Vivere per sempre

“Who wants to live forever?” cantavano i Queen qualche anno fa. E chi non ricorda i film come Cocoon, oppure The Fountain, o Highlander? Siamo programmati per vivere 120 anni, è scritto nel nostro Dna, a prescindere da malattie e incidenti la nostra durata è fissata.

Vivere per sempre

da Quaderni Cