voi andate tutti a compiere i vostri doveri.

Giunse finalmente il commesso, e allora il Delegato si cinse della sciarpa questurale; e con cinque poliziotti ai fianchi il rappresentante del Fisco con voce orribile disse:

- In nome della legge io intimo la perquisizione domiciliare al Sac. Giovanni Bosco.

Nel terminare queste parole mi dava a leggere il famoso decreto, in cui era ordinata la perquisizione anche al Can. Ortalda, a Don Cafasso Giuseppe, al Conte Cays ed altri. La parte che mi riguardava era concepita come segue: D'ordine del Ministero dell'Interno si proceda a diligente perquisizione nella casa del Sac. Bosco e siano fatte minute indagini in ogni angolo dello stabilimento. Egli è sospetto di relazioni compromettenti coi Gesuiti, coli'Arcivescovo Fransoni e colla Corte Pontificia. Trovata qualche cosa che possa gravemente interessare le viste fiscali, si proceda all'immediato arresto della persona perquisita.

Ritornato quello scritto a chi me lo aveva dato soggiunsi:

- Così stando le cose vi concedo pieno diritto di esercitare la vostra autorità e ciò fo unicamente perché mi è imposto dalla forza: andiamo in mia camera.

Pervenuti all'uscio di quella, nell'atto che io lo apriva, l'avvocato Tua in tono burlesco lesse le parole scritte al sommo delle medesima: Lodato sempre sia il nome di Gesù e di Maria.

Ho giudicato bene di arrestarmi dicendo: - E sempre sia lodato il nome - Poi mi volsi a tutti con dire: Toglietevi il cappello! - Ma vedendo che niuno obbediva ho replicato: - Voi avete incominciato: adesso dovete terminare col dovuto rispetto e comando ad ognuno di scoprirsi il capo! - Giudicarono bene di accondiscendere, ed io ho conchiuso: il nome di Gesù Verbo incarnato.

Entrati in mia camera, io mi abbandonai al loro arbitrio. Cominciarono a mettermi le mani addosso: quindi ogni saccoccia, il taccuino, il porta monete, le brache, il giustacore, la sottana, gli orli degli abiti,

lo stesso fiocco della berretta furono soggetto d'indagini, a fine di trovare, essi dicevano, il corpo del delitto. Siccome queste operazioni si facevano in modo grossolano, spingendomi in tutti i versi, io mi lasciai sfuggire le parole:

- Et cum sceleratis reputatus est.
- Che dice? - chiese un di loro.
- Dico che voi mi fate il servizio che altra volta alcuni prestarono al Divin Salvatore.

In un angolo eravi un cestone di carta straccia, di cenci, di spazzatura, e simili. L'avvocato Grasselli, avendo portato su quello lo sguardo, vide una busta di lettera col francobollo pontificio:

- A me questo! - esclamò. - Niuno tocchi!

- Guardie attente! - aggiunse il Delegato. - E custodite ogni cosa. Ciò detto si mise a far passare ad una ad una le buste delle lettere

e i pezzi di carta.
- Olà, ripigliò il Delegato, è bene di abbreviare le cose. Ci dia le carte che cerchiamo e

subito ce ne andremo.
- Abbiate la compiacenza di dirmi quali carte desiderate.
- Quelle che possono interessare le viste fiscali.
- Non posso darvi quello che non ho.
- Ma ella può negare di avere carte che possano interessare le viste fiscali? Scritti

riguardanti ai Gesuiti, a Fransoni o al Papa?
- Vi do piena soddisfazione, ma ditemi prima se voi credete a quello che vi dirò.
- Sì, purché ci dica la verità.
- Ciò vuol dire che voi non siete disposti a credermi, perciò è inutile ogni mia

asserzione.
- Ma si che ci crediamo - disse l'avvocato Fumagalli.
- Crediamo come al Vangelo - aggiunsero gli altri.
- Se voi mi credete, - risposi - andatevene pure pei fatti vostri, che né in questa

camera, né in alcun angolo della casa, voi troverete cosa che non convenga ad onesto sacerdote, perciò niente che, in questo senso, vi possa interessare.

- Eppure, - ripigliò l'avvocato Tua - fummo assicurati che esiste il corpo del delitto e che a forza d'indagini lo troveremo.

- Se non volete credermi, perché interrogarmi? Ora ditemi in buona grazia: siete persuasi che io sia uno sciocco?

- No certamente.

- Se non sono uno sciocco, non ho certamente lasciate cose compromettenti che potessero cadere nelle vostre mani, e le avrei

prima d'ora stracciate o trafugate. Ora continuate pure la vostra perquisizione.

Allora ogni armadio, baule, cancello, forziere, venne aperto, ed ogni minuta carta od altro oggetto confidenziale e non confidenziale si andava visitando.

Io mi sono messo ad uno scrittoio per soddisfare ad alcune lettere, la cui risposta era in ritardo.

- In questo momento, - mi disse il Grasselli - ella non può scrivere alcuna cosa senza che sia da noi veduta.

- Padronissimi - risposi - vedano pure e leggano quanto io scrivo.
Io adunque scriveva, ed essi in numero di cinque, leggevano, uno dopo l'altro, tutte le mie lettere. Ma avveniva che prima che una lettera fosse letta da ciascuno io ne aveva già

un'altra preparata da presentare: onde il Delegato ebbe a dire:
- Che facciamo noi qui? Perdiamo il tempo a leggere le lettere che scrive Don Bosco e

non terminiamo quanto forma lo scopo della nostra visita.
Si stabilì pertanto che uno solo leggesse le mie lettere e gli altri continuassero le

perquisizioni.
Nel visitare una specie di guardaroba trovarono chiuso un cancello:

- Che c'è qui? - chiesero con premura.
- Cose confidenziali, cose segrete, - risposi. - Io non voglio che alcuno apra.
- Che confidenza, che segreto! Venga tosto ad aprire.
- Non posso assolutamente. Credo che ognuno abbia diritto di serbare in segreto

quelle cose che gli possono tornare a onore o a infamia, perciò vi prego di passare ad altro: rispettate i segreti di famiglia.

- Che segreti d'Egitto! O viene ad aprire, o scassiniamo il forziere.

- Minacciando la forza, io cedo a quanto volete.
Aprii il forziere e l'avv. Tua volle impadronirsi di tutte le carte là entro contenute. Ma

quale non fu la sua meraviglia, o meglio la sua vergogna, quando si accorse che quelle carte non erano che note di olio, di riso, di paste, di pane, o del ferraio, del sarto, del calzolaio, note tutte da pagarsi.

- Perché mi corbella così? - mi disse l'avv. Tua.
- Non corbello nessuno: non volevo che i miei affari, i miei debiti, fossero a tutti palesi.

Voi avete voluto sapere e veder tutto. Pazienza! Almeno Dio vi ispirasse di pagarmi alcuna di queste note!

Si rise da tutti e si passò ad altro.

Tra le varie carte trovarono una lettera che qualche tempo addietro avevo ricevuto dal Santo Padre. Volevano prenderla e portarsela seco.

- Non voglio, - loro dissi - perché è l'originale: ve ne darò copia. Il giudice Grasselli verificò ogni cosa, parola per parola, e poi disse:

- Per noi è meglio questa copia, in cui vi è latino ed italiano, quindi assai più facile a intendersi.

Intanto che si andava rovistando in tutti i nascondigli, uno si mise a leggere un volume dei Bollandisti.

- Che c'è in questi libri? - disse.
- Sono libri dei Gesuiti che per niente loro riguardano: si passi ad altro. - Oh? Libri dei Gesuiti? Siano tutti sequestrati.

- No! - disse un altro - si osservi che cosa contengono. Si continuò a leggere oltre mezz'ora e poi disse:

- Vadano alla malora questi libri e chi li ha scritti, io ne capisco niente. Sono tutti latini. Se io fossi imperatore, io vorrei abolire il latino e proibire di stampare libri in questa lingua. Insomma che cosa contengono questi libri?

Risposi:
- Questo che voi andate leggendo contiene la vita di San Simone Stilita. Quest'uomo

straordinario, atterrito dal pensiero dell'inferno, pensando che aveva un'anima sola e temendo di perderla, abbandonò patria, parenti ed amici, ed andò a fare vita santa nei deserti. Visse molti anni sopra una colonna gridando sempre contro gli uomini che soltanto pensano a godersela, senza pensare alle pene eterne che nell'altra vita stanno preparate a coloro che vivono malamente sopra la terra.

- Basta, basta: se continua un poco questa predica, dovremo andarci tutti a confessare.

- Appunto, appunto. Oggi è sabato. Alle cinque di sera incominciano le confessioni dei miei cari giovani.

- Quest'oggi dunque ci confesseremo noi tutti.

- Bene, optime; si preparino; io impiegherò per loro assai volentieri tutta la sera, e con maggior vantaggio che non è la perquisizione.

In quel momento il chierico Roggero portò una bottiglia che bevemmo tutti insieme alla salute delle perquisizioni. Di poi ho ripetuto che io ero in ritardo nelle mie confessioni, perciò o lasciassero venire i miei giovani a confessarsi, oppure incominciassero eglino stessi a fare la loro.

- Io ne ho bisogno! - disse uno.
- Io anche! - aggiunse un altro.
- Io più di tutti, - concluse il Fumagalli.
- Dunque alla confessione! - replicai io.
- Se facessimo questo, - rispose il Delegato - che mai direbbero i giornali?
- E se voi andate a casa del diavolo, i giornali ed i giornalisti potranno andarvi a

liberare?
- Ha ragione, ma, cuntacc, basta! Verremo poi appositamente per questo.

Promisero però nel modo più formale di venirsi a confessare nel sabato successivo. Vennero difatti due superiori con tre guardie, e sembra che siano venuti con buona volontà, perciocché vennero più altre volte ancora.

Erano le sette di sera. Si era rovistato in ogni angolo della mia camera e della vicina libreria: ma le loro indagini riuscirono tutte infruttuose. Quelli erano tutti stimolati dall'appetito: io ero con insistenza chiamato da molti miei affari di famiglia: anzi i giovani

dello stabilimento, essendo soliti a venire in quell'ora in mia camera per confessarsi, cominciavano ad altercare con alcune guardie che li volevano respingere. Laonde si giudicò bene di venire ad un accomodamento e conchiudere quella giornata, cioè andarsene. Io mi opposi:

- Fate un verbale del vostro operato, poi partirete. Ubbidirono e dichiararono d'aver compiuto, col concorso del Sac. Don Giovanni Bosco «una diligente visita in tutti gli angoli, ripostigli, carte e libri esistenti nelle due stanze, che servono di abitazione del medesimo e che a fronte delle più esatte ricerche, nulla si rinvenne che interessar possa le viste fiscali”.

Oltre che per quei fatti, Don Bosco soffrì molto anche nel vedere per molti anni le Diocesi italiane mancare dei loro Pastori. Quarantacinque Vescovi erano in esilio; diciotto, già eletti dal Papa, non avevano potuto entrare nelle città di cui avevano ricevuto la cura pastorale; molti Vescovi defunti non avevano potuto avere un successore.

In Piemonte, per quindici anni, non si potè procedere ad alcuna nomina episcopale.

Nel capitolo seguente vedremo Don Bosco adoperarsi presso il Governo italiano per fare cessare quello stato di cose. Qui ricorderemo soltanto l'impegno con cui il Santo adempì al delicatissimo

incarico di collegare, a livello personale, il Vaticano con il Quirinale. Quanti passi e quante pratiche, quanta riflessione e quante discussioni gli costò quell'ufficio! Poi bisognò, per ordine del Papa, collaborare alla formazione delle liste dei futuri Vescovi; responsabilità gravissima cui Don Bosco si sarebbe sottratto volentieri. Ma Pio IX aveva espresso un desiderio e docile il Santo aveva come sempre ubbidito.

Verso la fine del 1869, l'8 dicembre, quando il Concilio Vaticano I aprì le sue sedute, Don Bosco avvertì che egli avrebbe potuto sostenere una parte modesta, ma utile, accanto a quella grande Assemblea i cui dibattiti dovevano approdare alla proclamazione del dogma dell'infallibilità pontificia. Partì quindi per Roma il 20 gennaio 1870 e, frequentando i luoghi ove si riunivano i Padri al di fuori delle sedute generali, moltiplicò la sua azione a favore del nuovo dogma, al quale si opponevano alcuni Padri. Tra questi era il Vescovo di Saluzzo, Mons. Gastaldi, che più tardi, su proposta dello stesso Don Bosco, occuperà la Cattedra episcopale di Torino. Il Santo seppe essere tanto convincente con l'amico che un giorno, in seduta plenaria, Monsignor Gastaldi prese improvvisamente posizione a favore della definizione del dogma dell'infallibilità, con un discorso che sconcertò gli amici della vigilia.

Talvolta Don Bosco portava al Papa il racconto di qualche visione o sogno da lui fatto e che poteva interessare il Vicario di Cristo.

Nel 1856, ad esempio, riferì a Pio IX di una visione avuta da Domenico Savio, il futuro Santo che sarebbe morto l'anno dopo all'età di quindici anni. Durante la Messa aveva avuto rivelazioni su alcuni avvenimenti della Chiesa cattolica in Inghilterra.

Mentre Don Bosco parlava, il Papa lo fissava con occhi penetranti e quand'ebbe finito: “L'avviso di questo fanciullo” disse “mi spinge a lavorare ancor più energicamente per la causa del cattolicesimo in Gran Bretagna. Ma voi, Don Bosco, voi stesso non avete mai avuto comunicazioni straordinarie?».

La domanda, fatta così all'improvviso, sconcertò il Santo che dovette confessare la verità e raccontare a Pio IX i suoi sogni principali. “Scriveteli - gli disse il Papa - scriveteli con tutti i particolari. Saranno un patrimonio prezioso per i vostri figli”.

Don Bosco promise; ma molti anni dopo, nel 1867, non ne aveva ancora fatto nulla. - E quel lavoro che vi avevo proposto? - domandò il Papa.
- Mi è mancato il tempo, Santo Padre.

- Ebbene, adesso non vi esprimo più un desiderio, ma vi do un ordine: bisogna scrivere! Ogni altro lavoro deve cedere davanti a questo.

Don Bosco questa volta obbedì. L'ingiunzione di Pio IX diede alla Società Salesiana quei

sei grossi quaderni in 8°, nei quali il Santo ha raccolto un tesoro di notizie sulla sua vita e sulle sue opere sotto il titolo di Memorie dell'Oratorio di San Francesco di Sales dal 1815 al 1855. La lettura di quelle pagine (che Don Bosco aveva fatto precedere da un preambolo in cui diceva tra l'altro: «Debbo anzitutto avvertire che io scrivo per i miei carissimi figli Salesiani con proibizione di dare pubblicità a queste cose sia prima sia dopo la mia morte”) confermò a tal punto il Papa nella convinzione che il Santo fosse favorito da lumi particolari, da voler seguire il suo consiglio in una circostanza drammatica.

Subito dopo la breccia di Porta Pia, infatti, mentre da ogni parte si consigliava il Papa di abbandonare Roma, Pio IX esitava. Finalmente, decise di rivolgersi a Don Bosco per averne un consiglio sul, da farsi. Il Santo, dopo aver pregato a lungo, inviò al Papa la sua risposta, nella quale, servendosi di un linguaggio allegorico di sapore biblico, consigliava di restare nella città occupata: La sentinella, l'Angelo d'Israele resti a guardia della rocca di Dio e dell'arca santa!

Un giorno Pio IX giunse a fare a Don Bosco una proposta che rivelava quale fosse l'affetto e la stima per lui: - Non potreste lasciare Torino - domandò il Papa - e stabilirvi a Roma? La vostra Congregazione ne soffrirebbe?

L'intenzione di Pio IX, si seppe poi, era quella di creare Don Bosco cardinale se avesse accettato di stabilirsi a Roma.

- Santo Padre, sarebbe la sua rovina! - fu la pronta risposta dell'Apostolo. Il Papa non insistette. A un amico intimo Don Bosco confidò che non avrebbe mai potuto risolversi ad abbandonare i suoi figli. L'amicizia dei due uomini fu messa alla prova anche dalla malizia degli invidiosi e dalle congiure dei nemici. “Ma che cosa sarà successo a Don Bosco?”, si chiedeva Pio IX alla fine del 1877. “Sono tre volte che gli scrivo ed egli non mi risponde!”.

Intanto, a Torino, Don Bosco si chiedeva perché certe sue lettere importanti al Papa restassero senza risposta. La spiegazione dell'enigma era purtroppo semplicissima: la corrispondenza di entrambi era vigilata e intercettata.

Le persone che a Torino, come vedremo, perseguitavano Don Bosco, si erano procurati dei complici sin dentro ai palazzi vaticani e per molto tempo Pio IX non ebbe notizia di quei maneggi sotterranei.

Così, per tre volte, nel dicembre del 1877, quelle manovre riuscirono a far negare all'Apostolo di Torino l'udienza che aveva chiesto al Papa.

Il colpo fu tanto più duro per il Santo perché egli sapeva che Pio IX non aveva più tanto da vivere: «Da qui a poco» prediceva Don Bosco in quel dicembre del '77 “assisteremo ad avvenimenti che commuoveranno il cuore di tutti”. Il 9 di gennaio del 1878, quasi a conferma, moriva al Quirinale Vittorio Emanuele II e il 7 di febbraio, all'alba, si spargeva per Roma la notizia che Pio IX stava per morire. La sera stessa di quel giorno il grande Papa spirava: il giorno prima del trapasso egli aveva ancora parlato di Don Bosco agli intimi che lo assistevano.

La devozione di Don Bosco per Pio IX non diminuì dopo la morte. In memoria del Pontefice defunto, come vedemmo, fu eretta a Torino la chiesa di San Giovanni Evangelista in cui la statua del Papa in piedi sembra eternare nel marmo la gratitudine di Don Bosco.

Alcuni giorni dopo la scomparsa di Pio IX, mentre in Vaticano un esercito di operai si affrettava a predisporre gli appartamenti per l'imminente Conclave, spinto tra quelle mura da un affare delicato, Don Bosco incontrò il Cardinal Pecci, Camerlengo della Chiesa. Il Santo si fermò di colpo, fissò in volto il prelato, e, con tutta semplicità:

- Vostra Eminenza mi permetta di baciarle la mano! - disse.
- Chi è lei? - chiese il Cardinale stupito.
- Sono un povero prete, che oggi bacia la mano di Vostra Eminenza e di qui a pochi

giorni spera di baciarle il piede.
- Le proibisco di pregare per questo!
- Ma non può proibirmi di domandare a Dio ciò che a Lui piace! - Ma chi è dunque lei che parla in questo modo?
- Sono Don Bosco!

A quel nome che da molti anni, ormai, correva per tutta la Chiesa, il Cardinal Pecci non

potè frenare un movimento di sorpresa. Ma, subito ripresosi:
- Andiamo, Don Bosco! È il momento di lavorare, non di scherzare!
E il Cardinal Camerlengo continuò la sua strada.
Otto giorni dopo, il 20 di febbraio del 1878, il Cardinal Vincenzo Gioacchino Pecci era

eletto Papa e prendeva il nome di Leone XIII.
Per alcune settimane, il Santo non potè avvicinare il nuovo Pontefice se non in udienza

generale. Finalmente, il 16 di marzo, si trovò il tempo di riceverlo privatamente.

Leone XIII non era Pio IX che, con un'accoglienza semplice e cordiale, dopo qualche minuto sapeva far scomparire ogni soggezione nel visitatore. Ma nonostante l'aspetto aristocratico, lo sguardo da cui traspariva l'intelligenza vivacissima, il tono grave della voce, le maniere che rivelavano la nobiltà della nascita, anche il nuovo Pontefice sapeva, seppure in modo diverso, soggiogare i cuori. Già in quel primo colloquio fu con Don Bosco di una straordinaria bontà; si informò minutamente di tutte le sue opere, gli dette consigli opportuni e gli ripetè quello che già gli aveva detto tante volte Pio IX: esserci cioè la benedizione di Dio in tutte le sue imprese.

«Coloro che negano il miracolo», disse testualmente il Papa, «si troverebbero assai imbarazzati se dovessero spiegare come, umanamente parlando, un povero prete possa riuscire a dare il pane quotidiano a migliaia di ragazzi- Bisogna confessare che li c'è il dito di Dio».

Due anni dopo, come vedemmo, Leone XIII ricorreva all'aiuto di Don Bosco, constatando con dolore che i lavori per la chiesa del Sacro Cuore all'Esquilino erano fermi per mancanza di fondi. Nonostante l'età e i crescenti acciacchi, Don Bosco accettò il formidabile peso, imponendo anzi la sua volontà ai suoi Salesiani riluttanti: come aveva detto il Cardinal Alimonda, un desiderio del Papa era per lui davvero un comando.

Questa leale e fedele devozione ricevette una delle più consolanti ricompense nella primavera del 1884. Il Santo era ritornato per l'ennesima volta a Roma, allo scopo di ottenere finalmente quei privilegi che, equiparando la sua Congregazione ad altre della Chiesa, l'avrebbero resa del tutto indipendente e libera, tra l'altro, di presentare i suoi membri agli Ordini sacri. Nel 1874 Don Bosco aveva ottenuto questa concessione ma solamente per un periodo di dieci anni. Un lungo memoriale, steso dalla mano stessa del Santo, elencava i privilegi concessi a diversi Ordini nel passato. Gli era sembrato che la sua richiesta, basata su così solidi argomenti, avrebbe ricevuto buona accoglienza. Purtroppo, Don Bosco si sbagliava.

Appena il Santo giunse a Roma, il Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari gli fece sapere che il memoriale doveva essere completato con indicazioni più precise, specificando in quale data, da quale Pontefice e a quali Istituti fossero stati concessi direttamente e in origine quei privilegi. Quando Don Bosco apprese che si esigeva da lui tutto questo, fu assalito (forse per la prima volta) dallo scoraggiamento. Egli era il solo a potere fornire le indicazioni supplementari,

perché da solo e con grande fatica aveva redatto il memoriale; ed ecco che doveva ricominciare lunghe ricerche in archivi e biblioteche!

“La testa non mi regge più!” diceva ad un confidente in quelle ore di sconforto. “Mi vedrò costretto a rinunciare ai privilegi. Ne chiederò alcuni, i principali, e poi ritornerò a Torino. Se me li vorranno concedere, tanto meglio. Se, no, pazienza! Si andrà avanti così!”.

Fu lo stesso Leone XIII che con un intervento personale risolse la spinosa questione. Il 9 di maggio Don Bosco veniva ricevuto in udienza privata durante la quale il Papa fu con lui di una gentilezza ancor più spiccata del solito: volle che il Santo si sedesse su una poltrona accanto a lui e con i segni della più premurosa sollecitudine gli domandò notizie della sua salute.

- Bisogna che vi curiate! - disse il Pontefice. - Non risparmiate nulla per questo. Finitela di strapazzarvi così! La vostra vita appartiene alla Chiesa tutta, e non solo alla Congregazione che avete fondata. Vedo che la vostra Opera si diffonde dappertutto, in

Francia, in Spagna, nelle Americhe, persino in Patagonia. La vostra vita, i vostri consigli, sono necessari a tutti questi figli. Se io fossi malato, voi fareste, ne sono sicuro, l'impossibile per ridarmi la salute. Ebbene, io voglio che vi trattiate allo stesso modo. Lo voglio, capite? Anzi, ve lo comando. La Chiesa ha bisogno di voi.

- Vostra Santità mi confonde - rispose Don Bosco sopraffatto dalla commozione. - Le prometto di obbedire ai suoi ordini.

- Benissimo! E ora che cosa avete da domandarmi? Non abbiate timore: sono disposto a concedervi tutto quanto mi è possibile.

- Santo Padre - rispose prontamente Don Bosco, deciso a non perdere l'occasione preziosa - voglia coronare l'edificio della Società Salesiana concedendole i privilegi che essa le domanda. Questi privilegi sono posseduti da altre Congregazioni con un numero di religiosi assai più limitato. I Salesiani sono già più di cinquecento e da parecchi anni chiedono questi favori senza poterli ottenere.

- Sta bene! - disse il grande Papa dopo un istante di riflessione. - Comunicate al Segretario della Congregazione dei Vescovi e Regolari di preparare i documenti e io li firmerò senza che seguano la procedura normale. Mi sarà tanto più facile questo sistema insolito in quanto alcuni vostri avversari in Vaticano non sono più qui. Il Papa, vedete, non sempre fa quello che vuole, ma adesso sarete soddisfatto. Caro, caro Don Bosco! Io vi amo di tutto cuore. Voglio essere tutto per i Salesiani, voglio che mi abbiate come il primo dei vostri Coope

ratori. Chi è nemico vostro è nemico di Dio: ne ho ora più che mai la certezza. Con mezzi meschini voi compite imprese grandiose. Coraggio! Coraggio! Il Papa, la Chiesa, il mondo cattolico vi ammirano e vi incoraggiano. Iddio stesso vi guida, vi sostiene, regge la vostra Congregazione. Ditelo, scrivetelo, predicatelo! In questa ispirazione e protezione divina risiede tutto il segreto delle vostre vittorie sopra gli ostacoli e i nemici che incontrate.

Gli ostacoli e i nemici, cui il Papa faceva allusione, da ormai dieci anni tormentavano il Santo e i suoi discepoli. Come vedremo in un prossimo capitolo, la croce che egli dovette portare fu spesso schiacciante e tanto più dolorosa in quanto coloro che lo tormentavano erano “quelli stessi che avrebbero dovuto aiutarlo”, secondo le parole di Pio XI.

A un certo momento gli avversari erano quasi riusciti a guadagnare alle loro vedute il Papa, sollevando come una nube di diffidenza attorno all'Apostolo di Torino. Ma ora ogni malinteso era dissipato e le parole di Leone XIII erano come una giusta riparazione delle sofferenze eroicamente sopportate da Don Bosco dal 1872 al 1882.

- Santità, - rispose Don Bosco al Papa in quel memorabile giorno - non ho parole per ringraziarla. Una cosa le posso assicurare: noi abbiamo sempre lavorato per sviluppare nei giovani l'affetto, il rispetto, l'obbedienza alla Santa Sede e al Vicario di Gesù Cristo. Quel po' di bene che abbiamo fatto, lo attribuiamo alla benedizione e alla protezione del Papa.

Nel corso del colloquio si affrontarono ancora diversi argomenti: in modo speciale si parlò delle missioni salesiane. Poi, dopo avere ricevuto un'ultima benedizione del Pontefice, Don Bosco uscì dallo studio del Papa appoggiato al braccio di Don Lemoyne, il fedele segretario e biografo. Per le scale gli uscì una parola rivelatrice del calvario che aveva dovuto salire in quegli anni.

- Mi ci voleva davvero questa accoglienza! - mormorò. - Non ne potevo più!

Don Bosco doveva accostare un'ultima volta il Papa alla vigilia della consacrazione della chiesa del Sacro Cuore, il 13 maggio 1887. Quell'udienza doveva essere come il suo congedo definitivo dal Vicario di Cristo. L'ultimo compito che questi gli aveva affidato era stato durissimo: più di una volta le sue stanche spalle erano state sul punto di piegarsi sotto il peso. Aveva potuto reggere sino alla fine, ma si sentiva ora sfinito ed aveva la certezza che i suoi giorni erano ormai contati.

Prima di lasciare il mondo, voleva rendere omaggio un'ultima volta a colui che agli occhi della fede rappresentava quel Cristo che tra poco avrebbe raggiunto.

“Prima di morire”, disse il Vegliardo entrando nello studio papale, “volevo rivedere

ancora una volta Vostra Santità e ricevere la sua benedizione. Eccomi oggi esaudito».
Ad ogni elezione del Superiore Generale dei Salesiani, si rileggono pubblicamente le norme confidenziali lasciate da Don Bosco per regolare questo atto importantissimo. Agli elettori che stanno per deporre la scheda nell'urna, il Santo ricorda che l'eletto deve possedere per lo meno tre qualità, di cui la terza è un'indiscutibile devozione alla Santa Sede

e a tutto ciò che ad essa si riferisce.

Don Bosco non è più su questa terra con il suo corpo mortale; eppure, per mezzo dei suoi successori, egli continua il suo instancabile servizio alla sede di Pietro.

CAPITOLO XI.

“Sempre e soltanto prete”.

È naturale che, riflettendo sulle date tra le quali si svolse l'attività del Santo, ci si rivolga questa domanda: “Quegli anni così tormentati del Risorgimento, tra la prima guerra italiana per l'indipendenza, sino alla celebre breccia del 1870, che significato ebbero per Don Bosco?”. Già facemmo qualche accenno alla crisi attraversata dagli Oratori nel 1848.

L'opera grandiosa di Don Bosco aveva bisogno almeno delle neutralità dei potenti: il prodigioso aumento dei suoi religiosi e delle sue case, infatti, richiamava l'attenzione degli uomini politici, le sue relazioni con il Vaticano stimolavano la curiosità inquieta del potere rivale. Quale fu l'atteggiamento del Santo in quelle difficili circostanze?

Ebbene, si può riassumere la posizione di Don Bosco dicendo che fu quello della indipendenza.

Lo disse un giorno egli stesso scrivendo: «In politica, io sono di nessuno”.

Egli era al di sopra di ogni partito: “La mia politica” ripeteva spesso “è quella del Pater Noster”. Si occupava cioè solo che “il Regno di Dio” fosse annunciato tra i figli del popolo. Tutto il resto non gli rubava né un pensiero della mente né un minuto di tempo. Il sacerdote (Don Bosco lo sapeva e lo affermava spesso) deve essere di tutti. Far parte di un partito (anche se sedicente “cristiano” o “cattolico”), prendere una tessera politica, significa precludersi irrimediabilmente il dialogo con gli uomini della sponda opposta, significa farsi “parte tra le parti”, significa avvilire il Vangelo facendone un'ideologia tra tante.

Ora, quante volte lo disse!, per compiere la sua opera egli aveva bisogno di tutti. Cavour, Crispi, Ricasoli, Rattazzi, tutti i capi irreligiosi o anticlericali del Risorgimento italiano furono suoi amici e benefattori, al pari di un Pellico, di un Gioberti, di un Rosmini. Nel suo

zelo di apostolo, egli pensava anche al destino eterno degli uomini che, completamente presi dalle passioni politiche, abbandonavano ogni preoccupazione religiosa. Non si chiama al capezzale di morte il prete partigiano, il prete politicante, ma quello che è stato conosciuto come pieno di carità e di comprensione verso tutti, qualunque sia stato il loro credo politico. “Il prete appartiene a tutti” scriveva Don Bosco-. “Egli appartiene anche a quei liberi pensatori che hanno fatto la nuova Italia, quell'Italia che manifestamente si mostra oggi anticlericale. Non dobbiamo volgere loro le spalle. Restando in contatto con quegli uomini si può provocare in loro l'inquietudine, il rimorso'».

Eppure, gli fu fatta una colpa di quelle amicizie nel mondo liberale, di quelle relazioni con avversari notori della Chiesa. Nella seconda metà del XIX secolo, Don Bosco fu infatti tra i pochissimi preti che, pur nell'assoluta fedeltà alla Santa Sede, seppero stare in costante contatto con i fondatori della nuova Italia.

Dopo i primi avvenimenti che prepararono la formazione dell'Unità, la grande maggioranza del clero, seguendo le indicazioni della Gerarchia, prese un atteggiamento di riserbo e talvolta di ostilità nei riguardi del grandioso moto nazionale. Molto rari furono i sacerdoti che osarono restare in contatto con coloro che, nella prospettiva limitata del tempo, sembravano diabolici usurpatori dei diritti della Chiesa e del suo Stato. Fra quei pochi preti coraggiosi fu Don Bosco. Egli, dovendo contare su tutti per assicurare la sopravvivenza della

sua Opera, doveva appoggiarsi anche agli anticlericali pur di compiere il bene. Diceva anche con un'immagine che dipinge bene la sua ansia apostolica: “Se tra me e un'anima da salvare si mettesse di mezzo il demonio in persona, aspettando da me una scappellata per lasciarmi passare, non esiterei un istante a fargli quell'omaggio!”.

Nel 1866, a Firenze, invitato da Bettino Ricasoli, allora Presidente del Consiglio, a prestarsi come intermediario per poter nominare 1 Vescovi in cento e più Diocesi, mise bene in chiaro che egli si prestava solo come sacerdote e non come cittadino piemontese o, peggio, “diplomatico”.

“Si ricordi, Eccellenza”, disse a Ricasoli, “che Don Bosco è prete all'altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, prete a Torino, prete a Firenze, prete nella soffitta del povero, prete nel palazzo del Re' e dei Ministri”.

La coscienza del problema del Risorgimento e la soluzione concreta formulata da Don Bosco è limpidamente riassunta in un discorso da

lui fatto al Capitolo Generale del 1877 (a sette anni cioè dalla presa di Roma): “Scopo nostro”, disse, «si è di fare conoscere che si può dare a Cesare quel che è di Cesare, senza compromettere mai nessuno: e questo non ci distoglie niente affatto dal dare a Dio quel che è di Dio. Ai nostri giorni si dice essere questo un problema ed io, se si vuole, soggiungerò che forse è il più grande dei problemi, ma che fu già sciolto dal nostro Divin Salvatore Gesù Cristo. Nella pratica avvengono serie difficoltà, è vero: si cerchi dunque di scioglierle non solo lasciando intatto il principio ma con ragioni e prove e dimostrazioni dipendenti dal principio e che spieghino il principio stesso. Mio gran pensiero è questo: studiare il modo pratico di dare a Cesare quel che è di Cesare nello stesso tempo che si dà a Dio quel che è di Dio. Nessuno è che non veda le cattive condizioni in cui versa la Chiesa e la Religione in questi tempi. Io credo che da San Pietro fino a noi non ci siano mai stati tempi così difficili. L'arte è raffinata e i mezzi sono immensi. E con questo? E con questo noi cercheremo in tutte le cose la legalità. Se ci vengono imposte tasse, le pagheremo; se non si ammettono più le proprietà collettive, noi le terremo individuali; se si richiedono esami, questi si subiscano; se patenti e diplomi, si farà il possibile per ottenerli; e così si andrà avanti. Bisogna avere pazienza, saper sopportare e invece di riempire l'aria di lamenti piagnucolosi, lavorare a più non si può dire, perché le cose procedano avanti bene. Questo principio, con la grazia del Signore e senza dir molte parole, lo faremo prevalere e sarà fonte di immensi beni sia per la società civile che per quella ecclesiastica”.

Un atteggiamento così realistico gli valse, come sappiamo, gli attacchi degli anticlericali che l'avrebbero voluto meno legato al Papa e l'accusa di liberalismo e di giacobinismo da parte dei cattolici reazionari, ma gli guadagnò però la fiducia delle parti interessate e gli permise di fare opera di conciliatore e mediatore tra Governo e Santa Sede.

Nel complesso quadro politico-sociale del Risorgimento, Don Bosco diviene una forza politica proprio in questo suo non voler “fare politica»: preoccupato solo della salvezza religiosa degli individui e della società egli prende atto della lezione della storia e ridimensiona la sua azione in modo da trarre il massimo vantaggio dalla nuova situazione.

Le prime relazioni di Don Bosco con la Corte di Torino risalgono al 1854. Esse ebbero per occasione la presentazione e la votazione della legge contro i beni ecclesiastici: era la famosa legge Rattazzi che Cavour, Ministro delle Finanze, vigorosamente appoggiava. Un giorno del

dicembre del 1854, entrando in refettorio per il pranzo, Don Bosco che teneva in mano un pacco di lettere, esclamò ad alta voce:

- Oggi ho scritto a tre personaggi importanti: al Papa, al Re e, al boia!.

All'udire quei tre nomi messi assieme, i chierici scoppiarono a ridere. Che Don Bosco avesse scritto al Papa e al boia, nessuno se ne meravigliava. Si sapeva che egli era in corrispondenza con la Santa Sede e si conoscevano anche benissimo le sue frequenti relazioni

con il personale delle carceri di Torino. Era la lettera al Re a stimolare la curiosità di tutti.
- Che cosa ha scritto al Re? - chiese un chierico.
- Un sogno che ho avuto questa notte - rispose. - Mi pareva di stare sotto i portici di

Torino, quando improvvisamente un valletto di corte tutto vestito di rosso, mi venne innanzi gridando:, Grande notizia! - Quale? - domandai io. - Gran lutto a Corte! Gran lutto a Corte! - mi gridò tutto affannato e scomparve. Allora questa mattina ho scritto a Sua Maestà per raccontargli senz'altro il sogno”.

Cinque giorni dopo, il sogno si ripetè e questa volta il valletto rosso ripetè due volte: “Grandi lutti a Corte!”. Per la seconda volta il Santo comunicò al Re la visione notturna che nel suo pensiero era come un avvertimento misterioso. Il duplice avviso non fu però ascoltato. La legge sulla soppressione dei conventi fu presentata alla Camera il 28 novembre 1854 e votata in modo definitivo dal Senato il 24 maggio 1855. Nell'intervallo era morta quasi improvvisamente, il 12 gennaio, la Regina Madre. Il 20 gennaio morì la moglie del Re, Maria Adelaide d'Austria. L'11 febbraio spirò il fratello del sovrano, Ferdinando di Savoia, Duca di Genova.

La vicenda suscitò allora molto clamore e non mancarono coloro che accusarono Don Bosco di ingerenza nella vita politica e di illecite pressioni su Vittorio Emanuele di cui è noto il temperamento emotivo. Eppure il Santo non aveva fatto altro che comunicare al Re, secondo coscienza, il contenuto di due di quei suoi sogni di cui conosceva per prova il valore profetico.

Alcuni anni dopo, nel 1865, la Corte, il Governo e il Parlamento si trasferirono a Firenze, semplice tappa in attesa dell'occasione propizia per giungere a Roma. Proprio a Firenze il Santo fu incaricato della sua prima missione politica per tentare di risolvere lo spinoso

affare della nomina dei Vescovi nelle sedi vacanti. Don Bosco, sensibilissimo al problema, alla cui soluzione vedeva legato il destino religioso dell'Italia, lavorò energicamente per adempiere la missione ricevuta. Saggiate a mezzo di amici le intenzioni del Governo italiano, gli fu riferito che questo sembrava disposto a intraprendere negoziati che ebbero difatti inizio con una lettera di Pio IX a Vittorio Emanuele II. Il Papa chiedeva al Re di “asciugare le lacrime della Chiesa d'Italia” offrendosi ad un accordo generoso.

Da li a poco, Don Bosco era convocato a Firenze quale intermediario ufficioso, mentre il Governo inviava a Roma un suo incaricato d'affari. Le trattative procedettero rapidamente e a mezzo di concessioni reciproche si giunse presto a un progetto di accordo accettabile da entrambe le parti: per i Vescovadi del Piemonte il Re stesso, secondo il Concordato Sardo, avrebbe presentato i suoi candidati; per le Diocesi delle altre regioni italiane, il Papa avrebbe nominato direttamente i Presuli, presentando tuttavia la sua lista al Re prima della Consacrazione episcopale; tranne qualche eccezione, ai Vescovi esiliati era data facoltà di ritornare subito nelle loro Diocesi. Il Papa respingeva però l'Exequatur governativo alle Bolle pontificie e il giuramento di fedeltà dei Vescovi a tutta la legislazione piemontese. Si era persuasi che su queste basi non sarebbe stato difficile giungere ad un accordo definitivo.

Disgraziatamente, però, trapelarono indiscrezioni premature e parte degli accordi venne a conoscenza di giornali irriducibilmente anticlericali che scatenarono una campagna di stampa contro il progetto di intesa.

Sotto la pressione dell'opinione pubblica così aizzata, il Governo fu costretto a ritornare sui suoi passi e il tentativo di pace riuscì soltanto a fare ritornare i Vescovi esiliati.

Un anno dopo ci fu maggiore fortuna. Per consiglio dello stesso Napoleone III nuove conversazioni ufficiose furono intraprese tra Firenze e Roma. Il Commendator Tonello, l'intermediario scelto dal Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli, era uomo abile e bene intenzionato; da un primo contatto riportò l'impressione che la Santa Sede avrebbe dato carta bianca al Governo per la scelta dei candidati nelle Diocesi nel territorio dell'antico Regno di Sardegna e anche in quello che era stato il Lombardo-Veneto, ma non avrebbe ceduto sulla nomina dei candidati alle Diocesi delle altre regioni né sulla presentazione delle bolle al Governo italiano. Le trattative si erano ormai arenate quando Don Bosco giunse a Roma. Egli aveva capito chiaramente che non si

sarebbe mai giunti a un accordo se entrambi le parti avessero continuato a considerare il problema sotto il solo aspetto politico.

- Bisogna cambiare il punto di vista! - dichiarò a Pio IX sin dal primo incontro.

- Non sarà cosa facile, mio caro Don Bosco - ¦ rispose il Papa profondamente amareggiato.

- Proviamo ugualmente! - ribatté il Santo, che non cominciava nulla per leggerezza ma nulla abbandonava per scoraggiamento.

Subito, infatti, si recò a fare visita al Cardinale Antonelli, Segretario di Stato, esponendogli un piano che rivelava una notevole accortezza e senso della realtà:

«Partiamo dal presupposto», disse Don Bosco, «della necessità di arrivare ad un accordo a qualunque costo: il bene delle anime prive dei loro Pastori nelle Diocesi vacanti conta più di ogni altra cosa. Pensiamo dunque ad una soluzione che, con qualche concessione da entrambe le parti, salvi gli interessi fondamentali. Ecco la mia soluzione: il Governo Italiano e la Santa Sede compileranno, ciascuno per conto proprio, una lista di candidati alle sedi episcopali senza distinzione di territori di antichi Stati. Saranno indicati, così, nomi per i Vescovadi di Toscana come per quelli del Piemonte, delle Romagne, del Napoletano e di ogni altra regione. Si confronteranno poi le due liste e i nomi che saranno stati indicati da entrambe le parti formeranno l'oggetto di una prima scelta per il prossimo Concistoro”.

Pio IX dette subito il suo assenso al progetto mentre Tonello, dal canto suo, rinunciò ad esigere la presentazione delle Bolle pontificie al Governo. Su tali basi cominciarono nuove conversazioni per le quali Don Bosco faceva da intermediario accettato volentieri da Roma e da Firenze. Si approdò'così rapidamente a un pieno accordo, reso possibile soprattutto dall'amabilità e dal realismo del mediatore.

Al momento del confronto tra le due liste, ci fu qualche rifiuto, qualche spostamento da una sede all'altra, ma alla fine ci fu pieno accordo su trentaquattro nomine che furono proclamate nei Concistori del 22 febbraio e del 27 marzo 1867. Purtroppo, il 4 aprile il Ministero Ricasoli cadeva, per dare il posto a Rattazzi che andava al potere con un programma nettamente anticlericale: bisognò aspettare quattro anni prima di potere riprendere le trattative.

Sul finire della primavera del 1871, Don Bosco ricominciava i contatti con pieni poteri da parte di Pio IX che giunse a dirgli: «Compilatemi la lista completa dei futuri Vescovi e io l'approverò senz'altro”. Nel mese di agosto la lista era pronta. Per procedere con assoluta

serietà, Don Bosco aveva chiesto informazioni un po' dappertutto; un-giorno a Nizza Monferrato, riunì attorno a sé diciotto tra Vicari generali e Capitolari per avere suggerimenti sui nomi. Nel Concistoro del 27 ottobre 1871 quaranta dei candidati proposti erano consacrati dal Papa. L'intervento del Santo si chiudeva quindi con un larghissimo attivo ma egli avrebbe desiderato un successo ancor più completo, ottenendo dal Governo anche la restituzione dei beni vescovili confiscati.

Nella primavera del 1873 era nuovamente a Roma: le trattative stavano per concludersi positivamente quando ancora una volta la caduta del Governo rimise tutto in discussione. Don Bosco non si perdette d'animo per questo: nel dicembre dello stesso anno ripartiva per la Capitale.

Il nuovo capo del Governo, Minghetti, si prestava abbastanza volentieri all'accomodamento e Pio IX continuava ad incoraggiare gli sforzi dell'umile prete-contadino trovatosi a giocare una parte decisiva in questioni di tanta importanza per la Chiesa. Purtroppo la sua presenza così frequente a Roma scatenò un'altra campagna di stampa, condotta soprattutto dai massoni, allora molto potenti.

Il clamore che seguì quella campagna intimidatoria, finì per avere addirittura conseguenze internazionali.

La Germania era retta allora dall'onnipotente Bismarck e il “Cancelliere di ferro” fu sempre convinto che, per ripetere una sua espressione famosa, “l'anticlericalismo dovesse essere per la Germania merce di esportazione». L'uomo della Kulturkampf pensava che l'indebolimento del sentimento cattolico nei paesi latini ne avrebbe scosso tutta intera la

struttura sociale a vantaggio dei popoli nordici e protestanti.
Non meraviglia dunque vedere le conversazioni tra il Vaticano e il Quirinale arrestarsi

un giorno per qualche “autorevole suggerimento” giunto da Berlino. «Non possiamo, fare nulla, mio caro Don Bosco», confidò una sera il Ministro al suo interlocutore “Bismarck si oppone e le nostre sorti politiche sono troppo legate alla Prussia”. L'iniziativa tedesca pose termine alla missione di Don Bosco prima che avesse potuto raggiungere il suo obiettivo. Tuttavia non era stata inutile: malgrado la rottura ufficiale delle trattative, il Governo continuò a permettere nuove nomine episcopali, decretò il suo placet a un gran numero di parroci e concesse un modus vivendi che permetteva ai Vescovi nominati dalla Santa Sede di entrare in possesso dei loro beni.

In un'altra circostanza, nel 1878, la partita fu vinta completamente. Subito dopo la morte di Pio IX, il Vaticano chiese a Don Bosco di fare passi presso il Governo per sapere se il primo Conclave in Roma italiana avrebbe potuto svolgersi liberamente. Il Santo, docile come sempre all'appello della Santa Sede, si recò dapprima dal Ministro di Grazia e Giustizia ma l'accoglienza che gli riservò l'on. Mancini, capo di quel dicastero, non fu incoraggiante. Si rivolse allora a Francesco Crispi, Ministro dell'Interno, che si mostrò evasivo fino a quando quel prete dalla tonaca logora non chiese risolutamente, a nome del Collegio dei Cardinali, una risposta precisa ed immediata, affermando che il Conclave, se non a Roma, si sarebbe tenuto a Venezia, a Vienna o magari ad Avignone, con le gravissime conseguenze internazionali del caso.

Crispi restò un poco pensieroso poi, tendendo la mano a Don Bosco:
- Dica ai Cardinali che il Governo rispetterà e farà rispettare la libertà del Conclave e che nulla verrà a turbare l'ordine pubblico. - E, divenuto improvvisamente affabile: - Non ho ancora dimenticato, - disse - la Torino del 1852 e la mia misera camera ammobiliata di via delle Orfane, vicino alla Consolata. Non ho dimenticato neppure che venivo qualche volta a

confessarmi da lei all'Oratorio.
- Se lo desidera, signor Ministro, sono anche ora a sua disposizione! - replicò pronto

Don Bosco con un sorriso amichevole.
Passarono poi a parlare di diverse cose, da vecchi amici quali erano. Lo statista

conservava un ricordo venato di nostalgia degli anni della gioventù povera e ardente, passata nella Capitale piemontese. Si rivedeva giovanissimo deputato di Palermo eletto dalla Rivoluzione del 1848, poi misero rifugiato politico a Torino, tra la folla dei profughi di tutti gli Stati italiani. Aveva cercato di vivere come giornalista, poi come segretario comunale di Verolengo, ma non aveva raccolto che insuccessi e rifiuti.

Don Bosco, che lo aveva incontrato in misere condizioni e affamato per le strade di Torino, gli aveva offerto ospitalità a Valdocco, trovandogli poi una camera d'affitto nella via delle Orfane. Un giorno, il Santo era giunto a fare dono anche di un paio di scarpe pesanti a quel povero esule, giunto dall'estremo sud a tremare di freddo e di fame nell'inverno piemontese.

Anche al più grande artefice del Risorgimento, Camillo di Cavour, Don Bosco fu legato da amicizia cordiale. Per più di un aspetto, i due uomini si assomigliavano: passione per il lavoro, calma ostinazione, carattere allegro, rifiuto di ogni posa, senso pratico, realismo.

Ambedue, lo statista e il Santo, erano rappresentanti significativi di quella terra piemontese nella quale affondavano le radici.

Ascoltiamoli esporre il loro modo di agire quando un ostacolo si poneva, sulla loro strada: l'identità di pensiero è davvero sorprendente.

“Quando incontro una difficoltà”, diceva Don Bosco, “faccio come chi camminando trova il passaggio impedito da un macigno. Cerco prima di allontanarlo ma, se non ci riesco, lo scanso o gli giro attorno. Così, quando ho cominciato a fare una cosa, se mi si para davanti un ostacolo, la sospendo per mettere mano ad un'altra; ma tengo sempre d'occhio la prima. E intanto le nespole maturano, gli uomini cambiano e le difficoltà si appianano”.

“Per arrivare a un punto determinato”, diceva a sua volta Cavour nel 1860, “io vedo benissimo la linea retta che vi conduce. Ma se a mezzo del cammino incontro un impedimento insuperabile, io non vi sbatterò la testa per il gusto di rompermela, ma non ritornerò neppure indietro. Guarderò a destra e a sinistra e, non potendo seguire la linea retta, prenderò la curva. Girerò l'ostacolo se non potrò attaccare di fronte”.

L'inizio dell'amicizia tra i due uomini risaliva al 1848, al tempo cioè in cui i fratelli Cavour, Gustavo e Camillo, gareggiavano in devozione e andavano a edificare con il loro contegno il primo Oratorio di Don Bosco. La cosa non durò molto, per Camillo almeno, il quale, pur cambiando direzione al proprio impegno, rimase in affettuoso contatto con il Santo. '

Abbiamo su ciò la testimonianza dello stesso Don Bosco: “Il conte Cavour», scrisse, «mi annoverava tra i suoi amici. Diverse volte mi sollecitò ad adoperarmi perché l'Oratorio fosse dichiarato Ente Morale. Un giorno giunse persino a offrirmi un milione per le mie necessità. Vedendomi silenzioso di fronte alla sua proposta, insistè:

- Dunque, Don Bosco, che cosa decide?
- Di non accettare.
- Ma perché? I suoi bisogni non sono immensi?
- Certo, signor Ministro. Ma se io accettassi oggi il suo milione, domani in un modo o

nell'altro, lei stesso forse verrebbe a riprendermelo!”.

Tuttavia la benevolenza del grande statista per l'opera di Don Bosco si mantenne costante.

E sempre Don Bosco che scrive: “Il Conte di Cavour mi ripeteva spesso che, se avessi avuto qualche favore da chiedergli, ci sarebbe stato sempre un posto per me alla sua tavola.

- Nel mio ufficio al Ministero non c'è modo di parlare - diceva. - Dopo poche parole bisogna lasciarsi. A tavola è un'altra cosa: si sta con tutta libertà”.

Una volta almeno, però, Cavour dovette abbandonare l'amico per permettere al Ministro dell'Interno Farini di perquisire l'Oratorio.

La questione ebbe il suo epilogo al Ministero e fu Cavour, l'accorto Cavour, che trasse d'impaccio Farini al quale Don Bosco era andato a chiedere con qual diritto si violasse il domicilio di un cittadino, che, come aveva dimostrato l'inchiesta, non aveva nulla da rimproverarsi.

- Prove, - disse Cavour - prove tangibili contro di lei non ce ne sono; è lo spirito che regna nella sua casa che è incompatibile con la nostra politica. Ha un bel dire o fare, Don Bosco, ma lei sta con il Papa e quindi contro di noi!

- Caro Conte - rispose il prete - è verissimo: io sto con il Papa e ci starò sino alla morte. Ma questo non mi impedisce di essere un buon cittadino. Di politica non voglio occuparmene, lei lo sa bene. Sono ormai vent'anni che vivo e lavoro a Torino. Ho scritto, ho parlato, ho agito senza mai nascondermi. Mi si citi una riga, una parola, un atto che la sua autorità possa condannare.

- Ha détto bene, reverendo - interruppe Farini. - Le sue idee non sono le nostre e allora.

- Sono forse obbligato a pensarla come loro?
- No, ma lei non è un uomo da pensare senza agire.
- Allora, signori, faccio di nuovo la domanda: si può citare di me una riga, una parola,

un atto che si allontani dal rispetto dovuto all'autorità? Mi pare che, raccogliendo centinaia di ragazzi e istruendoli, io abbia piuttosto collaborato a.mantenere questo vqstro «ordine pubblico”!

I due ministri non avevano ormai più nulla da controbattere. Sulla soglia dello studio, Farini credette bene, tuttavia, di aggiungere un consiglio:

- Prudenza, prudenza, reverendo carissimo! Attraversiamo periodi difficili! Una mosca, ai giorni nostri, può prendere le proporzioni di un elefante.

- Tante grazie, Eccellenza! - ribatté Don Bosco. - E restiamo intesi che quando avrà da darmi un consiglio me lo darà in confidenza, senza mandarmi i poliziotti a casa a spaventare i ragazzi.

Dopo l'ultima stretta di mano, anche Cavour volle aggiungere qualche cosa:

- Dunque, caro Don Bosco, ci siamo capiti. Amici come prima. E - soggiunse a voce bassa - e non si dimentichi di noi nelle sue preghiere!

Don Bosco lo sguardo fisso in volto e quasi scandendo le parole:

- Pregherò per lei, signor Ministro, perché Dio l'assista sempre in vita e soprattutto in punto di morte.

I due uomini non dovevano più rivedersi. Un anno dopo Cavour moriva, dopo aver ricevuto gli ultimi sacramenti dal curato della sua parrocchia, dal quale aveva ottenuto anni prima la promessa di essere assistito in punto di morte nonostante le censure ecclesiastiche che l'avevano colpito. La preghiera di Don Bosco per una assistenza divina all'amico “soprattutto in punto di morte” non era stata dunque vana.

Anche Urbano Rattazzi, lo statista che già incontrammo qualche volta nella nostra storia, più volte Presidente del Consiglio e noto fautore di leggi anticlericali, fu legato a Don Bosco da una salda amicizia.

Subito dopo la seconda perquisizione dell'Oratorio, Rattazzi si recò da Don Bosco per comunicargli che avrebbe presentato un'interpellanza alla Camera per ottenere pubblica disapprovazione del brutale provvedimento di polizia. «Io non sono certo un pretofilo», disse lo statista, “ma amo il bene da chiunque si faccia e a qualunque classe egli appartenga. Il Governo, andando a disturbare simili Istituti, commette un'iniquità che merita di essere denunziata a tutta l'Europa!”.

Don Bosco lo ringraziò della buona intenzione, ma lo pregò di astenersi, preferendo trattare direttamente la cosa con i ministri competenti.

Rattazzi aveva con Don Bosco una tale familiarità da domandargli un giorno all'improvviso:

- Crede lei, reverendo, che come Ministro di Stato e fautore di leggi che la Chiesa non approva, io sia veramente incorso nelle censure ecclesiastiche?

Don Bosco chiese alcuni giorni di tempo per riflettere e al primo incontro:

- Avrei desiderato molto poter tranquillizzare la sua coscienza, signor Ministro, - disse - ma non ho trovato nessun teologo che mi permetta di farlo.

- Bravo, Don Bosco! - esclamò Rattazzi. - La sua franchezza mi piace. Lei è il primo che mi parla in questo modo. In cambio, lasci che io le offra i miei servigi: quando ne avrà bisogno per i suoi ragazzi non abbia timore di richiederli!

È interessante la conversazione che Don Bosco ebbe il 6 agosto del 1876 con un gruppo di parlamentari, tra i quali i ministri Depretis, Nicotera e Zanardelli, in occasione dell'inaugurazione della linea ferroviaria tra Torino e Lanzo. Dopo il vermut d'onore offerto agli statisti nel Collegio salesiano di Lanzo, gli ospiti espressero il desiderio di scendere nel giardino dell'Istituto per ammirare il panorama.

Don Bosco acconsentì molto volentieri a guidarli; dopo una breve passeggiata, si sedettero sulle panchine del parco e uno dei ministri, il Nicotera, cominciò a stuzzicare il Santo.

- Si dice, Don Bosco, che lei è in relazioni piuttosto intime con il Papa.

- C'è molta esagerazione: di vero vi è questo, che ogni volta che mi trovo a Roma, Sua Santità mi riceve con grande bontà. D'altronde, conosco anche molti ministri del Regno che fanno altrettanto. Mi sono trovato, come loro sanno, ad aiutare a regolare un affare tra il Vaticano e la Direzione dei Culti. Dappertutto ho trovato grande cortesia. Non dovetti fare anticamera né al Ministero né al Vaticano.

- Una domanda, Don Bosco! - interruppe il senatore Ricciotti. - Il suo Istituto non sforna troppi preti e troppi professori clericali?

- Il numero dei preti usciti dall'Oratorio è ben poco in confronto ai nostri bisogni. Tuttavia, dalle nostre scuole escono soprattutto degli operai qualificati, degli impiegati, dei tecnici, dei professionisti. Troppi professori? Ma sono loro, signori deputati, che ci costringono

a formarne con le loro leggi, esigendo il diploma accademico per dirigere un Collegio e per fare scuola!

- Don Bosco - esclamò a questo punto l'on. Ercole - ci dica lei che, a quanto si dice, sa leggere nel fondo dei cuori, ci dica lei chi tra noi è il più grande peccatore!

- Non sarei davvero capace di risolvere la questione - rispose paziente il Santo alla domanda indiscreta. - Per dare un giudizio sulla loro anima, bisognerebbe che lor signori venissero qui non per un'ora di conversazione ma per una settimana di ritiro, per meditare sulla vanità delle cose di questo mondo, sul valore delle promesse divine,

sulla giustizia e misericordia di Dio, sull'eternità; e che, dopo di questo, facessero una buona confessione generale. Allora, credo, sarebbe possibile pronunziarsi sullo stato della loro anima.

- Crede lei, Don Bosco, che noi la salveremo quest'anima? - chiesero due o tre deputati che avevano ascoltato pensierosi.

- Lo spero, la misericordia di Dio è infinita.
- Ma, vede, noi non abbiamo gran voglia di “convertirci” subito!
- Lei vuole dire - corresse Don Bosco - che vorrebbero si “convertirsi” ma manca loro il

coraggio di cambiare modo di vita e pareri su molte questioni religiose. - Credo sia proprio così - confermò uno dei ministri.

La conversazione continuò a lungo nella stessa atmosfera di distesa cordialità.

Si trattarono molti argomenti e Don Bosco seppe ricordare con discrezione qualche principio cristiano a quegli uomini abituati a ben altri discorsi, ora con una battuta spiritosa, ora con un apologo, un aneddoto, una riflessione, una domanda.

Verso sera si separarono come vecchi amici. Il buon umore, la cordialità, la franchezza, avevano sorretto tanto bene la lunga conversazione che, sulla soglia del Collegio, Nicotera disse a Don Bosco, esprimendo un pensiero comune:

- Abbiamo passato una giornata magnifica! Per me è stata tra le più memorabili della mia vita.

- Per gustarne una simile - aggiunse Zanardelli - bisognerebbe tornare quassù, nella pace del Collegio di Don Bosco.

- Poveri ministri! - diceva quella sera il Santo ai suoi Salesiani. - Non hanno forse mai ascoltata una predica come quella di oggi. Io non ho nascosto loro la verità, ma l'ho detta con il cuore e in modo tale che non hanno potuto offendersene. Questa conversazione è stata per loro quasi un corso di esercizi spirituali. Oggi essi hanno visto e avvicinato il prete non come è stato loro descritto o come lo immaginavano, ma quale è in realtà: uomo cordiale, paterno, preoccupato solo della salvezza della loro anima. Chissà che nell'ora estrema questo ricordo non li spinga a chiamarlo al loro capezzale di morte? Purtroppo questi uomini hanno finora incontrato di rado persone che sappiano parlare con loro non con adulazione o con astio ma con franchezza e cordialità.

Fu questo lo “stile” di Don Bosco nell'avvicinare i grandi e i potenti della terra: schiudere con la bontà la loro anima per farvi cadere

accortamente il seme che un giorno, sotto il calore della grazia, avrebbe potuto germogliare in frutti di carità e di pentimento.

Egli fu sempre lontanissimo, nelle sue relazioni con il potere, da ogni traccia di adulazione, sapendo al momento opportuno comportarsi con fermezza, pur nella costante, perfetta educazione dei modi.

Dal ministro Lanza seppe ottenere l'impegno di non molestare le Case di Ordini religiosi stabiliti in Roma. Da un Ministro dell'Interno ottenne un deciso intervento a favore del riposo domenicale, per nulla rispettato nell'Italia del tempo. A Vittorio Emanuele II recò talvolta personalmente lettere confidenziali del Papa, rispettoso ma mai intimorito, neppure nell'avvicinare il Re.

Don Bosco «politico», Don Bosco «diplomatico», Don Bosco amico e confidente dei

grandi. Nelle sale dei palazzi dei potenti, come tra i muri scrostati dell'Oratorio, egli, che volle essere sempre e soltanto prete, fu spinto solo dal programma espresso dal suo motto: “Da mihi animas, coetera tolle, dammi, Signore, le anime, toglimi ogni altra cosa”.

CAPITOLO XII.

Don Bosco educatore.

Nel 1886, Don Bosco ricevette dal Rettore del Seminario Maggiore di Montpellier una lettera in cui lo si pregava insistentemente di svelare il segreto della sua pedagogia. Era la seconda volta che quell'ecclesiastico si rivolgeva a Don Bosco. Rispondendo la prima volta, il Santo aveva scritto tra l'altro: «Dai miei giovani ottengo tutto ciò che voglio grazie al timor di Dio infuso nei loro cuori”. Il suo corrispondente ora replicava: “Il timor di Dio non è altro che il principio della sapienza, initium Sapientiae timor Domini, è la Bibbia stessa che

10 dice. Ora, come portare l'opera a compimento, dopo questo inizio? La prego, Don Bosco, mi dia la chiave del suo sistema di educazione perché possa adoperarlo a vantaggio dei miei seminaristi!”.

«Il mio sistema! Il mio sistema! - esclamava Don Bosco ripiegando la lettera. - Ma se non lo conosco nemmeno io! Io sono sempre andato avanti come il Signore mi ispirava e le circostanze esigevano!”.

Era vero. Quest'uomo, universalmente considerato un grandissimo educatore, non pensò mai di teorizzare un vero e proprio sistema pedagogico. Verso il termine dei suoi anni raccolse in brevi e chiari principi il frutto di mezzo secolo di esperienza tra i giovani; fu tutto. Si astenne sempre dal comporre un trattato didattico di pedagogia.

Il suo libro fu la vita: egli applicò giorno per giorno la pedagogia che l'intuizione gli suggeriva e l'esperienza gli confermava.

Quando i Salesiani, prima di lasciarlo per le loro destinazioni, gli chiedevano qualche norma da seguire, egli rispondeva: «Fate come avete visto fare da. Don Bosco!”. Allorché uno dei suoi non riusciva a cavarsela da un impiccio con i ragazzi, egli accorreva, risolveva praticamente il problema e concludeva semplicemente: “Adesso hai capito come si deve fare”.

Se lo si interrogava sul suo modo di formare i discepoli, rispondeva di fare come si fa per insegnare ai cuccioli a nuotare: gettandoli nell'acqua.

Bisogna indubbiamente riconoscere, per comprendere i prodigiosi successi di Don Bosco tra i giovani, che egli era dotato di qualità eccezionali. Se alcuni nascono poeti, altri artisti, altri scienziati, Don Bosco era nato educatore. E come se, affidandogli un compito ben preciso, Dio gli avesse dato pure i mezzi per portarlo a termine tanto fruttuosamente. Le circostanze e l'ansia apostolica indussero Don Bosco ad occuparsi di un numero incredibile di problemi: si può anzi dire che pochi uomini, nella Chiesa e fuori, hanno fatto tante e tanto diverse cose. Eppure, quella di educatore fu la vocazione che egli sentì sua più di ogni altra. Sul passaporto che gli fu rilasciato nel 1850 per un viaggio a Milano, la professione dichiarata dal Santo è quella, assai eloquente, di “maestro di scuola elementare”.

Anche da vecchio, il suo fascino sui giovani era immenso. “Se un giorno”, scrisse un suo ex-allievo, “Don Bosco ci avesse detto: - Figlioli, scendiamo nel Po e le sue acque si apriranno come un tempo quelle del Giordano, noi l'avremmo subito seguito, sicuri di attraversare il fiume a piedi asciutti dietro di lui”.

Non per nulla, un vecchio sottufficiale della polizia, inviato a sorvegliare l'Oratorio, vedendo come comandava ed era ubbidito dai giovani suonando egli stesso una tromba, esclamò sbalordito: «Questo prete avrebbe potuto diventare il più grande dei generali!”.

Invitato nel 1861 a predicare gli esercizi spirituali nel Seminario minore di Bergamo, accettò con il consueto entusiasmo, malgrado la mole di lavoro che già l'opprimeva a Torino. Tra una meditazione e l'altra, invece di appartarsi secondo il costume dei predicatori del

tempo, scendeva a giocare con i ragazzi e talvolta, seduto in terra con loro, raccontava aneddoti che incatenavano l'attenzione dei giovani.

Il Rettore del Seminario, preoccupato della difesa della «dignità sacerdotale», allibiva vedendo quel prete seduto sulle pietre del cortile e borbottava tra sé: “Mi pare che non vada! Mi pare che non vada!”.

E invece la cosa andò benissimo, per Don Bosco almeno, che, alla fine degli esercizi, tutti i giovani volevano seguirlo a Valdocco e il vecchio Rettore dovette faticare parecchio per trattenerli.

Quando andò per la prima volta a Roma, nel 1858, discutendo un giorno dell'educazione dei giovani con il Cardinale Tosti, ripeteva al prelato il suo grande principio:

- Mi creda, Eminenza, è impossibile allevare bene i fanciulli se non si ha la loro confidenza.

- La loro confidenza! Ma come ottenerla, mio caro Don Bosco?

- Avvicinandoci a loro, conoscendoli, piegandoci ai loro gusti, rendendoci in una parola simili a loro. Ma perdoni, Eminenza, perché dalla teoria non passiamo alla pratica? In che punto di Roma si possono trovare molti ragazzi radunati?

- In piazza delle Terme o in piazza del Popolo.

- Ebbene, andiamo in piazza del Popolo!
Salirono difatti in carrozza e dopo un poco giunsero nella grande piazza, ritrovo

quotidiano di centinaia di ragazzi romani abbandonati a se stessi come i loro coetanei di Torino.

Ma lasciamo che sia Don Lemoyne a raccontarci, nelle sue Memorie Biografiche, quel che avvenne poi.

«Don Bosco», scrive il celebre biografo, «scese di carrozza e il Cardinale rimase osservando. Visto un crocchio di giovinetti che giocavano, si avvicinò ma i birichini fuggirono. Allora li chiamò con le buone maniere e i giovani dopo qualche esitanza ritornarono. Don Bosco li regalò di qualche cosuccia, domandò notizie delle loro famiglie, chiese in qual gioco si divertissero, li invitò a ripigliarlo, si fermò a presiedere al loro trastullo ed egli stesso vi prese parte.

Allora altri giovani che stavano guardando in lontananza corsero numerosissimi dai quattro angoli della piazza intorno al prete, che tutti li accoglieva amorevolmente ed aveva per tutti una buona parola ed un regaluccio; loro chiedeva se fossero buoni, se dicessero le orazioni, se andassero a confessarsi. Quando volle allontanarsi, lo seguirono per un buon tratto e solo lo lasciarono allorché risalì in carrozza. Il Cardinale era meravigliato.

- Ha visto? - gli disse Don Bosco.

- Avevate ragione - esclamò il Cardinale”.
Eppure, succedeva sempre così quando Don Bosco avvicinava i ragazzi!
Ecco un altro episodio.
Entrato un mattino da un barbiere, mentre attendeva il suo turno attaccò discorso con

il piccolo garzone incaricato di spazzolare gli abiti ai clienti. Seppe così che il fanciullo era orfano ed aveva a malapena imparato a leggere e a scrivere; inoltre, non avendo avuto alcuna educazione catechistica, non si era ancora accostato alla prima Comunione. Bastava molto meno a Don Bosco per desiderare di “catturare” un ragazzo per le sue scuole serali! Venuto il momento di essere servito:

- Mi farai tu la barba! - disse al fanciullo.

- No, reverendo, per carità, che quello non è buono neanche a tosare un cane! Si accomodi qui, la raderò in un attimo - esclamò il padrone.

- Niente affatto! Se il bambino non ha ancora imparato il mestiere deve impararlo. Ho una barba come le scope! - continuò Don Bosco passandosi la mano sotto il mento. - Ma non importa. L'importante è che il piccolo impari. E a meno che non mi porti via il naso non mi lagnerò.

Il garzone, che all'inesperienza aggiungeva il tremito per l'emozione della sua prima barba, si mise all'opera, raschiando la pelle del paziente che rideva e gridava quando il piccolo carnefice lo scorticava troppo.

Finalmente l'operazione giunse al termine e Don Bosco rispose alle scuse del padrone facendosi promettere che avrebbe lasciato in libertà il ragazzo alla domenica. Dal ragazzo ottenne invece l'assicurazione che in quel giorno sarebbe andato a trovarlo a Valdocco. Vi andò, infatti, fece un'ottima riuscita e spesso Don Bosco gli diceva che era ben valsa la pena di accettare qualche graffio per la sua istruzione: a tal punto giungeva l'ansia del Santo educatore.

A base di ogni educazione cristiana, come fondamento solido seppure insufficiente, Don Bosco poneva una vigilanza ininterrotta.

Il salesiano, egli diceva, deve mettere il fanciullo quasi nell'impossibilità materiale di peccare, accompagnandolo con lo sguardo ma soprattutto con la premura affettuosa: egli deve vivere continuamente con i suoi alunni, non come “superiore” né tanto meno come “guardiano” ma come padre che mai abbandona i figli finché la loro libertà non sia educata.

Questo metodo preventivo, da lui prescelto in opposizione all'altro - il metodo repressivo - basato sulla punizione, cerca di evitare il male all'origine evitando l'occasione o mettendo paternamente in guardia contro di essa.

AI pari della scienza moderna, questo metodo ha più fiducia nell'igiene che nella medicina.

Mentre il metodo repressivo ha per base il timore reverenziale, quello preventivo è fondato sull'affettuosa vigilanza. L'uno tiene il “superiore” lontano dagli alunni in un assurdo isolamento, dal quale esce solo per minacciare o punire, creando le famose rette parallele sulle quali camminano maestri e scolari senza pericolo di incontrarsi; l'altro fa scendere l'autorità dal suo seggio, spezza le barriere che sepa

rano l'educando dall'educatore, chiedendo a quest'ultimo di farsi «tutto a tutti».

Nel sistema repressivo si può ostentare un viso impassibile, un atteggiamento austero e così vivere in pace. Con il sistema preventivo, che vuole il maestro continuamente accanto all'alunno, c'è solo un mezzo per riuscire: portare testimonianza delle virtù che si insegnano.

Per fare penetrare nell'animo dei suoi Salesiani questo metodo basato sul sacrificio, il Santo assicurava che, praticandolo, si ottengono, risultati sicuri: gli allievi restano affezionati ai loro maestri per tutta la vita, nessuno di essi può diventare peggiore nelle loro mani, il contagio del vizio si arresta sulla porta del collegio e, una volta guadagnato il cuore, anche l'intimo dell'anima si lascia penetrare e trasformare.

Questo insegnamento egli cercava di farlo entrare per mezzo dell'esempio nell'animo dei suoi collaboratori, non risparmiando mai se stesso. Soprattutto al momento della ricreazione si poteva ammirare la sua passione di educatore. Un suo alunno ha detto che Don Bosco era l'anima di tutti i giochi: pochi elogi furono tanto meritati. Lo si vedeva in tutti gli angoli del cortile moltiplicare la sua presenza secondo i bisogni. Se si accorgeva che un gioco degenerava in litigio, si avvicinava pian piano, individuava il capo della baruffa e, con bel garbo: “Senti, va' a giocare con quel gruppo là in fondo che ha bisogno di un giocatore: prendo io il tuo posto!”. E si metteva a giocare ai birilli, alle bocce, alla palla, alla corsa, ritornato fanciullo tra i fanciulli.

Se poi scopriva in un altro punto del cortile, in un gruppo, un ragazzo le cui parole e il cui atteggiamento non gli piacessero: “Vieni un po' qui a prendere il mio posto!”, gli gridava allegramente, “vengo io nel tuo!”. E lo scambio si faceva con la maggior naturalezza del mondo.

“Che gioia”, raccontava un suo vecchio alunno, “che gioia avere Don Bosco in mezzo a noi! Egli non badava né all'età, né all'abito, né al carattere, né ai modi. Egli apparteneva a tutti noi. Tuttavia le sue preferenze andavano ai peggio vestiti, a coloro che portavano più chiari i segni della miseria. Per i più piccoli poi, aveva un cuore di mamma”.

Molto spesso allineava i suoi giovani in due campi opposti, si metteva alla testa di uno e cominciava una partita di barra tra l'en

tusiasmo dei giocatori e degli spettatori. In un campo ci si sforzava di vincere Don Bosco e mostrargli così quanto si era bravi, nell'altro si era certi che con lui non si poteva perdere: la partita toccava così momenti di incredibile accanimento.

Non era raro vederlo anche sfidare alla corsa tutti quanti i ragazzi. Indicava un traguardo, si rimboccava la tonaca, dava il segnale, uno, due, tre!, e veloce come una freccia, liberandosi in pochi metri della turba che gli ansimava alle calcagna, giungeva per primo alla meta. L'ultima sua sfida alla corsa è del 1868, quando già aveva cinquantatre anni. Le gambe, piene di varici, erano gonfie e doloranti, ma che importava? L'importante era far stare allegri i suoi giovani. E riusciva, ancora a quell'età, e con quei malanni, a lasciarseli indietro e ad arrivare per primo al traguardo. E spesso, ultima finezza, giunto alla linea di arrivo scovava nelle tasche una manciata di caramelle e le distribuiva ai vinti per addolcire loro l'amarezza della sconfitta.

Con tutto il suo entusiasmo e il suo zelo, Don Bosco non riusciva però a eliminare ogni colpa nelle sue case. Qual era in tali casi la sanzione? Che cosa diceva il “capitolo” dei castighi? Il Santo ammetteva che in certi momenti, seppure molto meno spesso di quanto alcuni pensano, bisogna pensare ad una punizione. In quei casi dolorosi egli voleva però che le punizioni si ispirassero al principio stesso del sistema: badare cioè a non chiudere il cuore del fanciullo all'opera positiva dell'educazione. In virtù di questo principio, le punizioni nelle case salesiane erano ritardate il più possibile, non erano né umilianti, né irritanti e soprattutto se ne faceva apparire la ragionevolezza. Mai dunque, castighi pubblici, mai castighi corporali che spingessero gli animi alla ribellione; mai una punizione per semplici leggerezze, né punizione generale per un colpevole che non si riusciva a scoprire; nessun castigo inflitto sotto il dominio della collera; persino le dimissioni dall'Oratorio, decretate esclusivamente per ragioni gravissime, si facevano con molti riguardi e molta discrezione.

Un uso abbondante, questo sì, di quel genere di “castighi” che una madre sa applicare amorevolmente: un'espressione addolorata, una parola accorata, un silenzio prolungato. E, soprattutto, correzioni che la ragione del giovane colpevole potesse approvare.

“La punizione non è proficua”, ripeteva spesso il Santo, “se il fanciullo non ne capisce la ragionevolezza».

“Per i giovani”, aggiungeva, “è castigo o premio tutto ciò che si fa servire a ciò. Una parola di lode a chi l'ha meritata, una parola di

biasimo a chi ha mancato, costituiscono spesso premi o castighi efficacissimi”. “Un giorno che andai a salutare Don Bosco” scrisse un aristocratico torinese “lo trovai seduto davanti allo scrittoio occupato nel leggere una lista di nomi.

- Ecco, - mi disse - ecco, tra i miei alunni tutti quelli ai quali ho da rimproverare qualcosa.

Io, che conoscevo solo le grandi linee del suo metodo educativo, gli chiesi che punizione avrebbe inflitto loro. Mi guardò stupito:

- Ma nessuna punizione, evidentemente! Guardi come farò. Il più indisciplinato è questo qui: un cuore d'oro ma disordinato, impetuoso, così poco ubbidiente. Ebbene, fra un poco andrò giù a ricreazione e, prendendolo in disparte, gli chiederò notizie della sua salute. Sono sicuro che mi risponderà che sta benissimo. - Sei pienamente contento di te? - gli dirò allora io, guardandolo bene negli occhi.

A questa domanda che egli non si aspetta, resterà un momento perplesso, poi i suoi occhi fisseranno il suolo, si farà rosso e manterrà un silenzio forzato.

Allora, con tono affettuoso, io continuerò:

- Su, andiamo! Vedo che il corpo sta bene, ma l'anima forse è malata. Da quanto tempo non ti sei più confessato? Non rispondi! Il tuo silenzio dice molto. Mi prometti dunque di accomodare le cose al più presto possibile, non è vero?

Pochi minuti dopo, lei troverà questo ragazzo al confessionale e scommetto che nessuno avrà più a lamentarsi di lui”.

Una sera i ragazzi non riuscivano a fare silenzio per lasciare parlare il Santo dopo le preghiere per la consueta buona notte. Senza scomporsi, Don Bosco aspettò a lungo ma le conversazioni e gli strepiti continuavano. Allora rivolse agli alunni queste semplici parole: «Non sono contento di voi. Andate a dormire: per questa sera non vi dirò nulla”.

Dalla sera dopo all'Oratorio non ci fu bisogno neppure del campanello che si suonava di solito per ottenere il silenzio.

Qualcuno potrebbe pensare che una vigilanza continua, seppure paterna, potrebbe favorire nel ragazzo la tendenza a una certa ipocrisia. Invece il sistema, se correttamente esercitato, permette al fanciullo di aprirsi e di manifestare la sua personalità, lasciando piena espansione alla sua libertà.

Della disciplina conserva ciò che è necessario all'andamento regolare della vita comunitaria, mostrandosi estremamente tollerante su tutto il resto. Non ha l'idolatria dell'ordine, di quel famoso ordine

esterno (spesso identificato con l'immobilità e il silenzio) che agli occhi di certuni sarebbe l'ideale dell'educazione. Il Santo voleva una disciplina che servisse alla formazione della persona e non una disciplina fine a se stessa, magari per la tranquillità che avrebbe procurato al maestro.

I cuori e le anime dei fanciulli, nel metodo di Don Bosco devono espandersi liberamente e rivelarsi nel libero gioco delle attività, poiché l'educatore ha bisogno di conoscere a fondo coloro che gli sono affidati. La spontaneità non deve essere soffocata da una malintesa disciplina. D'altronde, la natura umana non è né radicalmente pervertita né istintivamente portata a compiere il bene in ogni circostanza. Occorre quindi guardarsi da ogni eccesso: non frenare severamente la libertà giovanile né scioglierla da qualsivoglia freno: questa la convinzione pedagogica di Don Bosco.

Alleggerendo la disciplina dal peso inutile che l'ingombra, si diminuirà considerevolmente il numero delle infrazioni e quindi quello delle punizioni e si sarà così liberato il maestro da fatiche vane e resa più attraente la vita del collegio.

Anche in cortile, libertà completa. Tutti devono giocare, ma liberi di giocare in una estrema varietà di giochi: questa la sola regola di disciplina per la ricreazione.

In classe, nulla di compassato, né di severo. Come in ogni scuola si esige naturalmente che le lezioni siano apprese e i compiti sono corretti con serietà, ma l'atmosfera è tutta improntata a una paterna comprensione. La spontaneità dell'allievo si espande liberamente, con riflessioni, obiezioni, domande, sollecitata dallo stesso educatore; la battuta spiritosa, il racconto interessante, l'intervallo allegro sono all'ordine del giorno.

Ogni volta che all'Oratorio si pregava, si lavorava, si giocava, sempre il visitatore poteva ammirare l'arte con cui Don Bosco sapeva conciliare l'autorità con la libertà, la disciplina con la spontaneità giovanile.

Il fine cui mirò sempre il suo sforzo di educatore fu di riprodurre per quanto possibile la famiglia, di ristabilire attorno al fanciullo quell'atmosfera domestica di cui nessun ragazzo può fare a meno.

Uno spettacolo davvero commovente fu offerto ogni sera, per molti anni, dal refettorio in cui Don Bosco consumava una frugale cena con i suoi collaboratori. Il Santo, trattenuto da mille parti, giungeva qualche volta in ritardo. I ragazzi, finito ormai di mangiare, spiavano il suo arrivo nascosti vicino alla porta, pronti a fare una tumul

tuosa irruzione nel refettorio appena Don Bosco fosse entrato. Quei folletti occupavano tutti gli angoli della sala e una volta preso posto, si accomodavano nelle pose più svariate,

godendo della presenza del padre.
I primi entrati gli si pigiavano attorno, accostandosi tanto che le loro teste poggiavano

sulla sua spalla; gli altri gli si mettevano dietro, con i gomiti appoggiati alla spalliera della sedia, impedendogli così persino di appoggiare la schiena; altri ancora prendevano d'assalto i tavoli con la massima disinvoltura e vi si accomodavano con la fierezza di chi ha conquistato una preziosa posizione; intanto, altri folletti prendevano banchi e sedie, li mettevano in fila accanto al muro e vi salivano sopra; gli ultimi venuti poi, si pigiavano nel poco spazio rimasto libero tra i banchi e la tavola, sedendosi a gambe incrociate. Sbaglierebbe chi pensasse che nessuno poteva più avvicinarsi al buon maestro: i più piccoli si infilavano sotto la tavola e le loro testoline sbucavano all'improvviso accanto a Don Bosco che sorrideva all'apparizione e accarezzava loro i capelli.

Quadro stupendo, questo grappolo di fanciulli stretti attorno a colui che li aveva raccolti dalla strada e nutriti, vestiti, alloggiati, istruiti, meglio del padre più amoroso e ricco.

Quella scena di tenerezza era in fondo la realizzazione vivente del salmo, filii tui sicut novellae olivarum in circuitu mensae tuae, i tuoi figli sono come pianticelle d'olivo attorno alla tua mensa.

A un certo punto, Don Bosco faceva cenno di voler parlare: cessava allora ogni rumore e in mezzo al silenzio generale il padre raccontava una bella storia, un aneddoto curioso, proponeva un indovinello, un problema, faceva domande. La sua parola teneva tutti incantati fino a quando la campana che annunciava le preghiere della sera faceva alzare tutti per recarsi in chiesa.

Perché la libertà trovasse attorno a sé il calore e la luce di cui aveva bisogno, il Santo si sforzava di mantenere i suoi figli in un'atmosfera permanente di allegria. Con l'allegria, infatti, egli mirava a schiudere le anime, a spazzare via la noia, a scuotere il torpore, ad aiutare il lavoro dell'intelligenza, ad associare nella mente del fanciullo l'idea del piacere e quella del dovere e ad aprire soprattutto il cuore' alla confidenza.

Per tenere viva l'allegria tra i suoi, Don Bosco non esitava a ricorrere ad ogni espediente: all'Oratorio si conservò vivo per anni il ricordo delle buffe “trovate” che escogitò durante la ricreazione.

Qualche esempio: talvolta allineava su due file un centinaio di ragazzi, si metteva alla loro testa e intonava un vivace ritornello dia

lettale. Tutti si mettevano al passo unendo le loro voci alla sua, cadenzando i versi con sonori battimani e con colpi di tacco sulle lastre di granito. Il lungo serpente formato dalla turba dei ragazzi svolgeva le sue spire un po' dappertutto: sempre cantando, ora usciva nel cortile, ora rientrava sotto il porticato, a un certo punto saliva una scala, infilava un corridoio e discendeva per un'altra scala per girare attorno a un albero descrivendo i motivi più bizzarri. Finalmente, spesso dopo più di un'ora, tutti si buttavano a terra con la voce rauca e i piedi indolenziti, stanchi di ridere, di cantare, di urlare.

Qualche volta Don Bosco faceva diversamente. Cominciava col mettere in fila il suo pittoresco esercito, quindi: «Attenzione!», diceva, “Fate tutto quello che farò io! Chi non fa come me farà la penitenza!”.

Lo si vedeva allora moltiplicare i gesti più strani: batteva le mani, saltava su un piede solo, camminava con la schiena curva e le braccia in alto, si metteva a correre per arrestarsi improvvisamente, con le ginocchia e le mani che toccavano terra, ruotava un braccio in aria, si fermava ai piedi di un albero, lo abbracciava un momento e ripartiva di corsa. I ragazzi che lo seguivano in fila indiana, cercavano di ripetere ad una ad una le sue mosse mentre altri che stavano a guardare si contorcevano dalle risa al curioso spettacolo.

Spesso la movimentata passeggiata continuava attraverso tutti gli angoli dell'Oratorio, penetrava nei punti più appartati, si cacciava nei luoghi più oscuri, raccogliendo al passaggio i gruppi isolati che non prendevano parte alla ricreazione. In questo modo Don Bosco raggiungeva il suo scopo di divertire i ragazzi e di perlustrare l'Oratorio, snidando quei ragazzi che si appartavano in solitudine.

L'allegria, egli la voleva dappertutto, anche a scuola. Se, come dicono, il teatro metteva

paura ad ecclesiastici suoi contemporanei che facevano rappresentare solo opere in latino e in greco, non faceva paura a Don Bosco che fu tra i primi educatori moderni ad innalzare un suo palcoscenico, nel 1847. Anche la musica, sotto tutte le sue forme, occupava all'Oratorio un posto importante. Don Bosco voleva che i giovani crescessero e fossero educati, come dice la Scrittura, in hymnis et canticis, tra inni e cantici di gioia.

A tale scopo si affaticava anche a rendere attraente la cappella con l'accuratezza della liturgia e con la partecipazione attiva di tutti alle sacre funzioni e ai canti. Quelle dell'Oratorio non furono mai liturgie “ascoltate” in silenzio, ma preghiere recitate da tutti ad alta voce e inframezzate da canti: non “devozioni” lunghe e monotone ma liturgie

brevi con musica, fiori e luce, molta luce. Anche in questo, precursore ardito, Don Bosco non rifuggiva da nessuna novità in cappella, pur di tenere desta l'attenzione dei suoi piccoli.

Ma soprattutto, con la confidenza e con l'amore, posti a base della sua pietà, egli faceva della chiesa una casa di preghiera dove era dolce recarsi per trascorrere un po' di tempo accanto al Signore.

È facile comprendere che l'atmosfera allegra e gioiosa della Casa apriva l'anima del fanciullo e ne provocava la confidenza. Ora la confidenza, ripeteva il Santo, è tutto nell'educazione. Niente di solido può essere costruito se il fanciullo non ha aperto pienamente e liberamente il suo cuore. Tutto il resto prepara, dispone a ciò che è essenziale: guadagnarsi il cuore del fanciullo. Con ciò si tocca il problema centrale di ogni sistema di educazione, il problema dell'autorità.

Che posto assegnava Don Bosco all'autorità? O meglio, su che base la collocava? Sulla forza? Sul timore del castigo o dell'umiliazione?

Né sulla forza, né sul timore, per quanto possibile. Sulla ragione e sulla fede non appena era possibile. Ma poiché questo non era sempre realizzabile, almeno all'inizio, con fanciulli sventati, distratti o con adolescenti ormai segnati dal vizio e spesso incapaci di distinguere chiaramente tra il bene e il male, Don Bosco si risolveva talvolta a comandare in nome dell'amore. La sua era l'autorità del padre che possiede il cuore dei figli, del fratello maggiore che sa farsi ascoltare e capire con poche parole. «Senza affezione non c'è confidenza», non si stancava di ripetere, “e senza confidenza non c'è educazione”.

Affezione e confidenza che egli chiedeva ai suoi figli e insegnava ai suoi discepoli, ma soprattutto meritava dagli uni e dagli altri con l'esempio della sua vita,

“Volete essere amati?”, diceva, “Amate.'“.

E certo pochi educatori furono amati quanto lui: segno indubbio, questo, del suo amore. Nessuna barriera tra l'alunno e il maestro, nessuna legge delle distanze, niente collera, niente percosse, nessuna umiliazione.

Ma la compenetrazione dei cuori; lo spirito di famiglia; la bontà sempre sollecita, sempre attiva, sempre pietosa per la debolezza e l'ignoranza; l'indulgenza che sa chiudere gli occhi e non sempre né tutto punisce, ma facilmente perdona; il pensiero continuo del fanciullo che fa interessare alla sua salute, ai suoi parenti, ai suoi bisogni, alle sue pene, ai suoi progressi, alle sue gioie; la vigilanza materna, che sa proteggerlo dallo scandalo come dall'inclemenza della stagione; l'im

maginazione sempre desta alla ricerca di ciò che può rallegrare, istruire- espandere la vita dell'allievo; la dolcezza che non alza la voce, che conserva il sorriso in mezzo alla più grande difficoltà e che sa punire con un semplice sguardo addolorato; la fiducia, dimostrata in mille maniere e capace di attirare infallibilmente la confidenza; la cordialità che spalanca senza indugio la porta della camera a tutti; l'umiltà autentica che fa unire ai giochi dei fanciulli, ai loro divertimenti, alle loro puerili eccentricità; questo, tutto questo, e altre cose ancora, ma tutte racchiuse in una parola profanata, banalizzata, inflazionata, ma pur sempre

divina: amore.
Il grande educatore ha come compendiato i suoi metodi in due frasi spesso ripetute. A

se stesso ha detto: Fatti amare se vuoi essere obbedito. Ai suoi figli: Non siate superiori, ma padri.

E padre fu davvero per tutti, quest'uomo del quale un altro educatore scrisse: «A Torino, in via del Cottolengo 32, vi è qualcosa che non si trova in nessun'altra parte del mondo. È una camera da cui esce raggiante di gioia il fanciullo che vi era entrato con il cuore gonfio di tristezza o di umiliazione. È la camera di Don Bosco”.

Della confidenza dell'alunno, ottenuta con tanta pazienza, che uso faceva Don Bosco? In nome dell'autorità che viene dall'amore, egli guidava sapientemente il fanciullo nel mondo della fede. Il suo obiettivo era di fondare la pratica religiosa sopra una fede cosciente, istruita, nella quale la ragione avesse sempre il suo posto.

Il comportamento religioso dei suoi figli, infatti, egli lo voleva consapevole.

Ecco perché nella sua casa l'istruzione catechistica teneva il primo posto. Per conquistare i giovani procurava di dare loro istruzioni solide, vivaci, ricche d'immagini, pratiche; catechismi ben preparati; discorsetti di cinque minuti, per chiudere le preghiere della sera e deporre nel cuore dei ragazzi un pensiero che nutrisse il loro sonno; brevi letture dopo la Messa o prima della Benedizione Eucaristica; allusioni religiose e morali lasciate cadere con naturalezza, in ricreazione o in classe, su un testo di Virgilio o in un aneddoto raccontato in cortile. Tutto si tentava, tutto si provava e si adoperava allo scopo di formare i fanciulli a una vita di fede abbastanza ricca e autentica da permettere loro di reggere nell'ora della prova.

Il Santo tendeva a mettere il fanciullo in contatto precoce e frequente con quelle che considerava le colonne della vita spirituale: confessione, comunione, devozione alla Madonna.

Egli insisteva, ha insistito per tutta la vita, sulla pratica della confessione. Era questo, per lui, il grande mezzo educativo. Nei sermoncini della buona notte tornava molto spesso sull'argomento.

Sotto i portici dell'Oratorio aveva fatto scrivere a grossi caratteri frasi della Scrittura che in gran parte si riferivano alla necessità di confessarsi e pentirsi dei propri peccati.

Joris-Karl Huysmans, lo scrittore francese che su Don Bosco scrisse pagine commosse, ci ha lasciato questa descrizione del suo ufficio incessante di confessore: “Egli confessava in chiesa, all'aperto, nell'angolo di una stanza; c'è anche serbato il ricordo di questo ammirevole prete che confessava su un prato in affitto, quando tutti i proprietari di case l'avevano sfrattato, uno dopo l'altro. Egli si sedeva su un rialzo di terra e a una certa distanza i ragazzi si concentravano tutt'intorno, preparandosi a confessargli le colpe non cancellate o quelle dimenticate. Ed allora, con l'aspetto bonario di un vecchio curato di campagna, poneva una mano sulla spalla del penitente che aveva terminato l'esame di coscienza, lo tirava a sé con il braccio sinistro ed appoggiava leggermente la testa del fanciullo sopra il cuore. Non era il giudice ma il padre che aiuta i figli nella confessione così spesso difficile delle pur piccole colpe”.

Contemplando una fotografia del Santo, Paul Claudel, che molto lo amò, esclamava: “Don Bosco! Bastava guardarlo. Non c'era bisogno di inventare la confessione con un volto come il suo! Essa diveniva necessaria, sì, necessaria, un vero bisogno dell'anima!”.

Anche dieci ore quotidiane di confessionale, spesso nel freddo più intenso, non mettevano paura a Don Bosco: l'importante, per lui, era che tutti i suoi figli potessero ricevere il perdono di Dio.

Molte sere lo si vedeva uscire di chiesa verso le undici senza avere cenato. Consumava allora quello che era rimasto: una minestra, un po' di pietanza che l'aspettavano da ore, fredde e ormai quasi immangiabili.

Più di una volta trovò il refettorio chiuso; se ne erano andati tutti, dimenticando che Don Bosco stava ancora in chiesa a confessare.

“Ecco un buon modo per rompere la monotonia delle giornate!”, diceva calmo in quelle occasioni, “Ogni sera si va a letto con il corpo rifocillato: una piccola eccezione non fa male.

Domattina mi sveglierò più leggero e con migliore appetito!”.
“La vigilia di una festa importante”, scrive Don Francesia, “l'accompagnavamo in

camera con la candela accesa, dopo più di nove ore di confessionale. Proprio in quel momento, ecco un piccolo artigiano

che domandava di confessarsi. Noi ci guardammo desolati: età proprio il momento di imporgli quest'altra fatica? Avevamo tutti sulle labbra la stessa preghiera: - Non insistere, torna domani! - Ma Don Bosco ci prese la candela dalle mani e, rivolto verso il ragazzo con il più paterno sorriso: - Aspettami nella mia camera - disse. - Ti raggiungerò subito”.

“Non ho mai udito”, confermava Mons. Costamagna, “Non ho mai udito Don Bosco dire a un penitente di ritornare”.

Invitato una volta a passare la giornata da un amico nel Monferrato, vi arrivò con ventiquattro ore di ritardo perché, giunto con il treno ad Asti, vi aveva incontrato una mezza dozzina di ex-allievi che, commossi dai suoi paterni ammonimenti x gli avevano promesso di

andare l'indomani mattina a confessarsi e a comunicarsi. Era bastata questa promessa perché Don Bosco prendesse alloggio in città, ad aspettare i giovani.

Sua gioia grandissima (finché le sue attività gliene diedero il tempo), era poi quella di ascoltare le confessioni dei giovani carcerati di cui alcuni accompagnò anche al patibolo, vincendo con uno sforzo sovrumano il suo orrore per la pena barbarica.

Una sera di autunno se ne andava a piedi lungo la strada che, attraverso fitti boschi, conduceva da Castelnuovo ai Becchi. All'improvviso da dietro un albero sbucò un uomo armato di pistole.

- La borsa o la vita! - ringhiò il malvivente.

- Di borse non ne ho - rispose calmo il Santo. - Quanto alla vita, non è mia e non te la posso dare!

In quel momento, nel rapinatore pur mezzo mascherato da una sciarpa attorno alla bocca, Don Bosco riconobbe un detenuto che tante volte aveva confessato nelle carceri di Torino.

- Giuseppe! - esclamò con voce accorata. - Tu fai ora questo mestiere?

E cominciò a sgridarlo amorevolmente, tanto che il giovane, buttate le pistole e la maschera, finì per abbracciarlo piangendo. Sedutosi sul ciglio della strada, Don Bosco lo confessò e gli regalò quel po' di denaro che aveva in tasca. Portatolo poi a Torino gli trovo un lavoro di operaio; qualche tempo dopo l'ex-bandito si sposava, divenendo non solo un buon padre, ma uno zelante cooperatore salesiano.

Spesso il Santo usciva dalle galere stranamente “ricompensato” per il suo zelo. Un giorno che, dopo una di quelle visite, si reco a cena da un barone suo amico, si sentì dire con voce concitata dall’aristocratico scandalizzato:

- Ma Don Bosco, che cosa porta con sé? - Io? Semplicemente appetito.
- Ma no, sulla tonaca!
- Sulla tonaca?

- Sì, ecco, guardi un po'.

- Ah, mio caro Barone, che cosa vuol farci? Esco ora dalla prigione, questa è la prova più chiara!

- D'accordo, Don Bosco, ma se è per me un piacere averla alla mia tavola, non tengo affatto ad invitare questi parassiti.

E il povero Don Bosco dovette subito recarsi in disparte per sbarazzarsi degli ospiti sgraditi.

Per mantenere sulla via del bene i giovani che confessava, Don Bosco faceva affidamento sulla forza dell'Eucarestia e sull'aiuto della Madonna. Fin dai primi tempi del suo sacerdozio, fu propugnatore convinto della comunione precoce e frequente. Oggi, queste sembrano a noi pratiche abituali; ma non era così ai suoi tempi. Fin dal 1847 egli scriveva:

“Quando un fanciullo sa distinguere il pane ordinario dal pane eucaristico, quando è sufficientemente istruito, non si deve badare all'età: è necessario che il Re del Cielo venga a regnare in quell'anima». Parole che solo nel 1910 un Papa, Pio X, doveva far sue nel celebre decreto: “Quam singulari Christus amore”.

Se l'Eucarestia fu per Don Bosco una colonna di salvezza, un'altra fu l'amore filiale verso la Madonna.

Questo amore egli lo predicò per tutta la vita. Il consiglio di sua madre il mattino della vestizione: “Se ti fai prete, propaga la devozione alla Madonna”, fu da lui seguito fino sul letto di morte. Tre giorni prima di morire, sulla soglia dell'agonia, mormorava ai suoi discepoli: “Quando predicate, quando parlate, insistete sulla devozione a Maria e sulla comunione frequente”.

Questi capisaldi della sua pietà avevano ricevuto come una conferma nel sogno del maggio del 1862 che forma ora il soggetto di un affresco nella Basilica di Maria Ausiliatrice. Quella notte gli era parso di vedere un gran numero di barchette, simbolo dei suoi giovani sparsi per il mondo, sbattute da un mare tempestoso e assalite da nemici furiosi. Non si sfuggiva al nemico e al naufragio se non rifugiandosi dietro la grande nave di Pietro, ancorata tra due colonne gigantesche che uscivano dal mare in tempesta: una delle colonne era sormontata da un Ostensorio, l'altra dall'immagine della Vergine.

Se, come il Vangelo avverte, è dai frutti che si conosce l'albero quali furono i frutti dell'educazione impartita da Don Bosco e dai suoi Salesiani?

Essa ottenne in primo luogo di unire con un vincolo duraturo i giovani che la ricevettero alla Casa in cui fu loro impartita. Per quei ragazzi, il Collegio non fu quel carcere della gioventù prigioniera di cui parlava Montaigne, ma la casa che seppe sostituire la famiglia, spesso neppure conosciuta o conosciuta fin troppo nelle sue magagne. Purtroppo, ci furono anche allievi di Don Bosco che non perseverarono nel cammino tracciato loro dall'Educatore. Egli tuttavia rimase sempre tranquillo sull'esito finale della lotta, ben sapendo di seminare almeno inquietudine. Non si è amato invano il Cristo e la sua Madre nell'età dell'innocenza; questo amore, lo si ritrova un giorno.'

E quasi sempre, infatti, giungeva l'ora in cui quei figli prodighi tornavano ad inginocchiarsi al tribunale di penitenza.

Di questi giovani immemori, il Santo ne ebbe forse più di quanto si creda. Dopo la tempesta del 1848, dall'Oratorio molti giovani si allontanarono.

E nei tempi migliori quando, per confessione di Don Bosco stesso, le mura di Valdocco nascondevano “miracoli di santità”, uno dei primi discepoli, Don Francesia, parlava di “quei poveri traviati che rifiutano ostinatamente di trarre profitto dalle lezioni e dai consigli di colui che è per loro padre”.

Malgrado le ombre, una sera di settembre del 1862 il Santo poteva fare questa confidenza ad alcuni chierici:

“Vi assicuro che avremo qualche nostro ragazzo elevato agli onori degli altari. Se Domenico Savio, morto cinque anni or sono, continuerà ad ottenere miracoli, sono certo che la Chiesa ne riconoscerà un giorno la santità”.

Quelle parole, com'è noto, si avverarono quasi novant'anni dopo, nell'Anno Santo del 1950.

Se dalla qualità dei risultati passiamo all'efficacia quantitativa, udiamo risponderci dal Santo con le parole stesse con cui replicò a Urbano Rattazzi in un famoso colloquio.

“Per novanta giovani su cento - disse Don Bosco al Ministro - questa sistema riesce di un effetto consolante; sugli altri dieci esercita tuttavia un influsso così benefico da renderli meno caparbi e meno pericolosi; onde di rado mi occorre di cacciare via un giovane siccome indomabile e incorreggibile. Tanto in questo Oratorio, quanto in quelli di Porta Nuova e di Vanchiglia, si presentano o sono talora

condotti giovani che, per mala indole o per indocilità o anche per malizia, furono già la

disperazione dei parenti e in capo a poche settimane non sembrano più essi; da lupi, per così dire, si mutano in agnelli”.

Francois Coppè, drammaturgo e poeta, Accademico di Francia, lanciando nel 1903 un appello per i Salesiani di Ménilmontant minacciati di espulsione come tutti gli altri religiosi, scriveva rivolgendosi al governo francese: «Don Bosco era destinato a dare all'Europa e alle due Americhe migliaia e migliaia di buoni cittadini. Ne volete una prova? Da venticinque anni, da quando cioè i Salesiani sono in Francia, non uno dei loro allievi comparve davanti a un tribunale!”.

Il metodo preventivo nell'educazione non fu certo una novità di Don Bosco. Affermarlo, come pur fecero alcuni biografi, ammaliati dalla potenza suggestiva della sua personalità privilegiata, sarebbe contraddire le parole di Don Bosco stesso che così cominciava i brevi appunti sulla sua pedagogia:

“Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: preventivo e repressivo”.

In ogni tempo: cercare di pervenire nell'educazione dei giovani, è dunque uno sforzo di sempre.

Ciò che è davvero nuovo, e che fa di Don Bosco un educatore inimitabile, è il fuoco di carità con cui egli rinnova dall'interno quelli che sino ad allora non erano stati che impeccabili ma libreschi sistemi da manuale di pedagogia.

Circondato da un folto gruppo dei suoi giovani, un giorno il Santo domandò a uno di loro:

- Qual è la cosa più bella che hai visto al mondo? E il ragazzo di colpo rispose:

- Don Bosco!
L'episodio bellissimo dà, più e meglio di qualunque commento, la misura del “successo”

pedagogico di un uomo che amò agire più che teorizzare, teso, anche tra i giovani a cambiare il mondo piuttosto che a interpretarlo.

“Plasmare gli Italiani non è facile”, scriveva Giovanni Giolitti (che aveva potuto osservare da vicino l'opera del Santo) meditando sulla sua lunga esperienza di statista, “eppure Don Bosco ci è riuscito. È un grande trionfo per lui e un'immensa fortuna per la nazione”.

Nella sua instancabile opera di educatore, Don Bosco fu sospinto da motivazioni non solo religiose (la “salvezza dell'anima”) ma anche sociali. “Don Bosco” scrisse il fondatore della Jeunesse Ouvrière Chrétienne, la celebre J.O.C, francese “fu il primo nella Chiesa a dedicarsi interamente al giovane operaio”.

Come hanno chiarito studi recenti egli, con la sua azione in sospetto alle polizie e alle marchese benefiche, fu la guida riconosciuta della gioventù povera in ascesa sociale. Espresso egli stesso dalla classe popolare, se ne fece guida, offrendole gli strumenti per l'elevazione sociale: istruzione e qualificazione professionale. Lo stèsso strumento della sua azione educativa, la Società Salesiana, salvo rare e tarde eccezioni fu composta omogeneamente da figli del popolo, tanto che un giorno Don Bosco potè dire: “Fra noi non è ancora entrato uno di famiglia nobile o molto ricco o di grande scienza”.

Tra i giovani operai dell'Oratorio, Don Bosco fondò una delle prime società di mutuo soccorso di Torino.

“Non tuttavia un semplice pensiero di opportunità gli aveva consigliato questa novità», commentava un vecchio biografo del Santo, “ma un alto pensiero sociale. Egli fu tra i pochi che sin dal principio capissero e ripetessero non doversi trattare come passeggero il movimento rivoluzionario, perché tra le speranze che il popolo ne aveva tratte, ve n'erano delle oneste, corrispondenti alle aspirazioni universali dei proletari verso una maggiore giustizia. D'altra parte vedeva le ricchezze incominciare a divenire monopolio di capitalisti senza pietà che all'operaio isolato, bisognoso e senza difesa, imponevano patti ingiusti nel salario, nella durata del lavoro, nel precetto festivo. Da tutto ciò sarebbe venuta negli operai la perdita della fede, la miseria e lo spirito sovversivo. Quindi fin da allora raccomandava al clero di avvicinarsi ai lavoratori e di divenirne guida e freno”.

Ai ricchi del suo tempo Don Bosco, come qualcuno ha giustamente notato, non chiese

mai consigli, ma sempre e soltanto soldi. E spesso senza tanti complimenti, forte della parola di Sant'Ambrogio: «Non del tuo avere tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l'uso di tutti, è ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti e non solamente ai ricchi”.

Ecco come si espresse un giorno, rivolgendosi ai notabili di Lione che erano andati a salutarlo: “La salvezza della società, signori, è nelle vostre tasche. Se voi adesso vi tirate indietro, se lasciate che questi ragazzi

diventino vittime delle teorie comunistiche, i benefici che oggi rifiutate loro verranno a domandarveli un giorno, non più con il cappello in mano, ma mettendovi il coltello alla gola e forse insieme con la roba vostra vorranno pure la vostra vita”.

Con quelle parole coraggiose, il “moderato” Don Bosco centrava in pieno l'esigenza attualissima della democrazia sociale.

Quando aveva trovato un lavoro per gli apprendisti da lui qualificati, Don Bosco stendeva con il padrone contratti che poi firmava quale garante. Gli archivi salesiani conservano ancora alcuni di quei documenti della vigile attenzione del Santo per i suoi giovani. Si ricava da essi come egli esigesse che il periodo di apprendistato non superasse i tre anni, con paga via via crescente. Il ragazzo doveva essere impiegato solo per il lavoro specializzato per il quale era stato assunto e non per altri servizi, di servitore o di sguattero del padrone, come spesso accadeva. Il datore di lavoro si impegnava poi per iscritto a limitare le eventuali correzioni alle parole con esclusione di ogni castigo corporale, a concedere sempre il riposo festivo e addirittura, sconvolgente novità per la prassi del tempo!, a concedere quindici giorni di ferie annuali.

Spesso, nelle botteghe artigiane di Torino, si vedeva giungere all'improvviso Don Bosco che, col pretesto di salutare il suo ex-allievo, sorvegliava che le condizioni contrattuali fossero rispettate.

Di uno dei contratti firmati da Don Bosco quale direttore dell'Oratorio diamo qui il testo integrale, dal quale risultano evidenti le novità davvero “rivoluzionarie” per i tempi introdotte dal Santo per la sicurezza dei suoi figli:

“In virtù della presente privata scrittura da potersi insinuare a semplice richiesta di una delle parti, fatta nella Casa dell'Oratorio di S. Francesco di Sales tra il sig. Carlo Aimino e il giovane Giuseppe Bordone allievo di detto Oratorio, assistito dal suo cauzionarlo sig. Ritner Vittorio, si è convenuto quanto segue:

1) Il sig. Carlo Aimino riceve come apprendista nell'arte sua di vetraio il giovane Giuseppe Bordone nativo di Biella, promette e si obbliga di insegnargli la medesima nello spazio di tre anni, i quali avranno il loro termine con tutto il mille ottocento cinquantaquattro, il primo dicembre, e dargli durante il corso del suo apprendistato le necessarie istruzioni e le migliori regole riguardanti l'arte sua ed insieme gli opportuni avvisi relativi alla sua buona condotta, con correggerlo, nel caso di qualche mancamento, con parole e non altrimenti; e si obbliga pure

di occuparlo continuamente in lavori relativi nell'arte sua e non estranei ad essa, con aver cura che non eccedano alle sue forze.

2) Lo stesso mastro dovrà lasciare per intero liberi tutti i giorni festivi dell'anno all'apprendista acciocché possa in essi attendere alle sacre funzioni, alla scuola domenicale e agli altri doveri come allievo di detto Oratorio. Qualora l'apprendista, per causa di malattia (o di altro motivo legittimo) si assentasse dal suo dovere, il mastro avrà diritto a buonificazione per tutto quello spazio di tempo che eccederà li quindici giorni nel corso dell'anno. Tale indennità verrà fatta dall'apprendista con altrettanti giorni di lavoro quando sarà finito l'apprendistato.

3) Lo stesso mastro si obbliga di corrispondere giornalmente all'apprendista negli anni suddetti, cioè il primo lire una, il secondo lire una e cinquanta, il terzo lire due, in ciascuna settimana; secondo la consuetudine gli si concedono ciaschedun anno 15 giorni di vacanza.

4) Lo stesso padrone si obbliga alla fine di ciascun mese di segnare schiettamente la condotta del suo apprendista sopra un foglio che a tale oggetto gli verrà presentato.

5) Il giovane Giuseppe Bordone promette e si obbliga di prestare durante tutto il tempo dell'apprendistato il suo servizio al mastro suo padrone con prontezza, assiduità e attenzione; di essere docile, rispettoso ed obbediente al medesimo e comportarsi verso di esso come il dovere di un apprendista richiede, e per cautela e garanzia di questa sua obbligazione presta in sua sicurtà il qui presente ed accettante sig. Ritner Vittorio orefice, il quale si obbliga al ristoro di ogni danno verso il padrone mastro, qualora questo danno avvenga per colpa dell'apprendista.

6) Se avvenisse il caso che l'apprendista incorresse in qualche colpa per cui fosse mandato via dall'Oratorio (cessando ogni rapporto col Direttore dell'Oratorio) cesserà allora anche ogni influenza e relazione tra il Direttore di detto Oratorio e il mastro padrone; ma se la colpa dell'apprendista non riflettesse particolarmente il mastro, dovrà esso ciononostante dare esecuzione al presente contratto fatto coli'apprendista e questo compiere ad ogni suo dovere verso il mastro sino al termine convenuto sotto la sola fideiussione sopra prestata.

7) Il Direttore dell'Oratorio promette di prestare la sua assistenza pel buon esito della condotta dell'apprendista e di accogliere con

premura qualsiasi lagnanza che al rispettivo padrone accadesse di fare a cagione dell'apprendista presso di lui ricoverato. Il che, tanto il mastro padrone che l'apprendista allievo assistito come sopra, per quanto a ciascuno di essi spetta ed appartiene, promettono di attendere ad osservare sotto pena dei danni.

Torino, novembre 1851.
Firmati: Carlo Aimino - Giuseppe Bordone - Don Giovanni Battista Vola, teologo - Ritner

Vittorio, cauzionario Don Bosco Giovanni, Direttore dell'Oratorio”.

CAPITOLO XIII.

Tra le prove.

Ricordiamo le parole di mamma Margherita la sera del giorno in cui il figlio celebrò la prima Messa: «Ricordati bene, Giovanni: cominciare a dir Messa vuol dire cominciare a patire”.

Tutta la vita di Don Bosco sembrò dare ragione all'avvertimento della madre. Forse pochi cristiani parteciparono tanto intimamente, nella loro vicenda terrena, alla passione del Cristo. Questa sofferenza fu un altro segno indubbio della benedizione di Dio sull'opera dell'Apostolo.

Tra mille altre, ebbero parte non piccola nell'angustiare la sua vita le sofferenze causate dalle continue ristrettezze economiche e dall'assedio dei creditori.

Don Bosco, morto senza possedere nulla, per tutta la vita tormentò se stesso e i suoi collaboratori per cercare denaro. Persino sul letto di morte non poteva liberarsi dal pensiero delle cambiali in scadenza: poco prima di spirare si scusava con Don Rua di lasciargli in eredità tanti debiti, specialmente quelli per la costruzione della chiesa del Sacro Cuore.

Egli ebbe tra le mani decine di milioni dell'epoca, miliardi in lire d'oggi, ma i soldi non restavano mai più di qualche ora nelle sue tasche e nei suoi cassetti.

«I bisogni di Don Bosco», disse un salesiano testimone di quei miracoli economici, «erano sempre superiori alle sue entrate, costituite solo dalle meschine pensioni di una piccolissima parte di alunni, dalle offerte di benefattori e, dal credito di fornitori pazienti. Non appena aveva un soldo, quell'uomo si impegnava per due!”.

Sempre gli occorsero somme enormi: per costruire l'Oratorio di Torino, per aprire collegi dappertutto, per innalzare tre enormi chiese, per stampare a centinaia di migliaia libri e giornali, per pagare i continui viaggi suoi e dei suoi collaboratori, per equipaggiare, spedire e mante

nere schiere di missionari, per vestire, nutrire, istruire i suoi figli, per offrire un aiuto a tutti i bisognosi che facevano appello alla sua carità.

Per arrivare a tutto, dovette ben presto diventare maestro nell'arte di “arrangiarsi”. Oggi scriveva al Ministro della Guerra per ottenere vecchi cappotti e coperte usate per i suoi ragazzi; domani alla direzione delle ferrovie per ottenere una riduzione; un'altra volta al padrone di una fornace per farsi regalare un po' di mattoni. Al Re, ai Principi, inviava suppliche per muovere il loro cuore e con questo la loro borsa; ai Ministri ricordava le funzioni sociali della sua opera, chiedendo sussidi o almeno alleggerimenti di tasse. Nei casi disperati, spediva circolari ai benefattori, ai lettori dei suoi giornali, ai devoti della Madonna.

Nel 1886 arrivò a stampare una lettera circolare in cinque lingue sull'attività dei suoi missionari e la spedì in tutto il mondo facendo scrivere ben centomila indirizzi.

Alla sua attività nota di scrittore, sono da aggiungere queste migliaia di pagine scritte unicamente per ricordare i bisogni dei suoi assistiti: nel suo Epistolario non vi è quasi lettera che non contenga una richiesta, almeno implicita, di aiuto.

A coloro che nel 1852 volevano insignirlo della Croce di Cavaliere dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, rispose di non accettare “perché di croci ne aveva già troppe!”. Se tuttavia la croce di cavaliere avesse potuto essere sostituita da qualche offerta per i suoi ragazzi, egli ne sarebbe stato molto obbligato.

Fu così che da quell'anno l'Ordine Mauriziano gli concesse un assegno di cinquecento lire annue, regolarmente pagate per molto tempo.

Qualche tempo dopo il burrascoso incontro con il Vicario di Torino per la questione dell'assistenza ai “giovani mascalzoni”, Don Bosco ritornò a trovarlo perché non rimanesse sotto la sgradevole impressione dello scacco subito. Il Vicario, rabbonitosi un poco, per cordialità ma forse anche per un suo interesse poliziesco, gli chiese dove trovasse tutto il denaro che gli era necessario.

- Cosa vuole, confido nella Provvidenza! - sospirò Don Bosco e, con il più innocente dei sorrisi: - Anzi, se in questo momento la Provvidenza ispirasse il signor Vicario a concedermi un piccolo soccorso, lo ringrazierei di cuore!

Sorridendo, il Vicario aprì il cassetto e ne tirò fuori qualche moneta.

Un'altra volta fu invitato a cena da un Barone. Molto spesso gli aristocratici subordinavano i loro aiuti alla condizione che egli accettasse la loro ospitalità. Quei patti erano gravosissimi per Don Bosco, “una vera tortura” come la definiva, che accettava solo per il bene dei ragazzi. Quella sera, però, il Barone non si alzò a metà della cena, com'era solito fare, per annunciare a tutti i commensali l'offerta che intendeva fare a Don Bosco. Inutilmente questi aveva fatto qualche discreto accenno alla buona abitudine. Al levar delle mense il Santo non si diresse con gli altri verso il salotto ma, presa una sua valigia, cominciò a riempirla con la preziosa argenteria della tavola.

- Ma, ma, Reverendo, non capisco! - balbettò sconcertato il Barone, tra l'imbarazzo dei presenti.

- Quanto può valere questa argenteria? - replicò calmo Don Bosco continuando a

riempire la valigia.
- Io l'ho comprata per diecimila lire, ma rivendendola non credo se ne possano

ricavare più di tremila.
- Ebbene, piuttosto che ad altri preferisco rivenderla a lei. Tremila lire, prego, signor

Barone!
Il denaro fu subito versato, tra le risa di tutti. Anche il Barone rideva ma non ci è detto

quanto il suo divertimento fosse sincero.
C'era una signora molto devota che un giorno supplicava Don Bosco di concedergli un

autografo. “L'accontento subito!” rispose il Santo. E, dopo un minuto, porse un biglietto sul quale aveva tracciato il seguente scritto: «In data odierna, ricevo dalla Signora, la somma di lire mille. Firmato: Sac. Giovanni Bosco».

A un'altra ricca dama che gli chiedeva consiglio circa il migliore impiego di. una grossa somma di denaro, rispose tendendo le mani aperte e dicendo: «Ecco qua!».

La sua fantasia inventò infiniti stratagemmi per mantenere i ragazzi. E se gran parte del suo tempo prezioso fu divorato dalla necessità di questuare, non si deve credere che egli ne abbia provato un rincrescimento eccessivo.

Con tanti giovani da allevare, trovava naturalissimo che il difficile peso gravasse sulle sue spalle. E quando la preoccupazione del pane quotidiano si faceva più pressante, quando la miseria diventava tragica, lo si vedeva più sereno del solito. Allorché i ragazzi lo sentivano scherzare più lietamente, dicevano: «Senza dubbio oggi Don Bosco ha grandi fastidi! Altrimenti non sarebbe così allegro”. Raramente si ingannavano. Quell'allegria non era il risultato di uno sforzo su se stesso per non fare trapelare nulla delle interne inquietudini: era piut

tosto il manifestarsi della profonda convinzione intima che, essendo ormai esauriti i mezzi umani, stava per entrare in scena la Provvidenza. La quale, a onor del vero, non mancò mai all'appuntamento. Se il Santo si aiutava con tutte le forze e le risorse per uscire dalle difficoltà economiche, anche la Provvidenza lo aiutò sempre e meravigliosamente a pareggiare il bilancio: su questo punto gli esempi sono innumerevoli.

Un mese, l'Oratorio doveva trentamila lire ad un impresario, che, dopo avere atteso a lungo, finì per stancarsi dei continui rinvìi. Un mattino, eccolo giungere infuriato a Valdocco deciso a fare una scenata clamorosa. Chiesto dell'Economo, gli grida che non se ne andrà senza avere prima ricevuto la somma dovutagli. L'Economo è costretto a dichiarare di non avere nemmeno un soldo in cassa ed invita nuovamente l'uomo alla pazienza.

- Ho già pazientato abbastanza! La cosa non finirà così. Fatemi parlare con Don Bosco!

Lo conducono nell'anticamera dove un buon numero di persone sta aspettando il proprio turno e si siede brontolando sull'orlo di una sedia. In quel momento entra un signore elegantemente vestito, dall'aspetto imperioso e impaziente.

- Voglio vedere Don Bosco! Subito!
- Signore, scusi tanto, ma deve accomodarsi e attendere il suo turno. - Non ho tempo di aspettare!

Detto fatto si fa largo e va a bussare alla porta della camera nella quale Don Bosco sta parlando con una persona. Don Bosco apre:

- Desidera?
- Voglio parlarle, subito!
- Ma scusi, quando sarà il suo turno. Non posso riceverla prima di tutte queste persone

che stanno qui da un pezzo.
- Ho fretta e quello che ho da dirle è poco.

Don Bosco, dopo avere interrogato con lo sguardo i presenti, lo fa entrare e, indicandogli una poltrona:

- Si accomodi.
- Non voglio accomodarmi.
- Ma insomma, caro signore, che cosa desidera? - Una cosa soltanto, che lei accetti questo.

Così dicendo, posa un pacchetto sul tavolo e uscendo: - Addio e preghi per me!

Rientra il visitatore il cui colloquio era stato interrotto:
- Non le è successo nulla di male, Don Bosco? Quell'uomo faceva paura.
- Ecco, - risponde sorridendo Don Bosco - ecco che cosa mi ha consegnato.

E aprendo il pacchetto, contò trenta biglietti da mille.

Venuto il turno dell'impresario, Don Bosco gli consegnò con tutta naturalezza le trentamila lire dovute. Il creditore, confuso, fece mille scuse per la sua irruenza:

- Mi dicevano che ella non era in grado di pagare, Reverendo, ma adesso vedo bene che hanno avuto torto di parlare così!

Nel marzo del 1880 Don Bosco si recò a Nizza, passata ormai da vent'anni alla Francia. Per festeggiarlo, M. Hamel, fedele amico nizzardo del Santo, offrì un pranzo agli amici del locale Oratorio salesiano. Poco prima di sedersi a mensa, l'avvocato Michel, molto noto per la sua attività caritativa, si intratteneva con Don Bosco che gli diceva:

- La cappella dell'istituto di Nizza è proprio piccola e malandata: bisognerebbe provvedere. Ecco un progetto che mi ha presentato l'architetto: il preventivo ammonta a trentamila franchi.

- Trentamila franchi! - esclamò l'avvocato. - Dubito che lei possa trovarli in questo momento a Nizza. Quest'inverno abbiamo avuto tante conferenze di beneficienza, tante lotterie, tante questue di ogni tipo che le borse son ormai chiuse.

- Eppure - mormorò Don Bosco quasi parlando a se stesso - eppure questa somma mi occorre proprio!

Suonava in quel momento mezzogiorno e tutti andarono a tavola. Al termine del pranzo, il notaio che assisteva l'Oratorio si alzò in piedi:

- Devo comunicare a Don Bosco che una persona caritatevole che desidera mantenere l'anonimo mi ha consegnato stamattina per lui trentamila franchi. Può mandarli a prendere nel mio studio quando vuole.

Confuso tra i numerosi commensali, l'avvocato Michel si chiedeva se per caso non avesse sentito male.

Nel 1869 Don Rua ricevette l'avviso per il pagamento di una cambiale che scadeva l'indomani. La somma non era molto considerevole, tuttavia bisognava trovarla.

Nella casa non si faceva nulla senza che fosse avvertito Don Bosco: quando poi appariva all'orizzonte una tratta, l'Economo correva ad avvertirlo con una diligenza straordinaria. Quel giorno Don Bosco era occupatissimo e si limitò a rispondere quasi distrattamente:

- Pensaci tu!

Don Rua, piuttosto abituato a questo genere di consigli, fa il giro dell'Oratorio: va nella libreria, nella tipografia, nella sacrestia, vuotando coscienziosamente tutte le casse. Tutto ben contato e ricontato, non c'era per intero l'ammontare necessario. Ricorre allora di nuovo a Don Bosco:

- Don Bosco, mancano trenta lire!
- Pensaci tu!
- Ma Don Bosco, lei parte domattina, vuol proprio lasciarci in questo imbarazzo?

Passato mezzogiorno ci sarà il protesto.
- Non ci posso far nulla, mio caro. Bisogna che io parta, pensaci tu.

La mattina seguente, quelle trenta lire non erano ancora spuntate all'orizzonte dell'Oratorio. Don Rua, che aveva raggiunto di nuovo Don Bosco, si preparava a fargli capire gli inconvenienti di un protesto, quando sopraggiunse il cavalier Occelletti, un benefattore abituale della Casa.

- Buon giorno, Don Bosco, ho bisogno di parlarle.
- Impossibile! Devo partire con il treno.
- Ma è per darle del denaro.
- Don Rua è autorizzato a riceverlo. Lo dia a lui, ma faccia presto e poi mi accompagni.

Parleremo per strada.
Per strada, l'onest'uomo, raccontò che quel mattino gli era venuta insistente l'idea di

andare a Valdocco a pagare l'importo di alcuni biglietti della lotteria.
Da principio aveva respinto l'idea, essendo il suo giorno di visita il sabato e non il

mercoledì. Ma poi, tormentato come da un assillo che cresceva con le ore, per avere pace era dovuto venire senza indugio a pagare il piccolo debito.

- E qual è mai l'importo di un debito tanto importante? - domandò Don Bosco.
- Oh, una cosa da poco: trenta lire e alcuni centesimi. Don Bosco sorrise:
- E proprio per questo, Cavaliere, lei voleva farmi perdere il treno? In quel momento,

all'amministrazione dell'Oratorio, Don Rua la pensava diversamente!

L'assillo dei creditori da pagare, benché incessante, non smosse mai, come vedemmo, il Santo dalla sua calma imperturbabile.

Ben diversamente accadde, invece, nel 1867, quando si abbatté su Don Bosco una prova di ben altro genere. Per il XVIII Centenario della data indicata tradizionalmente per il martirio di San Pietro a Roma, aveva pubblicato nella Collana delle Letture Cattoliche un opuscolo destinato a ravvivare la devozione dei fedeli verso il primo Papa. Il fascicolo aveva per titolo Il Centenario dell'Apostolo San Pietro e conteneva, oltre alla vita di colui che si era chiamato Simone, un'appendice sulla sua venuta a Roma.

Per maggiore precisione, quel lavoro era la ristampa di un opuscolo pubblicato da Don Bosco nella stessa collezione nel 1854 con l'Imprimatur del Vescovo d'Ivrea; i giornali cattolici ne avevano fatto subito recensioni elogiative e i librai della stessa Roma ne avevano smerciato un buon numero di copie. Nel 1858 il Cardinale Vicario raccomandava in modo del tutto particolare la serie delle Letture Cattoliche di cui faceva parte il volume su Pietro; e di quella stessa collana di volumi Pio IX aveva scritto, ringraziando dell'omaggio che gliene aveva fatto l'autore: «Non vediamo nulla di più utile, né di migliore per ravvivare ed accrescere la pietà nel popolo cristiano”.

Anche la ristampa del 1867 stava esaurendosi rapidamente, tra gli elogi rinnovati, questa volta anche da parte dell'autorevole “Civiltà Cattolica”, quando all'improvviso un gruppo di teologi romani denunciò alla Congregazione dell'Indice il libro del malcapitato Don Bosco. Quali le ragioni dell'inopinata, gravissima iniziativa? E che a pag. 192 dell'opuscolo a proposito della disputa, allora assai vivace, sulla venuta di San Pietro a Roma, gli zelantissimi teologi avevano scoperto questa frase: “Il mettere in dubbio la venuta di San Pie' tro a Roma è lo stesso che dubitare se vi sia luce quando il sole risplende in pieno mezzodì; perciò la sola ignoranza o mala fede può esserne cagione.

Stimo per altro bene di dar qui di passaggio un avviso a tutti coloro che si fanno a scrivere o parlare di questo argomento, di non considerarlo come punto dogmatico o religioso; e ciò sia detto tanto per i cattolici che per i protestanti; perciocché Iddio stabilì San Pietro capo della Chiesa e questo è dogma e verità di fede. Che poi San Pietro abbia esercitato questa sua autorità in Gerusalemme, in Antiochia, in Roma od altrove, questa è discussione storica estranea alla fede”.

Un Consultore del Sant'Uffizio, il Canonico Delicati, professore di storia della Chiesa all'Ateneo Apollinare, incaricato in seguito alla denuncia di esaminare il libro, concluse con una condanna condizionata,

espressa dalla formula latina: proscribendum, donec corrigatur, «da vietare”, cioè “sino a che non sia corretto”.

“Sostenere che la venuta di San Pietro a Roma”, diceva la relazione, «non è punto di dottrina nel senso che essa non ha nulla a che fare con un dogma di fede, è un errore che

non può che offendere le orecchie dei fedeli. Questo fatto certamente appartiene soprattutto alla storia e si stabilisce mediante le regole della sana critica; ma ha anche un rapporto intimo con una verità dogmatica, alla quale serve di fondamento, col primato cioè del Romano Pontefice». «È una verità di fede», ribadiva poi il memoriale, «che il primato conferito a Pietro passa di diritto ai suoi Successori, i Romani Pontefici: dunque il fatto della venuta e della dimora del Principe degli Apostoli a Roma non è estraneo a questo dogma».

Si sarebbe andati ancora avanti di questo passo, gonfiando, forse ad arte, l'episodio, se non fosse intervenuto personalmente il Papa per rimettere tutto nelle giuste proporzioni.

«No, nessuna condanna!», disse Pio IX, «Povero Don Bosco! Se nel suo libro c'è qualche cosa da correggere, lo corregga per una seconda edizione: basterà questo».

La parola rasserenante del Pontefice trovava Don Bosco prostrato: in quelle settimane del maggio 1867 visse certamente il più doloroso periodo della sua vita. Tutto egli accettava con serenità, ma non che fosse messa in dubbio l'ortodossia della sua fede. Gli intimi, una notte, lo sentirono piangere: chiuso nella sua camera stava scrivendo una relazione per il Prefetto dell'Indice affermando tra l'altro: «Non è mai venuto in mente all'autore dell'opuscolo di affermare che il fatto della venuta di Pietro a Roma fosse estraneo alla fede: egli ha inteso di dire semplicemente che questo punto di storia non rientrava nell'elenco degli articoli definiti dalla Chiesa. Del resto, mille passi dell'opuscolo attestano che lo scrittore è profondamente convinto che il Pontefice di Roma è il solo successore di Pietro e che gode come lui del primato di giurisdizione sopra tutto il corpo dei Vescovi”. “Sono pronto” concludeva Don Bosco “a modificare, correggere, togliere, aggiungere nel mio opuscolo tutto ciò che mi verrà suggerito in modo concreto”.

Grazie all'intervento personale del Papa, le dichiarazioni di Don Bosco furono prese in sollecita considerazione dall'Indice che si limitò ad ordinare una sola correzione ed una soppressione, chiudendo finalmente un incidente che aveva causato a Don Bosco una sofferenza in più.

Prove di questo tipo erano per lui più difficili da sopportare di quelle procurategli dalle malattie, che pur tribolarono spesso e a lungo il suo corpo pur robustissimo.

Il suo aspetto stesso rivelava questa forza: Don Bosco era di media statura (circa un metro e sessantacinque, a quanto indica un suo passaporto del 1850), con un viso rotondo e pieno, perennemente illuminato dal suo famoso sorriso. I capelli di color castano scuro erano abbondanti e ricciuti: gli si brizzolarono leggermente solo al termine della vita.

La forza dei suoi muscoli era leggendaria. Una sera che in una via deserta di Torino un grosso cane non cessava di abbaiargli alle calcagna, se ne liberò afferrandolo per la collottola e tenendolo sospeso in aria per alcuni secondi; la bestia non volle altro.

Nel 1883 - aveva quindi sessantotto anni - a pranzo in casa di amici a Parigi, si divertiva a rompere con due dita le noci portate in tavola.

Un anno dopo, stando a letto con la febbre, il medico lo pregò di mostrargli quanta forza gli restasse:

- Mi stringa la mano più che può, Don Bosco, non abbia paura!

- Dottore, se ne pentirà! - rispose l'ammalato. E prendendo la mano del medico gliela strinse così forte che dagli occhi del dottore schizzarono due lacrime.

Accuratissimo nella persona, di una pulizia sempre impeccabile, portava abiti di panno a buon prezzo, ma non sarebbe mai uscito di camera senza darsi una spazzolata. I suoi ragazzi, che ben sapevano quale stima egli avesse della cura della persona, prima di entrare da lui si assestavano capelli e abiti e cercavano di spazzolarseli con il palmo della mano.

Abilissimo con le mani, gli bastava osservare con attenzione un artigiano al lavoro per saperlo subito imitare: questa destrezza, come vedemmo, lo aveva soccorso nei tanti mestieri della sua giovinezza.

Dell'aspetto fisico di Don Bosco è stato continuamente ripetuto: «In lui tutto appariva ordinario». «Un buon prevosto piemontese», dicevano coloro che l'avevano avvicinato. Soltanto lo sguardo tradiva il fuoco che gli divorava il cuore: quegli occhi di color bruno chiaro ferivano e turbavano.

Verso la quarantina, la sua vista era già gravemente compromessa: lo scoppio di un

fulmine che nel 1856 lo gettò a terra durante un corso di Esercizi a Sant'Ignazio gli aveva fortemente danneggiato gli occhi. Le veglie cui continuò a sottoporsi (per molti anni Don Bosco passò

sistematicamente alla scrivania una notte alla settimana per scrivere o correggere bozze) finì per rovinarglieli del tutto. Nel 1878 l'occhio destro era definitivamente perduto e l'altro minacciava di spegnersi.

I medici dovettero intervenire per vietargli ogni lavoro di penna e qualunque lettura dopo il tramonto del sole.

Fin dal 1846 gli si gonfiarono le gambe e gli vennero vene varicose; il male andò crescendo con gli anni e dal 1853 sino al termine della vita Don Bosco dovette trascinare questa “croce quotidiana”, come egli stesso la chiamava, che gli rendeva il camminare immensamente penoso.

Infinite volte fu assalito da febbri di natura artritica e reumatica, accompagnate il più delle volte da eruzioni cutanee. A Varazze, nel 1871, fu ridotto quasi in fin di vita da un attacco febbrile che gli procurò anche dolorosissimi dolori reumatici alla regione del cuore. Nevralgie, mal di denti “da fargli scoppiare la testa”, lo tormentarono quasi ogni giorno. Ebbe spesso emottisi gravi e nel 1884, alla fine di gennaio, le fatiche sopportate in confessionale, nella chiesa gelata, lo misero a letto con una bronchite pericolosa: l'esaurimento delle forze era al colmo e le varici alle gambe prendevano proporzioni spaventose. Si temeva per la sua vita ma ancora una volta, a poco a poco, si rimise. Proprio in quel tempo gli giunse da Roma un conto dà pagare per i lavori della chiesa del Sacro Cuore; la fattura era tanto elevata che, ancora convalescente, fu costretto a mettersi in viaggio per sollecitare l'elemosina dei Francesi. I medici, i suoi Salesiani, l'Arcivescovo stesso di Torino, lo dissuadevano dal fare quella che definivano una pazzia; ma il debito era troppo forte e Don Bosco non sapeva più a chi rivolgersi per ottenere aiuti: sentiva di dover assolutamente andare. Alla partenza faceva compassione, tanto debole e smagrito, ma Dio, pregato da tutti i suoi figli, lo ricondusse vivo alla cameretta di Valdocco.

Già a quel tempo un male terribile, una mielite progressiva, aveva cominciato a curvarlo: gli ultimi tre anni furono un martirio ogni giorno più acuto. Era divenuto l'ombra di se stesso e si era obbligati a sostenerlo quando camminava.

Altre prove durissime furono riservate a Don Bosco dai. responsabili della politica scolastica del tempo. I suoi sacrifici a favore dei figli degli umili e dei diseredati furono mal ricompensati dalle autorità scolastiche che sembravano non conoscere altro che il regolamento, da applicare per giunta con una severità degna di miglior causa. Anche

in queste occasioni, sembrava calzare perfettamente il detto del Santo: “L'Oratorio, nato sotto le bastonate, è andato avanti a forza di bastonate”. Per aiutare tante famiglie di Valdocco, quartiere abbandonato e privo di scuole elementari, egli aveva aperto nei suoi locali alcune classi frequentate dai giovani dei dintorni. Aveva fatto le cose in buona fede, spinto solo dall'urgenza di soccorrere la miseria anche intellettuale di quella popolazione. Tra gli insegnanti della sua scuola elementare alcuni avevano il diploma statale, altri, seppure ben preparati e con' una lunga esperienza di insegnamento, non lo possedevano. Avvisate dai soliti solerti informatori, nell'ottobre del 1879 le autorità vietarono la riapertura dei corsi elementari. Questo provvedimento faceva seguito ad un altro analogo. Per dare agli altri Istituti salesiani di insegnamento secondario - Mirabello, Lanzo, Varazze, Valsalice - professori abilitati, Don Bosco aveva finito col privarne Valdocco. All'Oratorio diverse cattedre non avevano il titolare. Si andava avanti come si poteva, fidando nella tolleranza dell'autorità, in considerazione dei meriti dell'Oratorio che, mantenendo e istruendo quella folla di giovani poveri e abbandonati, svolgeva un'opera sociale di prim'ordine.

I risultati dell'insegnamento, del resto, parlavano chiaro a favore della scuola di Don Bosco: su ottantadue candidati alla licenza ginnasiale che si presentarono nel 1879 nella scuola statale più vicina a Valdocco, trentuno provenivano dall'Istituto salesiano e di essi

ventotto furono promossi al primo appello. Eppure il 23 di giugno di quell'anno stesso, giunse improvviso a Valdocco l'ordine di chiusura del ginnasio. La misura seccamente legalista colpì il Santo nel vivo: la soppressione del ginnasio significava la paralisi di buona parte della sua Opera, con l'inaridimento, per giunta, della «fonte» dei futuri Salesiani. Un primo passo subito compiuto presso le autorità scolastiche locali non dette nessun risultato. Il professor Allievo, professore all'Università di Torino, ammiratore della qualità dell'insegnamento di Valdocco e Don Durando, il primo insegnante all'Oratorio, ritornarono da Roma senza avere ottenuto la dilazione richiesta. Ma Don Bosco non si arrese per questo: presa ancora una volta la penna, scrisse direttamente a Umberto I, da appena un anno salito al trono.

«Maestà», diceva la lettera, «Un Istituto tante volte soccorso dalla Vostra famiglia e anche recentemente aiutato dalla Maestà Vostra, l'Oratorio "San Francesco di Sales", il cui scopo è raccogliere i figli abbandonati del popolo, è in grave pericolo di morte. Un decreto ministeriale ordina la chiusura delle nostre scuole che stanno aperte da trentacinque anni. Sono quindi costretto a mettere sulla strada

trecento giovani che, terminando sotto questo tetto i loro studi, fra poco sarebbero stati in grado di rendere utili servigi al loro paese. Il mio cuore si rifiuta di compiere questo passo. Voglia dunque la Maestà Vostra venire in nostro aiuto e salvare da simile sventura una gioventù studiosa e priva di ogni mezzo!”.

Il Re accolse il ricorso e la validità del Decreto ebbe una sospensione. Tre anni dopo, quando il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione si pronunciò definitivamente sulla questione, Don Bosco aveva già potuto provvedere a regolarizzare la posizione di tutti i suoi insegnanti.

Ma la prova forse più dolorosa della sua vita, Don Bosco dovette affrontarla a causa delle incomprensioni, che durarono un decennio (1872-1882), con l'autorità ecclesiastica. Le dolorose vicende sono ampiamente documentate nei volumi delle Memorie Biografiche di G. B. Lemoyne ai quali preferiamo rimandare. La verità finì per trionfare e per risplendere meglio la santità di Don Bosco.

Nel deporre a proposito di quelle vicende davanti alla commissione incaricata di istruire il processo sulle virtù eroiche del futuro Santo, il Cardinal Cagliero concludeva così la sua testimonianza:

“Questa croce che il Signore impose sulle spalle di Don Bosco non gli strappò mai un lamento, un moto di impazienza, una rappresaglia. Eppure, Dio solo sa il tempo prezioso che egli dovette perdere unicamente per difendersi. Egli portò questo fardello con coraggio, con serenità e umiltà, senza perdere un solo minuto la pace interna dell'anima, senza interrompere un istante il suo lavoro di apostolato. Questa allegrezza di spirito e questa inalterabile unione con Dio in mezzo alle peggiori prove sono davvero il contrassegno dei Santi!”.

CAPITOLO XIV.

Sino ai confini del mondo.

Nel 1875 Don Bosco ha sessant'anni e la sua missione sembra ormai compiuta. Una dopo l'altra, come provocate ciascuna da quella precedente, le sue opere si sono aperte in una splendida fioritura e possono ora accogliere il fanciullo abbandonato o pericolante e accompagnarlo per vie sicure sino all'inserimento nella vita sociale.

Le istituzioni salesiane hanno cominciato a sciamare, varcando prima i confini del Piemonte, poi quelli stessi d'Italia. La Francia, la Spagna, l'Inghilterra, stanno per adottare e inserire nella vita delle loro Chiese queste opere nuove. Una schiera di alunni, che va crescendo ogni anno, si è formata lentamente e promette di assicurare la continuità dell'Opera.

Parallelamente, lo stesso lavoro è compiuto a favore della gioventù femminile. Nate dodici anni dopo i Salesiani, le Figlie di Maria Ausiliatrice raggiungeranno presto per numero e vitalità di istituzioni i confratelli. Sembrerebbe davvero che Don Bosco abbia portato a termine la missione affidatagli e possa ormai contemplare la vigna lavorata dalle sue fatiche e sulla quale maturano frutti abbondanti.

Eppure, il cuore del Santo è inquieto, non ancora pienamente appagato. Il suo sogno migliore, il suo più antico sogno di apostolo non è realizzato. Al di là dei mari, in ogni continente, moltitudini immense di uomini ancora aspettano l'annuncio del Vangelo. Bisogna correre verso quei popoli e condurli alla fede: allora, allora soltanto, il compito sarà terminato.

Ma chi andrà? Egli stesso? Quanto l'aveva desiderato! Sacerdote novello, avrebbe lasciato tutto e tutti per seguire una compagnia di missionari, se Don Cafasso non l'avesse trattenuto in Italia, a Torino stessa.

Eppure, per tutta la vita porterà in cuore la nostalgia delle missioni e l'ansia di conversione di popoli lontani.

Nel 1848, la sua lettura preferita era costituita dagli Annali della propagazione della fede. Un suo alunno esterno veniva a leggerglieli appena giungevano, la sera a veglia. '"

“Ah, se avessi molti sacerdoti e molti chierici!” mormorava Don Bosco ascoltando quei racconti “li porterei con me ad evangelizzare le terre che hanno più bisogno di missionari”.

Alcuni anni dopo, nel 1855, uno degli alunni, entrato nella sua camera, restò sorpreso nel vedere al muro un ritratto appena appeso.

- Chi è quel sacerdote, signor Don Bosco?

- Un grande, un grandissimo missionario francese, Gabriele Perboyre, martirizzato in Cina quindici anni fa.

E come parlando a se stesso: “Come vorrei che i miei figli andassero anch'essi nell'Estremo Oriente! Se il Signore mi concedesse dieci preti secondo il mio cuore, partiremmo assieme!”.

E ancora al tramonto della sua vita confidava agli intimi: «Ah, se non fossi ormai così vecchio e debole! Prenderei con me Don Rua e partiremmo per le missioni!”.

Se il suo desiderio di partire non potè mai realizzarsi, egli sapeva che, almeno attraverso i suoi figli, avrebbe potuto lavorare per la propagazione della fede tra i non- cristiani. Per due volte, infatti, il Cielo sembrò manifestargli la sua volontà al proposito.

La prima volta fu nel 1854, al capezzale del piccolo Cagliero ridotto in fin di vita da febbri tifoidee. Avvertito dai medici che il loro compito era terminato e che cominciava il suo, Don Bosco si avvicinò al letto del moribondo chiedendogli affettuosamente:

- Allora, Giovannino mio, che cosa preferisci? Vivere o andare in Paradiso?
- Andare in Paradiso, signor Don Bosco! - rispose il piccolo ammalato.
- Non è ancora l'ora Giovannino! La Madonna vuole ottenerti la guarigione. Ti salverai,

ti farai prete e un giorno, con il breviario sotto il braccio, ne farai del cammino!
Parole oscure di cui un giorno Don Bosco dette la chiave: attorno al letto del ragazzo aveva scorto, in una subitanea visione, una colomba che, passando a sfiorare le labbra del fanciullo, lasciava cadere sul guanciale il rametto d'ulivo che portava nel becco. Nello sfondo una turba di figure strane parevano fissare il malato con sguardo supplichevole mentre due di loro, due giganti, due guerrieri, l'uno dalla carnagione di ebano, l'altro dalla pelle color rame,

si chinavano ansiosamente sul moribondo per spiarvi un segno di speranza. Per Don Bosco

il simbolo fu subito chiaro: la colomba significava la pienezza dei doni dello Spirito Santo di cui il Vescovo è colmato alla sua consacrazione, mentre i selvaggi rappresentavano coloro ai quali si sarebbero indirizzate le cure pastorali di Cagliero.

Quella prima visione era stata come completata molti anni dopo, in una notte del 1871, da un sogno che non lasciava dubbio. Don Bosco si era visto trasportare in una regione selvaggia e sconosciuta, una immensa pianura incolta su cui non si scorgeva alcuna collina.

Sul fondo dell'orizzonte si profilava una catena di montagne altissime che accrescevano la grandiosità della scena. Uomini seminudi, di statura colossale e di aspetto feroce si aggiravano per quella immensità desolata. Si rassomigliavano tutti: lunga capigliatura arruffata, colorito bronzeo, sulla spalla una pelle di animale e nelle mani una lancia. Alcuni inseguivano e ferivano animali selvatici, altri portavano alla loro capanna, sulla punta della lancia, una bestia squartata e grondante sangue, altri si sfidavano tra loro, mentre altri ancora combattevano con soldati vestiti all'europea. La tragica pianura si copriva ben presto dei cadaveri degli uomini e degli animali uccisi.

«Tutt'a un tratto», raccontò Don Bosco, «apparve all'orizzonte una schiera di uomini che riconobbi subito per missionari. Si avvicinavano a quei selvaggi con volto sorridente per annunciare loro il Vangelo. Ne fissai alcuni per cercare di riconoscere il loro Ordine e anche la loro identità, ma invano. Del resto i selvaggi non me ne lasciarono il tempo, perché subito massacrarono e fecero a pezzi quei disgraziati.

Chi mai, pensavo fra me, chi mai riuscirà a convertire queste orde feroci? Ero immerso in queste riflessioni, quando dalla stessa parte dell'orizzonte vidi profilarsi un secondo gruppo di missionari. Non erano numerosi ma avevano un aspetto gaio e sereno ed erano preceduti da una moltitudine di giovani. - Vanno essi pure a farsi massacrare! - pensai io timoroso della loro sorte. Mi misi a fissare anche loro mentre passavano e ne riconobbi molti: erano tutti Salesiani e potrei indicarne i nomi.

Feci dei cenni affannosi perché si fermassero e ritornassero indietro: correvano tutti sicuramente alla morte. Ma no, ecco che al loro avvicinarsi, inaspettatamente, i selvaggi fanno festa: depongono le armi e l'aspetto feroce con esse, accogliendo i nuovi venuti con i segni della simpatia più viva.

- -Vediamo come la cosa va a finire! - dissi stupito tra me. Finì molto bene, in verità! Gli apostoli si unirono ai selvaggi e si

misero a istruirli: i figli della pianura li ascoltavano attentamente, ripetevano le loro lezioni e ne accettavano con la più grande attenzione gli ammonimenti. Poco dopo, vidi i missionari cominciare una preghiera e intonare poi un canto e tutti quei giganti si univano al coro. E lo facevano con tanto entusiasmo e alzavano a tal punto la voce che io, io mi svegliai!

Il sogno mi fece capire chiaramente - concludeva Don Bosco - che i miei figli sarebbero partiti un giorno per le Missioni ma continuavo a domandarmi: quali sono mai quei popoli ai quali devono portare per primi la luce della fede?”.

Questa domanda il Santo se la rivolse per ben cinque anni, credendo di individuare prima nell'Etiopia, poi nella Cina, quindi nell'Australia o nell'India le regioni e i popoli intravisti nel sogno: interrogò inutilmente geografi, scienziati, missionari. Finalmente la visita di un Console argentino lo mise sulla buona strada. Nel dicembre del 1874 il diplomatico andò a nome dell'Arcivescovo di Buenos Aires a proporgli l'evangelizzazione delle immense regioni semideserte che si stendono all'estremo sud del Continente americano: Patagonia, Terra del Fuoco, Isole di Magellano. Quelle lande sconfinate erano abitate da tribù talmente primitive che alcuni sostenitori delle teorie evoluzioniste di Darwin pretendevano, proprio in quegli anni, di avervi scovato il tipo intermedio tra la scimmia e l'uomo. Sin dalle prime conversazioni con il Console argentino, Don Bosco acquistò la certezza che le popolazioni della Patagonia erano proprio quelle indicate dal sogno. L'offerta del Vescovo di Buenos Aires veniva così subito accettata e tutto il 1875 fu impiegato per scegliere, istruire, equipaggiare un pugno di missionari incaricati di aprire la strada ai futuri messaggeri del Vangelo.

Erano dieci, gli ardimentosi: quattro sacerdoti e sei laici. Il capo della spedizione era Don Cagliero, il ragazzo della visione, che sarebbe morto per ultimo, nel 1926, a ottantotto anni.

Prima di lasciar partire i suoi figli, Don Bosco volle dar loro le ultime istruzioni:

«Che campo immenso quella Patagonia!», disse commosso, “grande parecchie volte l'Italia. E che splendida messe per un esercito di apostoli! E voi siete appena dieci. Non importa, partite lo stesso. Prima di partire, ascoltate però le raccomandazioni del vostro padre: preoccupatevi soltanto delle anime e rifiutate onori, dignità, ricchezze. Volete meritare la benedizione di Dio e la benevolenza degli uomini? Abbiate allora una tenerezza particolare per i malati, i fanciulli, i vecchi,

gli infelici. Fatevi gli apostoli della devozione all'Eucarestia e a Maria Ausiliatrice!”. Dopo aver meditato un istante, il Santo soggiunse sottovoce: “Fate tutto quello che potete e lasciate il resto al Signore. Abbiate una illimitata fiducia in Gesù vivente nell'Eucarestia e nella Vergine Ausiliatrice e vedrete che cosa sono i miracoli!”.

Il più grande dei miracoli assicurati dal Santo fu certamente il prodigioso sviluppo delle Missioni Salesiane, sviluppo che in breve tempo doveva porre la Congregazione tra le più grandi società missionarie della Chiesa. La prima squadra di operai del Vangelo fu infatti presto seguita da molte altre che, anno per anno, fecero nuovi progressi.

Vent'anni dopo il loro arrivo, il deserto era già fiorito: tutta l'immensa regione della Patagonia e della Pampa Argentina era stata percorsa in tutti gli angoli e in parte guadagnata al Vangelo. Oggi, queste zone non sono più territorio di missione, ma vivaci chiese locali nel corpo della Chiesa universale. La creazione di diocesi regolari in quei territori fu il migliore riconoscimento della qualità del lavoro svoltovi dai Salesiani.

Dopo aver così validamente dissodato il terreno argentino, gli uomini di Don Bosco salirono a nord, verso la Repubblica dell'Ecuador, dove le tribù dei Kivaros vivevano allo stato completamente selvaggio.

Nel 1895 Roma riunì tutti quei territori sotto la giurisdizione di un Vescovo salesiano e si ebbe così il Vicariato Apostolico di Mendez e Gualaquiza.

Un anno prima i Salesiani erano penetrati nel cuore del Mato Grosso, in Brasile, perché era stato detto loro che quelle tribù, sparse sopra una superficie sterminata, aspettavano ancora l'annuncio del Vangelo. Dopo vent'anni di fatiche, quel suolo dissodato, arato e in parte seminato dalla parola del Vangelo fu nel 1914 eretta a Prelatura, la Prelatura de Registro de Araguaya con a capo un Vescovo salesiano. Dopo di questa, altre regioni dello stesso Brasile, il Rio Negro, la zona di Porto Velho, e poi il Gran Chaco nel Paraguay, l'Alto Orinoco nel Venezuela, videro i frutti della evangelizzazione salesiana che immancabilmente, talvolta nel giro di pochi anni, sapeva trasformare in comunità cristiane le popolazioni di regioni totalmente pagane.

Le circostanze, come si può constatare, hanno in qualche modo “specializzato” i figli di Don Bosco nell'evangelizzazione degli Indiani dell'America del sud, dove, nelle regioni non ancora raggiunte dagli

Europei, si stendevano lande semideserte e foreste vergini, autentiche zone di missione al pari di quelle africane.

Dove poi l'uomo bianco era già giunto, i missionari trovavano spesso una situazione anche peggiore. Gli indigeni avevano imparato dalla cosidetta “civiltà occidentale” la lezione della rapacità, la brama dell'oro, l'immoralità, il gusto dell'alcool, la passione per il gioco e per le armi da fuoco.

Nel 1911 un gruppo di Salesiani belgi si stabiliva nella provincia congolese del Katanga, dando così inizio all'attività missionaria al di fuori del Continente Sudamericano. Questa nuova espansione porterà i Salesiani, dopo il Congo, nella Cina meridionale, nell'Assam, nel Giappone, nella penisola di Malacca e in altri luoghi ancora dei Continenti extraeuropei.

Molti decenni sono passati dall'abbraccio di Don Bosco ai suoi primi missionari: erano dieci allora quelli che partivano, ora sono migliaia i Salesiani delle tre famiglie che lavorano tra i non-cristiani, in diciassette missioni in Brasile, in Colombia, nell'Ecuador, nel Messico, nel Venezuela, nel Paraguay, in India, in Thailandia, nel Congo.

Sin dal 1877, le suore di Maria Ausiliatrice raggiungevano in Patagonia i missionari partiti due anni prima. Da allora il loro lavoro non ha mai cessato di assecondare l'azione dei confratelli per creare, attraverso la conversione dell'indigeno, la famiglia cristiana e per aprire prudentemente, con l'influenza della carità, la via al battesimo.

E doloroso, penserà qualche lettore, è doloroso che l'Apostolo che aveva lanciato i suoi

figli sulle vie del mondo abbia appena intraveduto i risultati del lavoro gigantesco. Don Bosco, infatti, morì quattro anni dopo l'erezione del primo Vicariato e della prima Prefettura Apostolica. Se avesse saputo, se avesse veduto, ancora in vita, lo sviluppo straordinario dell'attività missionaria salesiana!

Eppure Don Bosco aveva già misteriosamente intravisto la meravigliosa storia. Un sogno, nella notte del 3 agosto 1883, gli aveva fatto percorrere in tutti i sensi l'America del sud e gli aveva spiegato davanti allo sguardo, dall'alto delle Cordigliere, la moltitudine dei popoli di quelle terre.

In questo fantastico viaggio notturno aveva avuto accanto per guida il suo caro Luigi Colle (figlio del conte Colle di Tolone, grandissimo benefattore dell'Oratorio), morto a diciassette anni in concetto di santità.

«Ecco», aveva detto il fanciullo accennando colla mano alle tribù sparse nelle pianure, sulle rive dei fiumi, in mezzo alle foreste impenetrabili, «ecco migliaia di uomini che aspettano da sempre la parola di Cristo. Vai verso di loro: sono questi i popoli che i tuoi figli evangelizzeranno”.

Il 9 aprile 1886 un altro sogno mostrava al Santo le nuove frontiere dell'apostolato salesiano. La misteriosa Signora che a nove anni gli era apparsa per svelargli la sua missione, gli mostrò alcune tappe della marcia apostolica dei suoi missionari. Quella notte, Don Bosco si vide trasportato ai piedi delle Cordigliere, poi in piena boscaglia africana e infine nella capitale stessa della Cina. Per solida che fosse la fede dell'Apostolo, egli stentava a credere a quelle meraviglie. Che moltitudini da evangelizzare, che ostacoli da vincere, che estensioni da percorrere! E con si pochi uomini e mezzi tanto scarsi! No, era davvero solo un sogno! Ma ecco che la grande Signora veniva in aiuto dell'apostolo incredulo: «Non temere» gli mormorava «non temere! Non soltanto i tuoi figli, ma i figli dei tuoi figli e quelli che verranno dopo di loro compiranno questi prodigi”.

La chiara, seppur misteriosa intuizione delle dimensioni dell'attività missionaria dei suoi figli, non fu la sola ricompensa divina per il santo vegliardo. Quasi al termine dei suoi giorni, infatti, Iddio gli concesse un'ora di gioia indicibile.

Da più di quindici giorni era inchiodato sulla poltrona per il male implacabile che poche settimane dopo doveva condurlo alla tomba, quando (era una sera del dicembre del 1887) gli fu annunciato l'arrivo di Mons. Cagliero. Il Vescovo Missionario giungeva a Valdocco dal fondo della Patagonia dopo quattro anni di assenza e non giungeva solo.

Il Padre e il figlio erano ancora stretti in un abbraccio commosso, quando la porta si aprì e sulla soglia apparve il viso color del bronzo di una piccola bambina india. Gli astanti fecero largo e la piccola corse verso il vegliardo paralizzato. Don Bosco non era potuto andare in Patagonia ed ecco che la Patagonia veniva a lui nella persona di una fanciulla orfana raccolta durante la prima spedizione nella Terra del Fuoco.

«Don Bosco caro», disse Cagliero, «ecco le primizie che le presentano i suoi figli ex ultimis finibus terrae, dagli estremi confini della terra!”. Il cuore di Don Bosco, a quella vista, era già invaso da una commozione straordinaria; ma quando la bambina, con accento

esotico, ebbe mormorato in italiano le parole che da più giorni ripeteva dentro di sé: “Padre, vi ringrazio di aver mandato i vostri missionari per la salvezza mia e dei miei fratelli”, allora il Santo non potè più trattenersi. Le lacrime gli sgorgarono dagli occhi e le parole che volevano esprimere i suoi sentimenti non gli giunsero alle labbra.

I privilegiati che assistevano alla scena, confessarono di non aver più potuto dimenticare la grandezza semplice e sublime dell'incontro tra l'Apostolo alle soglie dell'eternità e quella bimba india, primizia delle giovani Chiese fondate col sacrificio e le fatiche dei figli di Don Bosco.

CAPITOLO XV.

La giornata di un Santo.

Suonano le quattro e mezzo ai campanili della basilica di Maria Ausiliatrice. L'Angelus squilla nell'alba grigia, mentre il sonno avvolge ancora i grandi edifici. Soltanto una finestra si illumina lassù, al secondo piano dell'ala destra, all'estremità del ballatoio che gira attorno alla casa: Don Bosco è già in piedi. “Prenderò solo cinque ore di sonno per notte” aveva scritto nei propositi di vita alla vigilia dell'Ordinazione sacerdotale. Ha mantenuto la promessa. La brevità del sonno, unita alla calma nel lavoro, gli ha permesso di compiere tante opere gigantesche in così pochi anni.

Sono le cinque. Ora Don Bosco prega. Dalla preghiera ufficiale del prete cattolico, la lettura del Breviario, già da alcuni anni il Papa gli ha dato dispensa. I suoi occhi penano troppo a leggere: dei due, uno è perduto, l'altro gravemente minacciato. Pio IX, togliendogli il Breviario, gli ha detto: “Unitevi in altro modo alla Chiesa che prega». E questo appunto egli fa ora, inginocchiato, le mani giunte, gli occhi chiusi, immobile e interamente perduto in Dio. Preghiera ardente, completa, ricca: il Santo adora e ringrazia, accetta e offre, domanda e ascolta. Fra poco, per mille vie dovrà versare la luce e la forza di Dio nelle anime: in questo inizio di giornata egli chiede al Cielo di essere ricolmato di quella luce e di quella forza.

La preghiera spinge all'azione: per Don Bosco, poi, è come un colpo di sprone. Eccolo ora nello studiolo a mettere in pulito con la sua grossa scrittura una minuta terminata la sera innanzi. E un memo

riale che egli sta preparando, al quale ha dato per titolo: Bisogni urgenti cui soltanto il Vicario di Cristo può porre rimedio.

Leggiamo da dietro le sue spalle:

“Le vocazioni ecclesiastiche diminuiscono in un modo spaventoso e quelle poche che s'incontrano corrono gran pericolo di naufragio nel servizio militare cui ognuno è obbligato a sottostare.

Un mezzo efficacissimo per avere e conservare le vocazioni al sacerdozio è l'Opera detta di Maria SS. Ausiliatrice, commendata ed arricchita di molte indulgenze dalla Santità di Papa Pio IX. Suo scopo è di raccogliere i giovani adulti che abbiano buona volontà e siano forniti delle qualità necessarie a tal uopo.

Si osservi che sopra cento giovinetti che comincino gli studi, con animo di farsi preti, appena sei o sette giungono al sacerdozio; al contrario tra gli adulti si è osservato che sopra cento ve ne sono circa novanta che pervengono sino al presbiterato”.

Le pagine si aggiungono alle pagine. Leone XIII tra pochi giorni ne ascolterà la lettura e le indicazioni dell'umile prete saranno preziose per le sue decisioni.

Le sette e trenta. I giovani, terminato il primo studio del mattino, convergono in chiesa per la Messa. Don Bosco li ha preceduti e aspetta in sagrestia i piccoli penitenti. Un inginocchiatoio a destra, un altro a sinistra, Don Bosco seduto nel mezzo, il penitente con la fronte sulla spalla del confessore che attira a sé la testa del fanciullo. Questa mattina possono esserci in chiesa una cinquantina di ragazzi, tutti assorti nel loro esame di coscienza: uno dopo l'altro vanno a confessarsi e in poco tempo hanno finito. Si parla con tutta franchezza a questo padre buono cui poche frasi bastano per leggere nel fondo dei cuori.

In confessione il Santo lasciava ai penitenti la più completa libertà, ascoltandoli con pazienza infinita. Poche domande, giusto il necessario, nessuna se la confessione era stata esplicita. E per esortazione, tre o quattro frasi soltanto ma appropriate e tali da restare impresse nella mente del ragazzo che pur in così breve tempo aveva la certezza di essere stato profondamente compreso ed amato.

Don Bosco diceva per spiegare il suo stile di confessore consumato: “Che cosa aspetta un penitente nella confessione? Una ricetta. Se vuole una predica, vada a sedersi sotto il pulpito. In confessionale si danno ricette brevi, chiare, efficaci. Altrimenti si dimentica tutto: ed è una grande disgrazia perché una ricetta è fatta per essere applicata al male, e subito”.

Eppure questa brevità sconcertava molti, abituati a interminabili esortazioni. Nel 1867, in un suo soggiorno a Roma, dovette confessare molte dame della cosiddetta “buona società” provocando stupore, se non scandalo, tra quelle devote. Una di esse si lamentava un giorno con Don Francesia che accompagnava il Santo:

- Noi siamo abituate a ben altri sistemi! I nostri confessori non solo ci ascoltano a lungo ma ci offrono anche molte pie considerazioni. Don Bosco in pochi minuti ci ha liquidate!

- Ma quello che dice come le sembra? - domandò Don Francesia.
- Oh, splendido, splendido! Però con i nostri confessori è tutt'altra cosa!

Questa mattina, man mano che la Messa va avanti, Don Bosco dirada le fila facendo un cenno a questo e a quello perché vadano a comunicarsi; egli sa che possono fare a meno dell'assoluzione.

Finite le confessioni, dopo un po' di raccoglimento Don Bosco indossa i paramenti per celebrare la sua Messa. La dice con devozione ma senza lentezza, impiegando circa mezz'ora. All'altare è assorto, perduto, naufragato in Dio: tutto il mondo sparisce per lui. Le sue profonde genuflessioni, l'accento con cui pronuncia la preghiera, l'attenzione continua di tutta la persona, a volte anche le lacrime che gli scendono dagli occhi, rivelano a chi assiste l'ardore della sua pietà e la sua fede.

Quando esce dalla sagrestia sono quasi le nove. La ricreazione è sul più vivo: appena i ragazzi lo scorgono di lontano si precipitano verso di lui e fanno a gara per stargli il più vicino possibile. I primi arrivati gli baciano la mano e rimangono stretti attorno a lui, sospesi alle sue braccia, proprio come li rappresenta la statua posta ora di fronte alla basilica di Torino. Gli ultimi arrivati tentano di penetrare in mezzo alla folla rapidamente ingrossata per farsi vedere, per raccogliere dalle labbra del padre una parola, un sorriso, per avere la dolcezza della sua mano sulla fronte, sulle spalle. Gli ultimi arrivati si pigiano attorno a quella massa ondeggiante che all'improvviso cessa di gridare e di cantare. Ora, infatti, camminando pian piano attraverso il cortile, Don Bosco parla. A un ragazzo dice una parola affettuosa, a un altro fa una domanda, a questo rivolge uno sguardo che esprime tante cose, a quello dà discretamente un consiglio in un orecchio.

- Su, va a giocare! - ordina a un ragazzo che da tempo lo sfugge e che questa mattina ha trovato il coraggio di avvicinarsi a lui.

E così dicendo rivolge la parola ad altri senza lasciare le dita del piccolo.
- Ma come, sei ancora qui? - dice al prigioniero. - Non vuoi dunque andare a giocare? La domanda è ripetuta due, tre volte ancora. Finalmente Don Bosco lo lascia. Ma il

fanciullo ha ormai capito.
- Sei forse malato? - domanda a un giovane del ginnasio superiore. - Ma no, signor Don Bosco.
- Eppure, mi sembra proprio. Sei così verde.
- Ma se mi sento benissimo.
- E io ti dico che sei verde!
- Non capisco.

- Rifletti e capirai! Non occorrerà molto tempo al giovane per capire che rassomiglia
un po' troppo al fico di cui parla il Vangelo, quello con tante foglie e con nessun frutto. Ma ecco che si ferma: a due passi dal refettorio Don Bosco ha bisogno di sollevare una

gran risata per liberarsi senza troppa fatica da quella folla di figli entusiasti.
- Attenzione! - grida. - Comincia l'esame! Qual è il miglior vino del Piemonte? - Il barbera, il barbera! - gridano in coro tutti gli Astigiani.

- No, no, è il barolo! - urlano quelli di Alba.
- E invece è il moscato di Canelli! - strilla uno di quelle parti.
- A meno che non sia il caluso, - dice Don Bosco - sapete: quel vinello zuccheroso,

color dell'oro, che scivola giù come uno sciroppo.
- Sì, sì, è il caluso! - gridano adesso tutti i ragazzi. - Ebbene, vi sbagliate tutti.

- Ma allora, qual è il vino migliore? - Ma, piccoli sciocchi! Il miglior vino è quello che sta nel nostro

bicchiere. Che ci importano gli altri, se non possiamo averli?

E sull'ingenua burla, che mette tutti in allegria, il padre rimanda i figli a giocare e spinge la porta del refettorio.

Suonano le nove: Don Bosco ha avuto appena il tempo di bere una tazza di caffelatte che già comincia l'impegno massacrante delle visite.

L'anticamera è già piena di gente di ogni paese e condizione. La fama di santità ha convocato attorno all'uomo di Dio tutte le miserie del corpo e dell'anima. Tutte le mattine dieci, venti, trenta persone

si alzano dicendo: «Andrò a trovarlo, parlerò con lui, chiederò il sue aiuto”.

Per tre ore di seguito Don Bosco, inchiodato sulla sedia della camera, ascolta i suoi visitatori. Ecco una vocazione che bisogna rischiarare; una madre col tormento di un figlio scioperato da consolare; creditori da calmare; uno sconosciuto che pretende una lettera di raccomandazione; una miseria nascosta da soccorrere segretamente; aggrovigliate discordie di famiglie di cui bisogna ascoltare il racconto; un'anima sull'orlo dell'abisso, che bisogna sottrarre ad una tentazione di disperazione; bisognosi veri e falsi che chiedono soccorso; preti che domandano una predica, un triduo, una novena ed esigono che sia proprio lui a predicarli; un padre che chiede consiglio sull'avvenire del figlio; ed anche una infermità incurabile, un male che non perdona, che aspettano fiduciosamente la guarigione dalla benedizione di Maria Ausiliatrice. Al contatto con tanto dolore, il cuore di Don Bosco è toccato da infinita pietà.

Talvolta capita da lui, per fargli perdere tempo prezioso, anche qualche sfrontato che cerca di approfittare dei doni misteriosi di cui si è ormai impadronita la leggenda popolare. Come quel mattino che si presentarono da lui due giocatori del lotto a chiedere nientemeno che i numeri “buoni”.

- Giocate 5-10-14 e vincerete di sicuro! - rispose subito il Santo.

- Oh, grazie, grazie, signor Abate!
Mentre già stavano uscendo per precipitarsi al botteghino:
- Intendiamoci, - li fermò Don Bosco - ciò che vincerete sarà la vita eterna! Perché chi

punta sui cinque precetti della Chiesa, sui dieci comandamenti e sulle quattordici opere di misericordia si prepara un bel tesoro in cielo. Garantito dalla Bibbia!

Il suo senso dell'umorismo non lo abbandonava neppure in quelle sfibranti udienze.
- Povera gente! - rispose a chi voleva ridurgli quelle ore di colloqui. - Vengono da tanto lontano! Sono così infelici! Raccontano le loro pene con tanta fiducia! Sono così pazienti in

anticamera per ore ed ore! Bisogna accontentarli! Non posso rimandarne neanche uno. - Ma non potrebbe trovare un modo di diminuire almeno il numero dei visitatori? - Sì, ne conosco uno.
- E quale?

- Dire sciocchezze! Correrebbe allora la voce che Don Bosco vaneggia e l'anticamera si vuoterebbe come per incanto. Ma questo

non sarebbe né molto bello, né molto pratico, perché la Congregazione Salesiana ha bisogno di tutti.

E così continuò ogni mattina a sobbarcarsi alla fatica dell'immobilità, dell'attenzione continua e della conversazione: ne usciva con la testa che pareva scoppiargli, tormentato

quasi sempre dall'emicrania.
«Questa sola penitenza», scrisse il P. Oreglia di Santo Stefano, gesuita, “sarebbe

bastata ad attestare l'eroicità delle virtù di Don Bosco”.
A mezzogiorno, quando suona l'Angelus, in anticamera ci sono ancora alcuni che

aspettano; il Santo accoglie anche questi, li ascolta, li confessa, li consiglia. Non ha mangiato nulla dalla sera precedente, la testa si è fatta pesante, le gambe si sono intorpidite ma il sorriso non è scomparso dalle labbra. Tra mezzogiorno e mezzo e l'una, può finalmente scendere nel refettorio.

Il suo primo boccone, a pranzo, coincide spesso con la frutta dei suoi Salesiani che debbono subito lasciarlo per sorvegliare i giovani in ricreazione. Il loro posto è subito preso da un gruppo di allievi che spiavano il momento opportuno per entrare. Il miglior condimento del povero cibo di Don Bosco è la presenza di questi ragazzi che lo interrogano, che rispondono alle sue domande, che ascoltano, ridono o semplicemente stanno ad osservarlo: è anche questa una occasione preziosa per una riflessione o un aneddoto che fanno pensare.

Il suono delle due alla campana tronca la conversazione e i ragazzi si recano in fretta allo studio o al laboratorio. Per Don Bosco comincia adesso uno dei momenti sacri della giornata. Dalle due alle tre egli non c'è per nessuno: è dalle due alle tre, infatti, che Don Bosco prega nella cappella. In casa tutti lo sanno e tutti rispettano il raccoglimento di un uomo che ha tante cose da fare, tanti nemici, amici, benefattori da raccomandare alla misericordia di Dio, tanta luce da chiedere, tanta forza da implorare, tante azioni di grazia da innalzare al Cielo.

Alle tre in punto il Santo lascia la cappella. Non si può perdere tempo, c'è tutta la corrispondenza da sbrigare. Nella sua camera non troverà le ore tranquille necessarie per scrivere: ogni momento, sapendolo in casa, collaboratori, creditori, fornitori, benefattori, allievi verrebbero a interromperlo. Don Bosco prende allora il suo voluminoso pacco di lettere, infila nelle tasche carta e busta ed esce. Va in una casa amica, ora in questa, ora in quella, dove nessuno possa rintrac

ciarlo: talvolta torna anche, in cerca di rifugio, al suo caro Convitto Ecclesiastico.

È conosciuto, si sa perché viene. Lo scrittoio è già pronto, c'è l'inchiostro, ci sono penne e francobolli: sino a notte, Don Bosco scriverà.

A Don Giovanni Bonetti, insegnante nel Collegio di Mirabello, che ha trovato in poca salute e afflitto per qualche malinteso, il Santo si affretta a scrivere:

Caro mio Bonetti,

appena avrai ricevuto questa lettera va tosto da Don Rua e digli schiettamente che ti faccia stare allegro. Tu poi non parlare di breviario sino a Pasqua: cioè ti proibisco di recitarlo. Dì la tua Messa adagio per non stancarti. Ogni digiuno, ogni mortificazione nel cibo è proibita. Insomma il Signore ti prepara il lavoro, ma non vuole che tu lo cominci se non quando sarai in perfetto stato di sanità e specialmente non darai più un getto di tosse. Fa' questo e farai quello che piace al Signore. Tu puoi compensare ogni cosa con giaculatorie, con offerte al Signore dei tuoi incomodi, col tuo buon esempio.

Dimenticavo una cosa. Porta un materasso nel tuo letto e aggiustalo come si farebbe ad un poltrone matricolato; sta' bene riparato nella persona in letto e fuori letto. Amen. Dio ti benedica.

Ora a tino dei suoi migliori missionari, Don Costamagna, partito pochi giorni prima a capo di una spedizione, rivolge raccomandazioni e consigli:

Mio caro figlio in Cristo Gesù, la vostra partenza mi ha straziato il cuore. Ho cercato di mostrarmi forte ma ho provato dentro un dolore grandissimo. Non ho potuto dormire mai, per tutta la notte dopo la nostra separazione. Oggi sono più calmo: Dio ne sia benedetto! E Dio ti benedica, mio figliolo carissimo e con te benedica tutti i tuoi compagni e Maria

Ausiliatrice vi protegga e vi conservi tutti.
Ecco adesso alcuni consigli che potrebbero servire di guida a tutti i Salesiani d'America

e alimentare la loro meditazione durante il ritiro che comincerete tra poco. Vorrei potervi tenere una conferenza sullo spirito che deve animare tutti i nostri atti e tutte le nostre parole. Il sistema preventivo resti in onore nei nostri Istituti! Mai castighi severi, mai discorsi umilianti, mai rimproveri in pubblico! Dolcezza, carità e pazienza: ecco le nostre virtù. Niente parole che feriscono e tanto meno schiaffi, anche se leggeri!

Servitevi di castighi negativi e sempre in modo tale che chi li riceve resti più affezionato che mai. Il Salesiano cerchi sempre di essere gentile con tutti: niente rancore, niente vendetta; ma un'anima pronta a perdonare e a dimenticare il passato. La dolcezza della parola, dell'azione, del consiglio, giunga sempre a penetrare i cuori.

Ecco la traccia su cui tu e gli altri predicatori potrete ricamare le vostre meditazioni durante questi ritiri della fine dell'anno.

Arrivederci, caro figlio mio! Qui tutta una moltitudine prega insieme a me per voi tutti. Al direttore di una casa salesiana in Italia invia alcuni pensieri che servano da strenna

spirituale:

A te: fa' in modo che tutti quelli cui parli diventino tuoi amici. Al prefetto: Tesaurizzi tesori pel tempo e per l'eternità. Ai maestri, assistenti: In patientia vestra possidebitis animas vestras. Ai giovani: La frequente Comunione. A tutti: Esattezza nei propri doveri.

Dio vi benedica tutti e vi conceda il prezioso dono della perseveranza nel bene. Amen! Prega pel tuo in Gesù Cristo.

A un parroco di Forlì, stanco e sfiduciato, invia poche righe che equivalgono a un trattato:

Carissimo nel Signore,

ho ricevuto la sua buona lettera e i diciotto franchi entro la medesima. La ringrazio: Dio la rimeriti. È manna che cade in sollievo delle nostre strettezze. Ella poi stia tranquilla. Non parli d'esentarsi dalla parrocchia. C'è da lavorare? Morrò nel campo del Signore, sicut bonus miles Christi. Sono buono a poco? Omnia possum in eo qui me confortat. Ci sono spine? Cangiate in fiori, gli Angeli tesseranno per lei una corona in Cielo. I tempi sono difficili? Furono sempre così, ma Dio non mancò mai del suo aiuto. Christus heri et hodie. Domanda un consiglio? Eccolo: prenda cura speciale dei fanciulli, dei vecchi e degli ammalati e diverrà padrone del cuore di tutti.

Del resto, quando venga a farmi una visita ci parleremo più a lungo.

Al parroco di Barbania, comune della provincia di Torino, così si indirizza:

Carissimo nel Signore,

mi fu detto e lo sapevo già che in codesta sua parrocchia c'è un malato, uomo onesto non avverso alla religione, ma che lusingato dalla speranza d'avere tempo non si prepara come dovrebbe a comparire davanti al Signore.

Io l'ho raccomandato alle preghiere che si fanno nella chiesa di Maria Ausiliatrice e continueremo. Ella poi, per compiere il suo dovere, si porti a casa dell'infermo e gli dica, se siamo ancora in tempo, che è brevissimo il tempo che gli rimane da vivere. Dio lo vuole salvo, ma bisogna che faccia presto. Potrebbe anche darsi che Dio, mosso dal pentimento e dalle preghiere del malato, lo ridoni a sanità. Questo sta nei decreti di Dio. Io non conosco, né mai ho veduto l'ammalato; ma Ella può facilmente discernere chi sia tra i suoi

parrocchiani. Dio ci benedica tutti e preghi per me.

A un suo chierico ripete alcuni dei suoi consigli favoriti:

Figliolo carissimo,

la tua ultima lettera ha dato nel segno. Fa' come hai scritto e vedrai che saremo ambedue contenti; ma come ti dissi già altra volta, io ho bisogno da te di una confidenza illimitata, cosa che certamente mi concederai, se pensi alle sollecitudini usate e che vieppiù userò in avvenire in tutto ciò che può contribuire al bene dell'anima tua ed anche al tuo benessere temporale.

Intanto ricordati di questi tre avvisi: fuga dell'ozio, fuga dei compagni dissipati e frequenza dei compagni dati alla pietà; per te questo è tutto.

Prega per me che ti sarò sempre affezionatissimo.

Ma ecco un suo fedelissimo benefattore che gli ha indirizzato una madre con il figliolo. Il Santo non ha accettato il ragazzo e spiega il perché:

Carissimo Signor Barone,

mi ha addolorato molto che il giovane Rosso abbia dovuto ritornare a casa com'era venuto.

Mi è stato impossibile ammetterlo. Non ho più nemmeno un posto. Del resto la madre che l'accompagnava era vestita tanto bene che mi sono domandato se non dovevo stenderle io la mano. Non posso accettare in

mezzo ai miei poveri figlioli, per la maggior parte del tutto abbandonati, ragazzi i cui genitori vestono con tanto lusso.

Spero che vorrà comprendermi se non ho potuto assecondare il suo desiderio e voglia fare la carità di una piccola preghiera al suo devotissimo nel Signore.

Le buste già chiuse si accumulano in un angolo dello scrittoio. Don Bosco scrive e scrive: per sua stessa ammissione, si sa che arrivò a spedire molte decine di lettere al giorno. Scende la notte, si accendono le lampade e, per obbedire all'ordine dei medici, Don

Bosco deve arrestarsi.
Ritornando a Valdocco, fa una sosta al Santuario della Consolata. Quanti ricordi, per lui,

nell'antico Santuario! Le sue prime Messe, la madre che vi si recava ogni giorno a pregare, Don Cafasso, il pellegrinaggio dei suoi giovani nei giorni della malattia che pareva mortale.

Ancora pochi passi e il Santo è a casa, dove tutti i figli lo aspettano con impazienza. Non ha avuto ancora il tempo di chiudere la porta ¦

e di accendere il lume che già si bussa. C'è ancora un'ora prima della cena ed egli la impiega a illuminare, fortificare, spronare i collaboratori e i continuatori della sua opera, a riempirli del suo spirito, ad accendere nei loro cuori la fiamma che arde nel suo.

Ore otto: la cena. Questa sera Don Bosco non è in ritardo ma benedice la mensa e la presiede. Alcuni versetti del Vangelo, una breve lettura e si accende subito, animatissima, la conversazione tra il padre e i figli più vicini, tutti pieni di brio, d'allegria, di confidenza, di semplicità.

Fra una mezz'ora, usciti i “grandi”, entreranno i piccoli a prenderne il posto. Neppure un istante della giornata del Santo è stato libero e anche qui, a cena, egli è sempre l'uomo di tutti.

Ore nove: la campana suona la fine della ricreazione serale. D'un tratto le conversazioni cessano e i ragazzi si raccolgono sotto il portico. Un canto di settecento voci riempie tutta la casa e giunge ben al di là delle mura dell'Oratorio; poi, tutti assieme, recitano le preghiere. Don Bosco sta nel mezzo, inginocchiato per terra e canta con la sua bella voce tenorile che domina ogni altra. Terminata la preghiera, sale su uno sgabello e volge attorno uno sguardo di tenerezza sui giovani che lo fissano e parla, come un vero padre, familiarmente, affettuosamente. È la celebre buona notte, la sua potente “novità”

pedagogica. I ragazzi lo seguono in assoluto silenzio, pendono dalle sue

labbra e un grafie formidabile, gridato a pieni polmoni, risponde al suo augurio di una notte serena. Quando il Santo scende dalla improvvisata tribuna, aiutato da due braccia protese, tutti gli si pigiano attorno per baciargli la mano ancora una volta. Alcuni restano più a lungo, perché hanno una domanda da fare o una pena da confidare o perché un cenno della sua mano li ha fermati. È il momento dei dialoghi brevissimi, ma quanto profondi ed efficaci!

- Come stai?
- Benissimo!
- Ma, per l'anima?
- Beh! Per questo.
- Se morissi questa notte, saresti pronto?
- Non troppo.
- Allora quando verrai a confessarti?
- Domani mattina.
- Perché non questa sera?
- No. Questa sera non farei le cose bene.
- Allora domani, eh?
- Sì, signor Don Bosco, glielo prometto. E ad un altro:

- T'ho fatto rimanere, perché vorrei concludere con te un affare, vorrei firmare un contratto.

- Un contratto?

- Sì, un contratto. Dimmi: ti piacerebbe restare sempre con Don Bosco? Gli occhi del ragazzo si illuminano all'improvviso di una luce nuova.

- Mi piacerebbe tanto! Ci avevo già pensato, ma non sapevo come fare a dirglielo.

- Allora va da Don Rua e digli che voglio firmare con te un contratto. Egli capirà. La Società Salesiana, domani avrà un novizio in più.

- Don Bosco, - gli dice un allievo di quarta ginnasiale giunto da poco - vorrei chiederle il permesso di uscire domattina: vorrei andare a confessarmi alla Consolata.

- Benissimo! Promettimi però una cosa.
- Quale?
- Di dire al confessore questo e quest'altro. - E qui il Santo nomina alcune mancanze

ben precise.
- Ma allora, Don Bosco, non c'è bisogno che vada a confessarmi fuori!

- Se vuoi, ti aspetto domattina.
E il piccolo se ne va a dormire, contento, con il cuore alleggerito.
- Guardi, signor Don Bosco - gli dice con aria desolata un ragazzo mostrandogli una

lettera. - Legga! L'Economo ha scritto a mia sorella perché non posso pagare le dieci lire mensili.

Don Bosco legge e mentre sale le scale si fa esporre le condizioni della famiglia; sono penose. Giunti così in camera:

- To', prendi una presa! - dice il buon padre aprendo sotto il naso del fanciullo una vecchia tabacchiera dimenticata sul tavolo.

Il ragazzo annusa, starnutisce e ride.
- Bene, sta' tranquillo, figlio mio. L'Economo non è ancora andato a letto: va' subito da

lui. Gli dirai che penso io a tutti i tuoi debiti, passati, presenti e futuri.
- E se l'Economo non mi dà ascolto?
- Allora, ascolta bene cosa farai: uscirai dalla portineria e rientrerai immediatamente

per la chiesa! E adesso va' subito dall'Economo e poi a dormire tranquillo.
Il ragazzo scende la scala a quattro gradini: attraversando il cortile Don Bosco lo sente

zufolare tutto allegro.

Non è finita ancora: alcuni Superiori della casa approfittano del momento libero per dirgli una parola. Alle undici il Santo è ancora lì, ad ascoltare, ad interrogare, a consigliare. Finalmente l'ultimo si allontana e la giornata sembra terminata.

Una volta, quando tutti dormivano, egli sedeva allo scrittoio per riempire le pagine del manoscritto che doveva diventare il prossimo numero delle Letture Cattoliche. Bei tempi quelli! Adesso si fa vecchio, le forze vengono meno, la vista non regge più e quando viene la notte non si può più lavorare.

- Pazienza! - esclama Don Bosco sottovoce. - Pazienza! Anche questa è volontà di Dio.

Esce dalla stanza, attraversa l'anticamera, spinge la porta che mette sul balcone e alza gli occhi verso la cupola su cui troneggia la statua della Madonna. Verso di Lei sale l'ultimo sospiro della lunga giornata. L'orologio del campanile suona le undici e mezzo. È l'ora di andare a letto, ma potrà dormire questa notte? Può venire un sogno, uno dei suoi lunghissimi sogni che lo terrà agitato sino all'alba. Sembra che il Cielo, non volendo togliere nulla al tempo delle sue giornate preziose, attenda la calma della notte per spronarlo sul suo cammino.

CAPITOLO XVI.

A Parigi e a Barcellona.

Un giorno del 1880 il Santo annotava in un suo taccuino: «Un occhio attento osserverebbe facilmente il carattere tutto speciale dei singoli periodi di dieci anni che sono passati dalla fondazione dell'Oratorio ad oggi. Il primo (1841-1851) è il'periodo dell'Oratorio ambulante; il secondo (1851-1861) è quello del consolidamento; il terzo (1861-1871) potrebbe prendere il nome di espansione al di fuori di Torino; il quarto (1871-1881) potrebbe forse chiamarsi periodo di espansione mondiale».

Osservazioni, queste, ampiamente verificate dai fatti.

Infatti, proprio nel 1871 l'opera Salesiana, che conta già una quindicina di Case in Italia, valica le Alpi per stabilirsi in Francia, a Nizza, a Tolone, a Marsiglia, e in Spagna a Utrera e fa rotta per l'America del sud, verso l'Uruguay e l'Argentina, stabilendosi a Montevideo e a Buenos Aires.

Uno dopo l'altro, in progressione impressionante, tutti i sogni si traducono in realtà.

Ma questo apostolato nuovo che invade rapidamente il mondo ha bisogno di operai numerosi e di rinforzi continui: come e dove trovarli?

Accanto a sé, nelle sue case e tra le file dei laici generosi che lo fiancheggiano, tra gli artigiani dei suoi laboratori e tra i borghesi e gli aristocratici che si recano ad aiutarlo, Don Bosco scorge “operai della sesta, della nona, dell'undicesima ora” che aspettano di essere chiamati a lavorare nella vigna della Chiesa.

È da questa constatazione di ogni giorno che nasce l'Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni adulte, per la quale Don Bosco apre all'Oratorio corsi speciali trasferiti poi a Sampierdarena, incoraggiati sin dal loro sorgere dalla particolare benedizione del Papa.

Nel 1883 Don Bosco, che voleva avere accanto a sé un'opera tanto cara al suo cuore, la trasferì a Mathi nel Canavese. Aveva allora una sessantina di allievi. L'anno dopo era trasportata proprio dentro Torino, nei locali del collegio salesiano eretto accanto alla chiesa di San Giovanni Evangelista, il San Giovannino dei vecchi torinesi. Don Bosco voleva che i giovani e gli uomini maturi che si preparavano al sacerdozio fossero subito addetti al servizio parrocchiale e pertanto affidò loro tutto il servizio liturgico di quella chiesa così frequentata.

In quel 1884, gli allievi erano già centoquaranta. Centinaia di sacerdoti, tra cui molti missionari, uscirono da quella casa, raggiungendo poi le loro diocesi o restando nella Congregazione Salesiana.

I risultati positivi di quel Seminario nuovo per i tempi, se sorprendevano molti non stupivano Don Bosco che ricordava che a Chieri aveva ogni sera dato lezioni di latino al

sacrestano della cattedrale, un brav'uomo di trentacinque anni, molto devoto, che ad ogni costo voleva diventare prete. La pazienza di Giovannino era riuscita a preparare l'allievo abbastanza da superare il corso di ammissione al Seminario.

Forse fu proprio questo ricordo di gioventù, mai cancellato, che sostenne l'uomo di Dio nelle difficoltà della nuova impresa.

Con l'Opera per le vocazioni adulte si chiude la lunga serie delle nuove creazioni del Santo, che ormai si dedicherà unicamente a consolidare le Opere già fondate e a diffonderle nel mondo.

È per questi motivi che nel 1883, a 68 anni, Don Bosco decide di intraprendere il viaggio famoso attraverso la Francia. Il suo corpo era estremamente logoro; le gambe non lo reggevano quasi più e spesso doveva camminare sostenuto dalle braccia dei suoi accompagnatori; la vista era ormai debolissima.

Era un vecchio sfinito ma la necessità di trovare denaro e di fare conoscere la sua opera lo spingeva verso la favolosa Ville Lumière, in quello scorcio di Ottocento al colmo della sua fama di “metropoli tentacolare” in cui si affrontavano vizio e virtù.

Partì da Torino il 31 gennaio 1883 e passò tutto il mese di febbraio a Nizza. Poi, attraverso Tolone, Marsiglia, Avignone, giunse a Lione. Dappertutto folle immense correvano da lontano per ottenere da lui una preghiera, un consiglio, una benedizione. Infermi nell'anima e nel corpo si accalcavano attorno al vegliardo, aspettando dalle sue mani e dalle sue labbra il gesto o la parola che guarisce.

Ad Avignone, il 2 aprile, il Santo non riuscì a raggiungere il suo scompartimento a causa della folla che aveva invaso la stazione e il treno dovette partire con molto ritardo. Il trionfo si ripetè a Lione, dove in un consesso di ricchi borghesi accorsi a salutarlo, pronunciò le parole (“La salvezza della società è nelle vostre tasche”) che abbiamo riportato in parte e che fecero grande rumore.

Fu ancora a Lione che il cocchiere della carrozza che lo trasportava, disperato per la folla che sempre assediava il veicolo, uscì nella frase rimasta famosa tra i Salesiani: “E meglio portare in carrozza il diavolo piuttosto che doverci condurre un Santo!

Il sabato 14 aprile ebbe luogo un'importante seduta straordinaria alla Società Geografica di Lione. Don Bosco vi tenne una conferenza dinanzi a quegli studiosi, rivelandosi geografo eruditissimo senza avere mai viaggiato. Parlò della Patagonia dove da molti anni il suo pensiero seguiva il lavoro dei figli missionari. Qualche tempo dopo, la Società Geografica decretò di conferire una medaglia d'oro all'applauditissimo conferenziere. Quella medaglia, assieme all'altra conferitagli dalla Società Cattolica di Barcellona, sarà posta sul feretro di Don Bosco, durante i funerali, in segno di riconoscenza per i benefattori di Francia e di Spagna.

Il 19 di aprile il Santo giungeva a Parigi e prendeva alloggio presso alcuni amici nell'Avenue de Messine. Era stato preceduto dalla corrispondenza, sacchi di lettere che avevano atterrito il portiere della casa. Ma quello non fu che il primo avviso della folla immensa che da quel giorno avrebbe stretto letteralmente d'assedio l'edificio.

Quest'ansia di vedere un povero prete italiano, quindici giorni prima appena conosciuto, nella più smaliziata e scettica delle capitali d'Europa era inspiegabile per molti.

I giornali lo descrivevano come “vecchio, debole, appena in grado di reggersi”. “È un uomo di bassa statura, dall'aspetto semplice e modesto, senza affettazione, senza pompa e senza paroloni” scriveva “Le Figaro”. “Porta una tonaca di panno scadente, ha il passo malsicuro, la vista affaticata: è sprovvisto di ciò che noi chiamiamo distinzione e eloquenza” scriveva un altro.

Anche a Parigi Don Bosco faceva miracoli. Certo meno di quanto proclamasse la voce popolare, ma sempre a sufficienza per alimentare l'entusiasmo sempre crescente di tutta la capitale. I giornali si impadronirono immediatamente e divulgarono in tutta la Francia la notizia

delle guarigioni prodigiose di due fanciulli operate nei primi giorni del suo soggiorno.

Il quotidiano “Le Clairon”, così presentava Don Bosco al pubblico in un articolo del 30 aprile: “In questi giorni a Parigi si parla solo di questo umile prete che viene dall'Italia, preceduto da una fama compromettente: quella di un uomo che fa miracoli».

Il 2 maggio “Le Figaro” gli dedicava un altro articolo: “Da otto giorni non si fa che parlare di Don Bosco e della sua opera. Il San Vincenzo de' Paoli italiano ritornerà venerdì a Torino, carico di doni per i suoi Orfanotrofi. La strada dove sorge la casa in cui egli alloggia da una settimana è bloccata da centinaia di carrozze”.

Il “Moniteur Universel” del 5 maggio scriveva: «Dappertutto, dove si sa che egli celebra la messa o deve parlare, alla Maddalena, a San Sulpizio, a Santa Clotilde, si accorre, si gremisce letteralmente la strada e la chiesa e due ore prima del suo arrivo non c'è più posto dove possa cacciarsi la stessa Sarah Bernhardt”.

Leon Aubineau scriveva nell'“Univers” di quello stesso 5 maggio, in un articolo che è quasi una sintesi dell'accoglienza di Parigi: “Parigi è attonita per la commozione manifestatasi nel suo seno attorno all'umile prete torinese, che non ha nulla d'attraente agli occhi del mondo. Egli ha origine da un'oscura famiglia e un aspetto umile. La sua voce non giunge a farsi sentire dai numerosi uditori. Il suo passo è tentennante e la sua vista debole. Perché le folle gli corrono dietro? Perché l'unica preoccupazione della capitale in questo momento è di vedere e di avvicinare Don Bosco? Dov'è? Che cosa fa? Quindici giorni fa questo nome era appena conosciuto; era stato pronunciato qualche volta nelle conferenze di carità; si conoscevano all'ingrosso le opere sue; e un piccolo libro che era stato letto, non senza sorridere, aveva detto qualche cosa, a un piccolo numero di persone devote, delle meraviglie delle sue fondazioni, del loro sviluppo e dei loro frutti. Questa cognizione non andava più in là. Moltissimi cattolici in questo momento sono sbalorditi per il risonare improvviso di un nome che prima avevano appena inteso pronunciare.

E il plauso dei parigini è quasi unanime, e l'attrazione irresistibile che agita le folle ha qualcosa di meraviglioso. In ciò vi è una risposta incosciente, se si vuole, ma diretta ed energica, contro la proclamazione d'ateismo che da tutte le parti si pretende di fare in nome del popolo. E all'uomo di Dio che sono indirizzati tutti questi omaggi; è l'uomo della fede e della preghiera che la folla vuol contemplare. Le chiese più grandi, la Maddalena, San Sulpizio, Santa Clotilde, sono troppo strette per contenere i fedeli che vogliono ascoltare la Messa di Don Bosco. Non domandano altra cosa da lui.

Le moltitudini che abbiamo visto, or non è molto, circondare il Curato d'Ars, andavano a cercare un'assoluzione. Don Bosco non si rifiuta d'accogliere i peccatori, ma a Parigi in mezzo al turbinio che lo trascina, la moltitudine comprende che egli non avrà molto tempo per ascoltare una confessione e tutto lo slancio che si manifesta intorno al mite e semplice prete ha per scopo di ottenere la sua benedizione e un ricordo nelle sue preghiere. Ciascuno desidera che questa benedizione discenda sulla sua miseria personale o sopra un suo dolore particolare. Il buon prete ascolta tutti, s'interessa di tutti, invoca sopra tutti la protezione di Maria SS. Ausiliatrice. Egli non appartiene più a sé, ma si abbandona a tutti coloro che lo supplicano; si fa tutto a loro, alle loro pene, alle loro speranze; consola, benedice, incoraggia, non si preoccupa del tumulto che lo circonda, e sembra stare unicamente attento a chi gli parla, s'informa di tutti, e, consigliando, tutti conforta”.

Quanto più si faceva incessante la straordinaria attenzione della stampa di ogni tendenza, tanto più aumentava il flusso di visitatori e di lettere al domicilio parigino di Don Bosco. Un giornale notava che “non si era mai vista tanta folla a Parigi attorno a un prete dai tempi di Pio VII».

Don Rua, accorso per aiutare a sbrigare la corrispondenza, scriveva a Torino: «Qui, anche se fossimo sette segretari, resterebbero lo stesso ogni sera molte lettere senza risposta”.

Così pure, alla fine di ogni giornata, si dovevano rimandare a casa molti visitatori che non avevano potuto essere ricevuti. Per accontentare tutti, Don Bosco avrebbe dovuto passare le notti ad ascoltare persone di ogni condizione. Avrebbe fatto ciò volentieri ma verso le undici il suo corpo malato non resisteva più.

Fin dalle cinque del mattino era in piedi.

Terminata la preghiera già riceveva i visitatori dalle sei alle sette e mezzo, quando una carrozza lo conduceva a celebrare la Messa in una parrocchia, in una comunità religiosa, in una casa privata. Dopo la liturgia, una folla lo aspettava e, in sacrestia o in una sala attigua, continuava ad ascoltare il racconto di infinite miserie, a incoraggiare, a illuminare, a consolare, a benedire. Mangiava qualcosa verso le undici e a mezzogiorno in punto era di nuovo a disposizione di chiunque volesse parlargli; e questo per dieci ore consecutive!

Interrompeva infatti solo verso le ventidue per raggiungere i suoi segretari, firmare la corrispondenza, scrivere egli stesso qualche lettera e finalmente verso mezzanotte, dopo una lunga preghiera, si buttava sul letto sfinito.

La casa dove alloggiava offriva uno spettacolo straordinario. Due ore prima dell'inizio delle udienze l'anticamera era già affollata. Un servizio d'ordine perfetto, assicurato dagli amici parigini del Santo, dirigeva il via vai della folla, consegnando un numero progressivo a chiunque chiedesse di parlare con Don Bosco. Molti visitatori dovettero accontentarsi di vederlo senza potergli parlare.

Un giorno venne anche Victor Hugo, il più famoso scrittore del tempo. Venne in incognito, fu ricevuto dopo più di tre ore di anticamera e discusse con il Santo su problemi religiosi, facendo professione di ateismo e rivelando il suo nome illustre solo a visita finita. “Voglio riflettere su quanto mi ha detto” disse il poeta andandosene “ma tornerò presto a trovarla”.

Tornò infatti e anche questa volta attese pazientemente il suo turno nell'anticamera. Introdotto da Don Bosco, gli prese affettuosamente le mani e disse: “Non sono più il personaggio dell'altro giorno! Le ho fatto uno scherzo presentandomi come incredulo. Sono Victor Hugo e la prego di voler essermi amico. Credo all'immortalità dell'anima, credo in Dio e spero di morire assistito da un prete cattolico che raccomandi la mia anima al Creatore”.

Queste parole furono pronunciate nel maggio del 1883. Il 2 agosto dello stesso anno Victor Hugo consegnava ad un amico il suo testamento. Conteneva, tra l'altro, queste parole: «Rifiuto la preghiera di tutte le chiese, domando una preghiera^a tutte le anime; credo in Dio”.

Il segreto dell'animo del grande poeta romantico resta ancora da svelare, avvolto in parole e azioni contraddittorie.

Comunque sia, Don Bosco da quel giorno non dimenticò mai di pregare per colui che gli aveva chiesto di essergli amico.

Incoraggiato dallo stesso Cardinale Guibert, Arcivescovo di Parigi, Don Bosco predicò a favore delle sue opere alla Maddalena, la grande chiesa in stile neoclassico sulla piazza della Concordia.

Salito alle tre sul pulpito che aveva potuto raggiungere solo dopo molto tempo e grazie agli sforzi di robusti volontari che fendevano la folla in attesa da ore, Don Bosco, nel suo francese corretto ma dalla pronuncia non certo impeccabile, raccontò la storia delle sue Opere e fece appello per esse al cuore di Parigi. Non fu udito bene, fu capito appena, eppure in pochi minuti si raccolsero diecimila franchi nelle borse della questua, fatte circolare dai nomi più famosi del tout Paris.

Dalla capitale che lo assediava, Don Bosco si allontanò dal 15 al 19 maggio per recarsi sino a Lilla, dove accettò la direzione di un Orfanotrofio maschile tenuto dalle Suore della Carità. Anche durante questo viaggio, la folla non gli diede tregua: quando passava, dalle moltitudini per le strade, dai grappoli umani appesi ai lampioni, dai tetti, dalle finestre, partiva ossessivo il grido: Il Santo, Il Santo! I più entusiasti, armati di forbici, gli tagliuzzavano la veste lasciandolo spesso in condizioni penose. Senza scomporsi troppo davanti a quelle scene che rasentavano il fanatismo, Don Bosco si limitava a borbottare: «Vedo bene che non tutti i matti stanno in manicomio!».

Partendo per il nord della Francia, aveva affidato ai suoi ospiti di Avenue de Messine un meraviglioso zaffiro che una signora di Barcellona gli aveva regalato in segno di riconoscenza per la guarigione miracolosa del marito. “Fatelo stimare” aveva detto la donna “poi vendetelo per tutti i biglietti da mille che vale”. Don Bosco decise di metterlo alla lotteria. I biglietti andarono a ruba e, quando il Santo tornò, si fece l'estrazione alla presenza di una grande folla. Vinse con un solo biglietto un'altra signora spagnola che, appena ricevuto l'anello, andò verso Don Bosco e glielo restituì, dicendo tra gli applausi: “Lo accetti di nuovo e lo rimetta in palio”.

Il 26 di maggio Don Bosco lasciava Parigi e sin sulle banchine della stazione lo seguì l'affetto della grande capitale. Riconosciuto da alcuni viaggiatori mentre prendeva il biglietto per Torino, fu subito circondato dalla folla che si assiepò fin sotto il finestrino. Quando il treno partì tutti quegli sconosciuti si tolsero il cappello in segno di omaggio e di ringraziamento.

“Ricordi” disse il Santo a Don Rua quando potè sedersi “ricordi la collinetta a destra della strada di Buttigliera? Su quella collina c'è una catapecchia con un praticello davanti. Quella è la casa di mia madre e sul quel prato io ho menato al pascolo due mucche”.

E dopo un momento di silenzio, con un suo sorrisetto ironico: “Ah, se quei bravi signori che mi hanno riempito di complimenti sapessero che li hanno fatti a un contadino di Castelnuovo d'Asti!”.

Poco dopo il rientro dal viaggio trionfale, Don Bosco era costretto a ripartire nuovamente. Questa volta per Frohsdorf, in Austria, al capezzale del Conte di Chambord, pretendente al trono di Francia, caduto gravemente malato.

Don Bosco aveva cercato di resistere alle sollecitazioni, talvolta indiscrete, degli intimi dell'aristocratico, rispondendo che la sua salute

non gli permetteva un altro viaggio ma che avrebbe pregato e fatto pregare i suoi.

Quando a Torino giunse il Conte Du Bourg, inviato espressamente dallo Chambord, anch'egli si sentì rispondere con un altro cortese ma fermo rifiuto.

“No, signori, non posso!” rispose Don Bosco “Il viaggio in Francia mi ha tolto ogni forza. Del resto, cosa andrei a fare in quel castello? Non è il mio posto: pregare per il principe, lo faccio e lo faccio fare da tutta la mia Congregazione. Se il Signore vorrà intervenire, interverrà ugualmente”. Quella gente però continuava a insistere, addirittura con frasi come questa: “In Francia le serberanno rancore per questo rifiuto!”.

“Ebbene pazienza!” sospirò alla fine il Santo “Mi è stato inviato un telegramma per chiamarmi ed ho risposto con un telegramma. Poi mi è stata mandata una lettera ed ho risposto con una lettera. Ora mi si spedisce una persona: occorre quindi che io risponda con la mia persona stessa”.

La sera medesima, accompagnato da Don Rua, partiva in treno e, dopo un viaggio di due notti ed un giorno, arrivava tra le montagne austriache. Dopo l'incontro con Don Bosco il Conte di Chambord si disse guarito ma, abusando forse troppo della salute che pensava di avere ritrovata, si permise parecchie imprudenze, tra cui quella di volere subito assistere a una partita di caccia di cinque ore, sparando anch'egli con il fucile. Poche settimane dopo ricadeva nella sua malattia e moriva in quello stesso anno 1883.

Già dal 16 luglio, subito dopo il colloquio con il conte, il Santo era ritornato a Torino.

Don Bosco non esagerava certo dicendosi sfinito di forze. L'anno dopo, le notizie della sua salute essendo giunte a Roma, il Papa stesso si preoccupava del carico di responsabilità che gravava sulle spalle malate dell'Apostolo.

«Il Santo Padre», scriveva il Cardinal Jacobini a nome del Papa a Mons. Alimonda, Arcivescovo di Torino, “Il Santo Padre sa che la salute di Don Bosco deperisce di giorno in giorno. Teme quindi per l'avvenire del suo Istituto. Vorrebbe Vostra Eminenza, con tutta la delicatezza che la cosa richiede, adoperarsi presso di lui perché designi chi in caso di bisogno sia in grado di sostituirlo o di prender sin d'ora il titolo di Vicario Generale con diritto di successione? Il Santo Padre si riserva di scegliere tra queste due soluzioni. Ma desidera

vivamente che vostra Eminenza compia subito questa missione che riguarda i più vitali interessi di codesto Istituto”.

Informato della sollecitudine di Leone XIII, il 24 ottobre 1884 Don Bosco ne avvisava il suo Capitolo che, con il lungo silenzio con cui accolse la notizia, mostrò di avere perfettamente inteso il triste significato della disposizione. Quattro giorni appresso, dopo aver ancor più lungamente pregato, il Santo informava i suoi consiglieri di avere scelto Don Michele Rua come Vicario Generale della Società Salesiana.

Roma approvò subito la scelta dell'Apostolo e Leone XIII ordinò di redigere il decreto che conferiva la facoltà di procedere alla nomina. Dieci mesi dopo, con una circolare datata 24 settembre 1885, Don Bosco ne dava l'annuncio alla Congregazione con queste parole:

“Dopo aver a lungo pregato Iddio, invocato i lumi dello Spirito Santo e la protezione speciale della Vergine Ausiliatrice e di San Francesco di Sales, nostro Patrono, usando delle facoltà concessemi recentemente dal Supremo Pastore della Chiesa, nomino mio Vicario Generale Don Michele Rua, attualmente Prefetto della nostra Pia Società. D'ora innanzi egli mi sostituirà nel pieno e completo esercizio del governo della Congregazione”.

La lettera del cardinal Jacobini all'Arcivescovo di Torino, conteneva anche un'altra notizia: Leone XIII proclamava Vescovo Don Giovanni Cagliero, e lo nominava Vicario Apostolico della Patagonia Settentrionale e Centrale. L'annuncio fu dolce al cuore del Padre ma non lo sorprese: fin dal 1854 egli, seppure in termini velati, aveva profetizzato l'avvenimento che oggi diventava realtà.

La consacrazione del nuovo Pastore della Chiesa missionaria ebbe luogo il 7 dicembre 1884 nella basilica di Maria Ausiliatrice.

Malgrado la sua salute declinasse sempre più, Don Bosco trovò ancora la forza d'imporsi la dura fatica di recarsi a trovare, dopo quelli di Francia, gli amici e i benefattori della Spagna, a lui carissima. Partì nella primavera del 1886 e, passando per la Provenza, giunse in treno a Barcellona, mèta del suo viaggio.

A tre anni di distanza dal trionfo di Parigi, la capitale catalana non volle essere da meno e gli riservò un'accoglienza trionfale. Alla stazione, tutte le autorità erano in attesa; quaranta carrozze erano schierate sulla piazza per accompagnarlo in corteo regale sino alla casa salesiana di Sarrià. La folla che si pigiava per vederlo, per acclamarlo e per ricevere la sua benedizione era talmente numerosa che si impiego un'ora abbondante per raggiungere dal treno quelle carrozze.

L'entusiasmo andò crescendo ogni giorno; nobili, religiosi, industriali, operai, giornalisti, scrittori, tutti accorrevano a Sarrià da ogni angolo della Spagna. Sulla linea ferroviaria che conduceva alla casa salesiana si dovettero raddoppiare le corse e attaccare due locomotive per poter trainare carrozzoni carichi persino sul tetto. Davanti all'Istituto la folla bivaccava sulla strada non trovando più posto all'interno. Fu necessario fare passare a gruppi di cinquanta coloro che chiedevano udienza: il Santo distribuiva una medaglia di Maria Ausiliatrice e benediceva i visitatori. La folla divenne però tale che neppur questo sistema bastò e Don Bosco dovette contentarsi di apparire a una finestra per benedire la moltitudine acclamante.

Anche in Spagna la fama di taumaturgo dell'uomo di Dio non andò-* smentita: molti malati del corpo e dell'anima tornarono da Sarrià completamente sanati.

Alla vigilia della sua partenza, il 5 di maggio, Don Bosco volle salire in pellegrinaggio di ringraziamento al Santuario di Nostra Signora della Mercede, caro a tutta la città. Sulla soglia della chiesa lo aspettava il Presidente delle Conferenze di San Vincenzo de' Paoli che, circondato dalle personalità cittadine, si fece avanti e gli disse: «Per perpetuare il ricordo del suo passaggio in questa città la Municipalità ha deciso di offrirle la proprietà del monte Tibi Dabo perché possa costruirvi un tempio al Sacro Cuore”.

Don Bosco, commosso fino alle lacrime: “Accetto di gran cuore” rispose “e vi ringrazio. Sappiate che in questo momento voi siete per me gli inviati della Divina Provvidenza. Appena

lasciata Torino per venire nella vostra città, mi domandavo come e dove avrei potuto costruire un altro monumento in onore del Sacro Cuore, ora che sta per finire la costruzione di quello di Roma. Una voce, allora, mi risuonò dentro all'improvviso: Tibi dabo, tibi dabo, tibi dabo. Sì, proprio lassù il Divin Cuore vuole essere adorato: sul Monte Tibi Dabo”.

Il giorno dopo, Don Bosco lasciava la Spagna. Si fermò a Montpellier, a Tarascona, a Valence, a Grenoble: dappertutto un popolo immenso l'accompagnava in trionfo dalla stazione ferroviaria alla cattedrale.

Quarantacinque anni di lavoro si concludevano così tra acclamazioni altissime che non riuscivano però a smuovere dalla sua tranquilla umiltà l'Apostolo.

Tutto il lavoro compiuto di cui raccoglieva ora i frutti egli l'attribuiva unicamente all'aiuto di Maria Ausiliatrice.

“La sorgente delle benedizioni che piovono sulle nostre fatiche e le fecondano” ripeteva “bisogna ricercarla in quell'Ave Maria recitata l'8 dicembre 1841, festa dell'Immacolata Concezione, nel coro di San Francesco di Assisi con Bartolomeo Garelli. In quell'Ave Maria ci misi tutta l'anima. La Santa Vergine mi ha ascoltato e per mezzo secolo non ha fatto che esaudire quella preghiera”.

CAPITOLO XVII.

Verso la mèta.

A Roma, il 16 maggio del 1887, due giorni dopo la consacrazione della chiesa del Sacro Cuore, Don Bosco celebrò la prima Messa nel nuovo Santuario, all'altare di Maria Ausiliatrice. Più di quindici volte, durante il rito, la commozione e le lacrime lo arrestarono. Non era stato visto mai tanto commosso.

- Perché Don Bosco, - gli domandarono in sagrestia - perché era così commosso celebrando la Messa? Non ha fatto altro che piangere!

- Per tutto il tempo che sono stato all'altare - rispose il Santo - ho riveduto il sogno che feci a nove anni: quello, sapete, che ha deciso di tutta la mia vita. I birichini che offendevano il Signore, il loro trasformarsi in bestie feroci prima, in docili agnelli poi, la misteriosa e bella Signora, i suoi consigli di bontà e di dolcezza. Mi rivedevo raccontare quel sogno la mattina a mia madre e ai miei fratelli, risentivo le loro domande. Una frase in modo speciale mi risuonava all'orecchio, quella che la Signora del gregge mi aveva detto quando la supplicai di darmi la spiegazione del sogno: Un giorno, a suo tempo, capirai. Sono passati sessant’anni da allora. Adesso ho capito.

Durante quella messa, con un solo sguardo il Santo aveva abbracciato il campo di lavoro che Dio gli aveva affidato: per lavorarlo erano stati necessari cinquant’anni. E ora, a Roma, celebrava la Messa nella chiesa che egli stesso aveva costruito per assecondare un desiderio del Papa. L'operaio del Vangelo poteva piangere di commozione riconoscente, ora che aveva interamente compreso. Aveva compreso anche che i suoi giorni volgevano rapidamente al termine: le sue forze consumate glielo dicevano ad ogni passo. Non camminava più, ormai, ma si trascinava sorretto dalle braccia degli accompagnatori. Soltanto la volontà si irrigidiva ancora in uno sforzo supremo e il cuore ardeva

dell'amore di sempre per quei giovani che gli avevano logorato ogni energia. “Finché mi resterà un filo di vita” ripeteva ancora in quegli ultimi mesi “lo consacrerò al bene spirituale e temporale dei miei figli”.

Questi figli egli li supplicava di restare fedeli al suo insegnamento: “Sapete”, scriveva

loro da Roma in quei giorni “sapete che cosa desidera questo vecchio che ha consumato i suoi giorni per voi? Desidera che lo consoliate, dandogli l'assicurazione che farete tutto ciò che vi ha insegnato per il bene delle anime vostre. Voi forse non conoscete abbastanza che fortuna sia per voi abitare in una casa salesiana.

Io posso affermarvi davanti a Dio questo: Basta che un giovane entri in una delle nostre case perché la Vergine Ausiliatrice lo prenda sotto la sua specialissima protezione. Non mi rifiutate dunque questa gioia, perché sento che si avvicina il giorno in cui dovrò lasciarvi e partire per l'eternità”.

Egli non si ingannava.
Da tre anni almeno la scienza lo aveva condannato.
Nel marzo del 1884 il celebre dottor Combal, professore all'Università di Montpellier,

era venuto a Marsiglia su invito di Don Albera per un consulto. Dopo averlo accuratamente visitato:

- Lei si è logorato la vita - gli aveva detto - con l'eccessivo lavoro. Il suo organismo è come un abito logoro per uso soverchio. L'unico rimedio è riporlo nell'armadio. Ci vuole un riposo assoluto.

- Mio caro dottore - aveva risposto il Santo - il suo rimedio è proprio il solo che io non possa usare. C'è troppo da fare. Non è possibile fermare la macchina!

E la macchina andò finché potè andare.

Un giorno però dovette fermarsi. Fu nel mese di novembre del 1887, appena finito il ritiro spirituale che aveva voluto presiedere al Collegio di Valsalice.

Alla soglia dell'Istituto sulla collina torinese, aveva detto una parola di addio che li per li non era stata compresa.

- Adesso che abbiamo deciso di mettere qui lo studentato di filosofia per i nostri chierici la vedremo più spesso, signor Don Bosco, non è vero? - gli aveva chiesto Don Barberis.

- Sì, - rispose Don Bosco, diventato ad un tratto grave e pensieroso - sì, verrò qui e qui resterò a fare la guardia.

Dicendo così fissava l'ampia scala che dalla terrazza conduceva al giardino. Era quello il luogo in cui, meno di quattro mesi dopo, si sarebbe scavata la sua tomba.

La Congregazione, lo disse egli stesso qualche giorno dopo, aveva uomini formati ed egli poteva andarsene. I Salesiani erano già 768, i novizi 267, sparsi in 38 case in Europa e in 26 negli altri continenti.

Da poco il Consiglio Superiore aveva deciso le fondazioni di Londra e di Quito e il Santo aveva dato la veste talare a quattro postulanti venuti da tre diverse nazioni: i polacchi Czartoryski e Grabelski, il francese Noguier de Malijay e l'inglese Johnson.

“La nostra Congregazione è guidata da Dio e protetta dalla Vergine Ausiliatrice” ripeterà prima di morire.

In quel finire del 1887, tutti i fatti deponevano a favore della sua certezza.

Il 3 dicembre dovette rinunciare anche alla Messa. Fino a quel giorno l'aveva celebrata in una cappella privata attigua alla sua camera, esausto al punto da non potersi voltare al Dominus Vobiscum e da doversi sedere dopo la Comunione, mentre un sacerdote distribuiva l'Eucaristia alle poche persone ammesse. Ora non era più in grado neppure di compiere questo sforzo e dovette accontentarsi di assistere alla Messa celebrata dal segretario.

I primi giorni di dicembre, però, con queste amarezze gli portarono anche grandi gioie.

Il giorno 6, nel santuario di Maria Ausiliatrice, vi fu la partenza di una nuova spedizione di missionari, la dodicesima dal 1875. Don Bosco volle scendere per presiedere la liturgia e sorretto dal segretario prese posto nella basilica durante l'omelia di Don Bonetti. La predica più eloquente era tuttavia quella che faceva egli stesso, trascinandosi penosamente nel tempio per benedire gli apostoli in partenza.

I missionari erano appena partiti che Mons. Cagliero arrivava dall'America. Il 7 dicembre, alle due pomeridiane, giungeva, come già ricordammo, a riabbracciare il Padre ormai morente.

La sera stessa di quel giorno giungeva a Valdocco il popolare Vescovo di Liegi,

l'apostolo della classe operaia, Mons. Doutreloux che voleva ad ogni costo qualche salesiano per uno dei più popolosi quartieri della sua città.

L'indomani, 8 di dicembre, Don Bosco volle scendere nel refettorio della Comunità, sorretto dallo stesso Vescovo di Liegi. Fu l'ultima volta che potè condividere il pasto con i suoi figli; una dopo l'altra, ogni pur piccola gioia gli era tolta dal male che progrediva inesorabile. Dovette così rinunciare anche a qualche uscita pomeridiana in carrozza. L'ultima passeggiata fu quella del 22 dicembre. Anche il

16 di quel mese aveva fatto un giro in compagnia di Don Rua e di un altro salesiano e durante tutto il tragitto aveva citato i suoi autori preferiti, latini e italiani, analizzandoli con finezza e vivacità. Quelli che l'ascoltavano non riuscivano a credere di trovarsi di fronte un vegliardo di settantadue anni, schiacciato dal peso del male. La carrozza stava ritornando a Valdocco, quando sotto i portici del corso Vittorio Emanuele II fu visto il Cardinale Alimonda. Il venerando Arcivescovo accorse subito accanto allo sportello esclamando: «Oh, Don Giovanni! Don Giovanni!” e, salito, abbracciò e baciò con tenerezza di figlio l'umile prete. Una folla numerosa, radunatasi in un attimo, contemplava e commentava quella scena affettuosa.

Qualche giorno dopo, Don Bosco volle ancora uscire per rivedere un'ultima volta la sua Torino, la città del destino, mostratagli tante volte in sogno. Questa volta si dovette trasportarlo sino alla vettura con una poltrona. Sulla via del ritorno il veicolo imboccava la piazza Maria Ausiliatrice, quando uno sconosciuto fece fermare e si presentò a Don Bosco. Era uno dei primi allievi del Santo, un brav'uomo di Pinerolo che, di passaggio a Torino, aveva voluto salutare il vecchio maestro e per essere sicuro di incontrarlo si era appostato in un angolo della piazza attendendo il passaggio della carrozza.

- Come vanno i tuoi affari? - gli chiese Don Bosco.
- Così così, ma potrebbero andare meglio.
- E l'anima tua come va?
- Mi sforzo di essere sempre un degno figlio di Don Bosco! - rispose l'uomo con

fierezza.
- Bravo! Iddio ti ricompenserà. Prega per me. E, dopo averlo benedetto, lo congedò

dicendo:
- Ti raccomando la salvezza dell'anima. Vivi sempre da buon cristiano.
Alcuni metri più in là il buon vecchio scendeva dalla vettura e quasi portato dai suoi figli

ritornava in camera. Era l'ultima volta che faceva quelle scale.

Gli era rimasta la consolazione di restare al servizio di tutti nell'ora delle visite o al tribunale di penitenza; ma presto anche questo ufficio di consigliere, di guida, di padre, doveva essergli tolto.

Fin verso il 20 dicembre, dopo aver partecipato alla Messa dal letto e ricevuto la comunione, si faceva vestire, e, seduto sul piccolo divano della sua camera, riceveva i visitatori. In quell'anno erano

particolarmente numerosi, condotti a Torino dal Giubileo indetto da Leone XIII. La modesta cameretta vide entrare in quei mesi il Duca di Norfolk, gli Arcivescovi di Malines, di Parigi, di Colonia, i Vescovi di Treviri, di Cafarnao, di Samaria, di Casale, di Fossano, di Cuneo e una folla ininterrotta di pellegrini d'Europa e d'America.

Benché immobilizzato nella poltrona e torturato dal male, affascinava sempre i suoi visitatori:

“Ho trattato con i più grandi sovrani” scriverà a Don Rua Monsieur Bégasse, il grande banchiere di Liegi, “e non ho avuto mai soggezione. Ma davanti a Don Bosco mi sono sentito piccolo”. Eppure egli faceva visita al Santo il 23 di dicembre, poco più di un mese prima della morte di lui. Lo trovò disfatto nel. corpo ma con l'anima sempre ardente. La sua testimonianza così continuava: “Le forze mancanti del vecchio venerando non gli permettevano neppure di stare in piedi. Appena entrai, alzò il capo che teneva reclinato e

potei vedere i suoi occhi un po' velati ma pieni ancora di intelligenza e di bontà. Don Bosco parlava bene il francese; la sua voce era lenta e rivelava un certo sforzo ma egli si esprimeva con notevole chiarezza. Trovai che la sua accoglienza era di una semplicità nobile e cordiale assieme. Rimasi poi profondamente commosso nel vedere in un vecchio quasi moribondo e assediato continuamente dai visitatori una premura così simpatica e sincera per tutti quelli che lo avvicinavano. Con quanta commozione mi parlò del Vescovo di Liegi e del suo zelo per le opere a vantaggio degli operai! In Don Bosco la spada ha consumato il fodero, ma quanta forza d'animo ancora in quel debole corpo!”.

Questa udienza fu una delle ultime. Se gli acciacchi gli vietavano ormai di confessare ogni mattina come una volta, egli consacrava ancora a questo ministero la sera del mercoledì e del sabato. Il sabato 17 dicembre una trentina di ragazzi insistevano così con il segretario pef essere ammessi alla confessione da lui. Invano si cercò di persuaderli che lo stato del Padre non era tale da potergli permettere di ascoltarli. Poiché i giovani erano decisi a entrare a ogni costo, il segretario avvertì Don Bosco. Questi dapprima trovò il compito superiore alle sue forze ma, dopo un istante di riflessione, disse come parlando a se stesso: «Eppure è l'ultima volta che potrò confessarli!”. Senza badare a questa frase, il segretario pensava alla febbre e all'oppressione di cui il vegliardo avrebbe poi sofferto. Ma Don Bosco ripeteva: «Eppure è davvero l'ultima volta!». E poi con voce più decisa: «Dì, di che vengano!”. E li confessò. Furono davvero le ultime confessioni che udì nella sua vita.

In quegli ultimi due mesi di sofferenze, sembra che il pensiero delle missioni assilli soprattutto il santo vecchio: egli non fa che parlare di questo.

A più riprese ripete a Mons. Cagliero le sue raccomandazioni: “Non mancate di ripetere al signor L. (un ricco benefattore) che, si ricordi dei nostri missionari. Io a mia volta mi ricorderò di lui e della sua ottima famiglia. Proclamate dappertutto che venire in aiuto delle missioni è il mezzo infallibile per ottenere da Maria Ausiliatrice le grazie che si desiderano”.

Il 27 di dicembre riceve il direttore dell'“Unità Cattolica”, e con voce spenta gli mormora: «Come per il passato, vi raccomando la Congregazione Salesiana e le sue missioni”.

Un altro giorno, sentendosi molto male, fa chiamare Don Rua e Mons. Cagliero e dà loro alcuni avvertimenti terminando con questa promessa:.”Mi ricorderò sempre del bene che i nostri Cooperatori hanno fatto alle missioni”. Al “suo” Vescovo missionario che contava di recarsi presto a Roma per rendere visita al Papa, affida questa commissione: «To hai capito bene, non è vero? Dovrai ripetere al Santo Padre che ovunque lavorano i Salesiani la loro cura principale è di sostenere l'autorità della cattedra di Pietro”. Poi, leggendo nell'avvenire, soggiunge con accento profetico: «Confidenza! Confidenza! Con la benedizione del Papa andrete in Africa, l'attraverserete, penetrerete in Asia, in Mongolia e in tanti altri luoghi”.

Tali conquiste sorprendenti e rapide egli sa che i suoi figli le dovranno soprattutto alla Regina degli Apostoli: “Propagate la devozione alla Santa Vergine nella Terra del Fuoco!” ripete. “Sapeste quante anime Maria Ausiliatrice vuol guadagnare al Cielo per mezzo dei Salesiani!”.

Finalmente, quattro giorni prima di morire, una sera di abbattimento, trova solo la forza di mormorare con un filo di voce a Monsignor Cagliero inginocchiato ai piedi del suo letto: “Salvate molte anime nelle missioni!”.

Intanto, fuori dell'istituto, a Torino, in Italia, nel mondo intero, la preghiera dei fedeli si unisce alle suppliche dei figli del Santo per strappare al Cielo il miracolo tanto desiderato. In molte case salesiane si organizza l'adorazione diurna e notturna davanti al SS. Sacramento esposto.

I cooperatori sparsi in tutto il mondo impiegano ogni forma di devozione filiale per trattenere Don Bosco sulla terra: lacrime, preghiere, sacrifici, promesse, voti.

I giornali tempestano di telegrammi i loro corrispondenti a Torino per potere pubblicare

giornalmente il bollettino sanitario dell'infermo. Attorno all'Oratorio, una folla silenziosa staziona in attesa di notizie. A ogni istante giungono telegrammi, arrivano dalla Francia, dall'Italia, dalla Spagna i direttori delle Case salesiane. All'istituto del Sacro Cuore a Roma è un succedersi continuo di Principi, di Vescovi, di Cardinali, di popolani che vogliono le ultime notizie; anche il Papa chiede di essere continuamente informato. A Barcellona, per soddisfare tutti, si sono dovuti stabilire tre centri di informazione. Anche l'Opera salesiana di Ménilmontant, presso Parigi, è tempestata di richieste di informazioni. L'infermo, intanto, ancora perfettamente lucido, prega spesso i medici di dirgli chiaramente il suo stato perché, soggiunge, “dovete sapere che non temo nulla, sono tranquillo e pienamente preparato”.

Il suo distacco da questa terra, egli lo guarda con calma che eguaglia la certezza. A Don Albera, che gli dice: “È la terza volta, Don Bosco, che lei giunge alla soglia dell'eternità, ma le preghiere dei suoi figli l'hanno sempre trattenuta. Sono sicuro che sarà lo stesso anche questa volta», risponde: “Sono sicuro che questa volta non ritorno più”.

Una mattina domandava a Don Viglietti:
- Si sa, nella casa, che io sto tanto male?
- Sì, Don Bosco, e non solo qui ma in tutto il mondo. E dappertutto si prega.
- Perché io guarisca? È inutile. Me ne vado all'eternità. Del resto, desidero andare in

Paradiso perché lassù potrò aiutare molto meglio i miei figli. Qui non posso far più nulla per loro.

Quando è esortato a domandare a Dio la salute, si rifiuta, rispondendo invariabilmente: “Sia fatto di me secondo la santa volontà di Dio!,».

E chiaro che Don Bosco non nutre la minima illusione sull'esito del male. In ciò condivide il parere dei medici che, per bocca del dottor Fissore si esprimono in questi termini: “Don Bosco è finito. Non c'è più speranza di salvarlo. In lui tutto è colpito: un'affezione

cardiaca lo mina; il fegato è attaccato; il midollo spinale presenta una complicazione che genera la paralisi degli arti inferiori. Non può quasi più parlare. Oltretutto, i reni funzionano male e i polmoni ancor peggio. Questa malattia non ha alcuna causa diretta. Il suo è un corpo logorato da incessanti fatiche unite a continue

inquietudini. Quest'uomo si è consumato in un lavoro superiore alle forze umane. Don Bosco non muore per una malattia definita: è una lampada che si spegne per mancanza d'olio”.

Il morente avverte ciò con grande chiarezza e supplica tutti quelli che gli stanno attorno di aiutarlo, com'egli dice, “a salvare la sua povera anima”. Questa preghiera la rivolge anche all'Arcivescovo di Torino, venuto commosso a visitarlo.

- Lei non deve temere la morte, caro Don Bosco! - gli dice il buon Cardinale Alimonda. - Ha raccomandato tanto spesso agli altri di stare pronti!

- L'ho detto agli altri, Eminenza, e adesso ho bisogno che gli altri lo dicano a me!
Il 24 dicembre, alle 7,30, dopo avere incontrato un'altra volta Don Giacomelli, suo

confessore dopo la morte di Don Cafasso, è pronto per ricevere il Viatico.
Piangendo, dice ai sacerdoti che lo attorniano: «Aiutatemi tutti a ricevere bene il Signore, io, io mi sento confuso. In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum”. All'apparire di Mons. Cagliero con la pisside, le lacrime scendono dagli occhi di tutti gli astanti. Il Vescovo stesso non sa trattenersi. Alle undici della stessa mattina gli è amministrata l'Unzione degli infermi. Il giorno dopo, Natale, giungerà per telegrafo un'ultima,

speciale benedizione del Papa.

La certezza della morte vicina, le dure sofferenze, l'esaurimento progressivo delle forze, non riescono però a vincere in lui la prontezza di spirito e l'umore allegro.

Nei rari momenti di respiro lasciatigli dal male, continua a dare segni di una vita intellettuale invincibile. Uscendo da un assopimento di ore, ragiona di una pratica incominciata, di un provvedimento da prendere, di una disposizione di legge da tener presente, di una quantità di affari delicati ai quali dà la soluzione suggeritagli dall'esperienza.

I medici riescono difficilmente a spiegare una così perfetta lucidità di mente e il continuare, seppure a sprazzi, di un'attività che ha del prodigioso. Ammirano inoltre la dolce

pazienza del loro malato e il suo inalterabile sorriso. Fino al termine della vita, Don Bosco conserva il suo buon umore. Si direbbe persino che il progredire del male

glielo faccia raddoppiare per non rattristare troppo quelli che lo assistono.

Ora compone una quartina in piemontese sulle sue gambe divenute incapaci di trascinarlo. Ora dice con tono allegro a chi lo trasporta da un luogo all'altro: «Mi metterai tutto questo sul conto! Ti pagherò tutto insieme alla fine!”.

Un giorno che l'oppressione lo tormenta atrocemente, dice sorridendo:
- Non conoscete una fabbrica di mantici?
- E perché, Don Bosco? Dobbiamo forse farle riparare qualche organo?
- Sì, dovrei sostituire l'organo dei miei polmoni che non vale più un soldo!

Fino a quando non entrerà in agonia, manterrà quest'allegrezza dell'anima che un solo pensiero pareva oscurare. Parecchie volte, infatti, fu visto piangere: pensava alla separazione suprema dai figli e il suo cuore di padre si rattristava: “L'unico sacrificio” diceva “che dovrò fare nel momento della morte, sarà quello di lasciarvi”.

All'inizio di gennaio sopravvenne un improvviso miglioramento: la tregua insperata gli permise di prender con tutta calma le ultime disposizioni, di precisare gli estremi consigli. Perché la morte lo sorprendesse in perfetta povertà, un giorno disse al suo segretario: “Prendimi nella veste il portamonete e se ancora c'è qualcosa portalo a Don Rua. Voglio andarmene tanto povero che si possa dire: Don Bosco è morto senza un soldo in tasca!”.

E, pensando, ai bisogni della sua opera: “Quanto mi rincresce di non potervi più venire in aiuto come una volta! Eccomi ora senza risorse, eppure i nostri figli continuano a chiedere pane. Bisogna che Io si sappia: quelli che vogliono fare la carità a Don Bosco e ai suoi poveri figli non devono aspettare che egli vada a stendere la mano. Non lo potrà fare più!”.

La notizia del suo miglioramento giunse sino alle orecchie del Papa che se ne rallegrò con un gruppo di Salesiani ricevuti in udienza:

- Ho saputo che il vostro Fondatore ora sta un po' meglio.
- Sì, Santo Padre, le ultime notizie sono buone.
- Che Dio ne sia benedetto! - esclamò Leone XIII. - Pregate per la salute del vostro

Padre. Ditegli che il Papa pensa a lui e gli manda la sua benedizione. La vita di Don Bosco è preziosa per la Chiesa!

Sulla soglia dell'eternità, dove giungeva nonostante il passeggero miglioramento, Don Bosco coglieva ogni occasione per lasciare ai figli le ultime raccomandazioni. Fissando l'avvenire della Congregazione, che gli appariva luminoso, diceva pieno di confidenza: «Fin qui abbiamo camminato sempre sicuri; non possiamo sbagliare strada. Ci guida Maria”.

Per precisare il tipo di relazioni da instaurare nelle sue Case diceva: “I Superiori salesiani dimostrino sempre un grande amore verso gli inferiori. Soprattutto, ognuno tratti con carità i domestici».

Tre anni prima, per tentare di rimettersi in forze, aveva accettato l'ospitalità del Vescovo di Pinerolo. Questi un giorno aveva dovuto assentarsi, lasciando solo Don Bosco che, all'ora di pranzo, scese in cucina a chiamare il cameriere e il giardiniere perché mangiassero con lui. Quelli, confusi e sorpresi, si profondevano in scuse e cercavano mille pretesti per sottrarsi alla novità per loro inaudita.

“O così, o niente pranzo!” tagliò corto il Santo “Forse che non dovremo stare tutti assieme in paradiso?».

Coloro che vivevano con Don Bosco imparavano presto con quanta decisione egli stroncasse ogni tendenza a creare “caste” nella sua famiglia, dove i termini di fratello e figlio non erano parole vane.

Ora, sul letto di morte, raccomandava ancora con le parole ciò che aveva tante volte insegnato con la testimonianza di vita.

A tutti i suoi figli come parola d'ordine, come consegna suprema, ripeteva una parola:

Lavoro! Lavoro!

Alle Figlie di Maria Ausiliatrice, venute a trovarlo nella persona della Superiora Generale, lasciava questo ricordo: “Si adoperino con ogni mezzo a salvare molte anime!”.

Una sera, a Don Rua e a Don Cagliero chiamati al suo capezzale, dà questo avviso da trasmettere a tutti i Salesiani: “Trattatevi sempre come fratelli; amatevi; compatitevi a vicenda. L'aiuto di Maria Ausiliatrice non vi mancherà mai”.

La vigilia di Capodanno Don Rua, come al solito, domandò al buon Padre quale “strenna spirituale” volesse dare ai ragazzi: Comunione frequente e Devozione alla Madonna, fu la risposta del buon Padre. Infine per tutti i Salesiani, dettava questa lettera testamento:

Miei cari ed amati Figli in Gesù Cristo!

Prima di partire per la mia eternità, io debbo compiere verso di voi alcuni doveri e così appagare un vivo desiderio del mio cuore.

Anzitutto io vi ringrazio col più vivo affetto dell'animo per l'ubbidienza che mi avete prestata, e di quanto avete lavorato per sostenere e propagare la nostra Congregazione.

10 vi lascio qui in terra, ma solo per un po' di tempo. Spero che la infinita Misericordia di Dio farà che ci possiamo tutti trovare un di nella beata eternità.

Vi raccomando di non piangere la mia morte. Questo è un debito che tutti dobbiamo pagare, ma dopo sarà largamente ricompensata ogni fatica, sostenuta per amore del nostro Maestro, il nostro buon Gesù.

Invece di piangere, fate delle ferme ed efficaci risoluzioni di rimaner saldi nella vocazione sino alla morte. Vegliate e fate che né l'amore del mondo, né l'affetto ai parenti, né il desiderio di una vita più agiata vi muovano al grande sproposito di profanare i sacri voti e così trasgredire la professione religiosa, con cui ci siamo consacrati al Signore. Niuno riprenda quello che ha dato a Dio.

Se mi avete amato in passato, continuate ad amarmi in avvenire con la esatta osservanza delle nostre Costituzioni.

Il vostro primo Rettore è morto. Ma il nostro vero Superiore, Cristo Gesù, non morrà. Egli sarà sempre nostro Maestro, nostra Guida, nostro Modello; ma ritenete che a suo tempo Egli stesso sarà nostro Giudice e Rimuneratore della nostra fedeltà nel suo servizio.

Il vostro Rettore è morto, ma ne sarà eletto un altro, che avrà cura di voi e della vostra eterna salvezza. Ascoltatelo, amatelo, ubbiditelo, pregate per lui, come avete fatto per me.

Addio, o cari figliuoli, addio. Io vi attendo in Cielo. Là parleremo di Dio, di Maria, Madre e sostegno della nostra Congregazione; là benediremo in eterno questa nostra Congregazione, la osservanza delle cui Regole contribuì potentemente ed efficacemente a salvarci.

Sit nomen Domini benedictum, ex hoc nunc et usque in saeculum; in te, Domine, speravi, non confundar in aeternum.

A coloro che gli annunciavano che ora anche la stampa liberale, radicale e socialista, parlava di lui con rispetto e simpatia, ricordava la massima che aveva ispirato ogni sua azione e l'aveva innalzato sopra tutte le contese umane: Facciamo del bene a tutti, del male a nessuno.

All'ultima ora della sua vita, in piena lucidità dapprincipio e poi nel delirio, rivelava il segreto del suo apostolato: Pregate si - mormorò - ma con fede, con fede viva.

Si trovano in difficoltà! Coraggio! Coraggio! Avanti! Avanti sempre! - esclama l'antivigilia della morte, scorgendo nel delirio un misterioso arresto nella marcia della sua Famiglia.

L'ultima sua parola calma, lucida, ponderata, fu per quei giovani per i quali era giunto a tal punto di consunzione: “Dite ai miei figli che li aspetto tutti in Paradiso. Dal pulpito insistete sulla Comunione frequente e sulla devozione alla Madonna!».

Fu come il suo estremo ricordo alla gioventù tanto amata.

Don Bosco diceva questo il 28 gennaio. Il 29, festa di San Francesco di Sales, patrono della Società, ricevette per l'ultima volta la Comunione. Dopo di che cadde in una spossatezza e in un delirio che durarono sino a sera.

Un mese prima, aveva previsto questo stato.

Era a letto da appena due giorni, quando Don Rua andò a chiedergli la dispensa da un certo obbligo. “Te la dò”, rispose “fino al giorno di San Francesco di Sales. Se dopo ne avrai ancora bisogno, andrai a fartela rinnovare da un altro confratello”.

Abbiamo parlato di delirio per esprimere ciò che talvolta appariva all'esterno. Ma da indizi indubitabili è certo che l'estrema debolezza non aveva tolto del tutto a Don Bosco la lucidità di mente.

Verso le dieci del mattino interrogò Don Durando. Saputo che si celebrava la festa di San Francesco, dimostrò una gioia viva. Conversò anche con i medici. Ma appena furono partiti, ricadde in un assopimento dal quale uscì per chiedere a Don Durando:

- Chi erano quei signori che sono andati via adesso?
- Non li ha riconosciuti, Don Bosco? Erano i medici che la curano. - Oh, sì! Di' loro che oggi restino con noi.

Voleva aggiungere: a pranzo ma non potè pronunciare una parola di più. Il sentimento della gratitudine e della squisita ospitalità era ancora vivissimo in lui. Pronunciò anche spesso e con tenerezza il nome dei principali benefattori delle sue Opere. Uno di questi aveva un figlio gravemente ammalato: “Ebbene” disse quando lo seppe “intendo che tutte le preghiere fatte ora per me siano applicate a quel ragazzo per ottenergli la salute”.

Nella giornata aveva detto al segretario: “Quando non potrò più parlare, se qualcuno verrà a chiedere la mia benedizione, tu mi alzerai la mano e gli farai fare il segno della croce, pronunciando le parole. Io metterò l'intenzione».

Per tutta la giornata mormora: Madre! Madre! Domani! Domani! Verso le sei pomeridiane esclama: Gesù! Gesù! Maria! Maria! Gesù e Maria, vi dono il cuore e l'anima mia, In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum! Oh Madre, Madre, apritemi le porte del Paradiso!

Spesso congiunge le mani e recita lentamente le massime della Sacra Scrittura che gli servirono di regola per tutta la vita: Diligite, Diligite inimicos vestros, Benefacite iis qui oderunt vos, Quaerite regnum Dei. Et a peccato meo munda, munda me.

Recitò poi l'atto di contrizione accompagnandolo con l'invocazione ripetuta: Miserere nostri Domine. Per alcune ore alzò frequentemente le braccia verso il cielo dicendo con le mani giunte: Sia fatta la Vostra santa Volontà! Poi, perdette completamente l'uso della parola; ma per rinnovare il più spesso possibile il sacrificio della sua vita, durante il giorno e la notte seguente adoperò le poche forze che ancora gli restavano per alzare continuamente la mano sinistra come in un gesto di benedizione e di perdono.

All'alba del giorno dopo, 30 gennaio, fu palese a tutti che le ore dell'agonizzante erano ormai contate. I medici stessi non nascosero che la sera stessa o l'indomani al più tardi Don Bosco avrebbe lasciato il mondo. Don Rua prese allora in mano il comando della Società. Il suo primo atto di governo fu di convocare al letto del Padre morente tutti i figli presenti a Torino perché lo vedessero un'ultima volta e, con un bacio su quelle mani che tante volte li avevano benedetti, gli dessero l'estremo addio.

I Salesiani si riunirono a gruppi silenziosi nella cappellina privata ed entrarono uno dopo l'altro nella camera dove il Santo agonizzava. Egli era disteso sul letto, con il capo un po' inclinato sulla spalla destra e tenuto alto da tre cuscini, il viso sereno, per nulla smagrito, gli occhi semichiusi, le braccia distese lungo il corpo; sul petto il crocifisso, ai piedi la stola violacea, segno dello stato sacerdotale. I figli si avvicinarono in punta di piedi per inginocchiarsi al capezzale del moribondo e baciargli la mano. Sfilarono così a centinaia nella

cameretta, finché

giunse la volta delle due classi superiori di studenti e degli artigiani più grandi. La scena di tenerezza filiale si protrasse per tutta la giornata.

Arrivò intanto dall'Ecuador il telegramma che annunciava l'arrivo dei Salesiani partiti un mese e mezzo prima. Don Rua si affrettò a comunicare la buona notizia a Don Bosco, che aperse gli occhi e li alzò come per ringraziare Dio, mostrando così di avere inteso.

All'1,45 del mattino del 31 gennaio, Don Bosco entra in agonia. Don Rua indossa la stola e riprende le preghiere degli agonizzanti già cominciate e sospese verso mezzanotte. Vengono chiamati in gran fretta i Superiori Maggiori e presto nella cameretta si trovano riuniti una trentina di sacerdoti, chierici, laici, tutti inginocchiati attorno al letto.

Appena giunge Mons. Cagliero, Don Rua gli cede la stola e va alla destra del Padre. Chinandosi all'orecchio dell'agonizzante, il successore gli dice con voce strozzata dal dolore: «Don Bosco, siamo qui, noi suoi figli. La preghiamo di perdonarci tutte le pene che le abbiamo date e in segno di perdono le chiediamo ancora una volta la benedizione. Io le reggerò la mano e pronuncerò la formula”.

È una scena di dolore straziante. Davanti a tutti i presenti inginocchiati, Don Rua pronuncia le parole della benedizione alzando la mano già paralizzata del Santo per invocare la protezione di Maria Ausiliatrice sui Salesiani presenti e su quelli sparsi in tutto il mondo.

Verso le 3 giunge un telegramma: Il Santo Padre invia dal fondo del cuore l'Apostolica Benedizione a Don Bosco gravemente ammalato Cardinal Rampolla.

Alle 4,30, nella chiesa di Maria Ausiliatrice, suona l'Angelus Domini che tutti gli astanti recitano attorno al letto.

Poi il debole rantolo, che dura da un'ora e mezzo, cessa. Per un momento la respirazione ritorna regolare e tranquilla. E un breve momento, poi anche quell'ultimo soffio si spegne. Don Bosco muore! esclama un sacerdote.

Quelli che per la stanchezza si erano gettati su una sedia accorrono subito. Mons. Cagliero recita la preghiera suprema: Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il cuore e l'anima mia.

Il moribondo manda ancora alcuni sospiri appena percettibili, poi si distende nella pace della morte.

L'orologio a pendolo della stanza segna le 4,45 del mattino.
Don Bosco viveva da 72 anni e 5 mesi.
Don Rua, straziato dal dolore, dovette pensare a stendere subito l'annuncio del

decesso: Il nostro carissimo Padre in Gesù Cristo, il nostro Fondatore, l'amico, il consigliere, la guida della nostra vita, È morto.

La notizia corre sui cavi del telegrafo: tra poche ore sarà pubblicata con enorme rilievo da tutti i giornali del mondo.

Appena informata della morte del Santo, tutta Torino si riversò verso Valdocco per venerare le spoglie del grande benefattore dei giovani.

Le botteghe e i negozi di tutti i quartieri non si apersero, quel mattino. Sulle porte sprangate un biglietto: Chiuso per la morte di Don Bosco.

Di fronte all'affluenza enorme, bisognò pensare al modo di accontentare la folla desiderosa di rendere omaggio per l'ultima volta all'apostolo. Il defunto fu così trasportato nella chiesa di San Francesco di Sales, rivestito dei paramenti sacerdotali, con in mano il crocifisso. Seduto in una poltrona elevata di alcuni gradini, Don Bosco sembrava dormire, con i lineamenti calmi, naturali, quasi sorridenti. Dopo ventiquattro ore, la morte non aveva ancora messo il sigillo su quel corpo.

Si sarebbe detto che non solo Torino ma tutto il Piemonte fosse accorso in massa a venerare la salma. Il corso Regina Margherita e quello di Valdocco erano gremiti di gente e ingombri di carrozze. Nella piazza Maria Ausiliatrice una folla immensa sbalordiva per il silenzio e la pazienza nell'attendere il proprio turno.

Tutte le classi sociali sfilarono così davanti a Don Bosco. Alle otto della sera si chiusero le porte ma fu necessario cedere alle preghiere di pellegrini arrivati da lontano e riaprirle ai gruppi giunti anche dalla Francia.

La sera stessa ebbe luogo il supremo addio dei figli al padre. Alle ventuno gli alunni dell'Istituto si recarono nella chiesa dove era ancora esposta la salma. Erano, quelle, le mura tra le quali per decenni Don Bosco aveva parlato, confessato, celebrato la Messa per i giovani che ora lo contemplavano addormentato per sempre.

Gli ottocento ragazzi recitarono in ginocchio la preghiera della sera; poi, in mezzo al più profondo silenzio, parlò Don Francesia: “Vedete qui, dinanzi a voi, il vostro amato Padre nella calma dell'ultimo riposo, con il sorriso che ben conoscete rimastogli sulle labbra. Si direbbe che egli voglia ancora parlarvi e voi aspettate quasi ch'egli si alzi e vi faccia udire per l'ultima volta il suono penetrante della sua voce tanto cara. Ma no, è finito tutto! Egli non può più ripeterci quei santi insegnamenti che tanto spesso ci dava. Ma qui, dove Don Bosco ha dato la vita per voi, che cosa posso io ricordarvi se non

l'ultima parola che egli ci ha lasciato come unico testamento: Dite ai miei figlioli che li aspetto tutti in Paradiso”?

Morendo, ai suoi ottocento figli della Casa di Torino il Padre non aveva potuto lasciare neppure i soldi per il pane di quel giorno. Il 31 gennaio 1888 a Valdocco si mangiò ciò che si era ottenuto ancora una volta a credito dalla pazienza dei fornitori.

I funerali, il 2 di febbraio, furono uno spettacolo impressionante di folla. Torino, forse l'Italia intera, avevano visto raramente un tale segno di amore e di rispetto da parte di uomini di ogni condizione, di ogni credo politico e religioso, di ogni età. Quattro giorni dopo, il 6 febbraio, alle cinque pomeridiane una cerimonia privata riuniva a Valsalice i figli prediletti del grande apostolo: rappresentanze di salesiani, di Figlie di Maria Ausiliatrice, di cooperatori, di ex-allievi, di alunni dei collegi. Nel punto preciso che Don Bosco aveva guardato insistentemente quattro mesi prima, un loculo era aperto. Vi si fece entrare la triplice bara e si suggellò la tomba.

Poi parlò Mons. Cagliero:

“Come i primi cristiani, - disse il Vescovo missionario - prostrati sulle tombe dei Martiri, trovavano la forza di combattere per la fede, come San Filippo Neri diveniva l'apostolo di Roma scendendo in preghiera nelle catacombe, così da oggi si verrà a chiedere a questa tomba la luce e la forza, la regola di vita e l'energia dell'azione, l'amore dei fratelli e lo spirito di sacrificio per il bene”.

Era stato lo stesso Francesco Crispi, l'anticlericale Crispi, a concedere eccezionalmente il permesso di inumare Don Bosco a Valsalice. forse ricordava di essere stato un giorno mantenuto e vestito dalla carità dell'uomo di Dio.

In quella tomba il Santo doveva restare quarantun anni: soltanto il 9 giugno 1929 i suoi resti furono trasportati, in un altro trionfo di folla, nella basilica di Maria Ausiliatrice.

Erano trascorsi appena due anni dalla morte di Don Bosco allorché il Tribunale Ecclesiastico di Torino, sollecitato anche dalla voce delle grazie sempre più numerose attribuite all'intercessione del defunto, cominciava l'inchiesta sulla vita, le virtù, i miracoli dell'uomo di Dio.

Dopo 7 anni e 562 sedute, il processo diocesano era terminato e i suoi atti - raccolti in 34 volumi in folio di più di mille pagine ciascuno - partivano per Roma l’11 aprile 1897.

La Congregazione dei Riti fece esaminare minuziosamente la poderosa documentazione. L'esame durò altri dieci anni: tutti i documenti, passati al vaglio di una critica impietosa, deponevano a favore della virtù del grande educatore. In data 23 luglio 1907, Pio X permise allora l'introduzione della causa davanti ai Tribunali Romani.

Questo consenso del Papa conferì a Don Bosco, secondo il vecchio diritto canonico, il titolo di Venerabile. Poco tempo dopo cominciava il Processo Apostolico che impiegò ben 20 anni per giungere al termine. L'8 febbraio 1927 Pio XI presiedeva la Congregazione Generale, in cui si proclamava che Don Bosco aveva esercitato in grado eroico le “virtù teologali” di fede, speranza e carità e le “virtù cardinali” di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.

“Egli” diceva tra l'altro il decreto sull'eroicità delle sue virtù “egli seppe farsi degno ministro e imitatore di Colui che di se stesso disse: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra. E che cosa voglio, se non che arda?”.

Il 19 di marzo del 1929 Pio XI promulgava un altro decreto che riconosceva come autentici e validi per la beatificazione i due miracoli proposti dai difensori della causa.

E finalmente, il 2 giugno 1929, sorgeva l'alba del giorno che doveva vedere Don Bosco elevato all'onore degli altari.

Quella mattina più di 50.000 pellegrini avevano invaso la basilica di San Pietro. Quando la lettura del Breve ebbe dichiarato che “ormai si poteva dare il titolo di Beato al Venerabile Servo di Dio Giovanni Bosco”, il velo che copriva il baldacchino del«Bernini cadde ed apparve il ritratto di Don Bosco. Allora la moltitudine all'interno della basilica proruppe in un immenso, interminabile applauso. Fuori, in segno di esultanza, come ad accompagnare il Te Deum che migliaia di giovani cantavano in San Pietro, le campane della chiesa lanciavano continuo, festoso, possente, il loro scampanio sulla Città Eterna.

Cinque anni dopo quel trionfo, il 1° aprile del 1934, Pio XI, che nel 1883 aveva vissuto per tre giorni accanto a Don Bosco visitando Valdocco, innalzava ai supremi onori l'uomo di Dio, proclamandolo Santo.

Dopo il decreto del 1929, infatti, erano continuati i miracoli ottenuti invocando il nome del nuovo Beato.

Tra i molti prodigi che si narravano, Roma ne scelse due: la guarigione istantanea di due malate abbandonate ormai dalla scienza. Dopo lungo esame, ne fu riconosciuta dapprima l'autenticità; poi, in tre

solenni sedute, questi miracoli furono analizzati, discussi e approvati e il 28 novembre del 1933 il Papa dette ordine di procedere alla Canonizzazione.

Questa si svolse, con una solennità mai prima raggiunta, il giorno di Pasqua del 1934, Anno Santo a ricordo del XIX Centenario della Redenzione. La basilica di San Pietro non riuscì a contenere la folla dei pellegrini e per metà essi dovettero restare sulla piazza. Verso le dieci e mezzo il Papa, pregato tre volte, secondo la tradizione, dal Cardinal Prefetto della Congregazione dei Riti di proclamare Santo il Servo di Dio, si alzò in piedi e solennemente, infallibilmente, dichiarò iscritto nel Canone dei Santi il Beato Giovanni Bosco.

Il figlio dei poveri vignaioli dei Becchi giungeva, in quel mattino di aprile, al termine della straordinaria impresa alla quale avevano davvero “posto mano cielo e terra”.

Fine libro. 

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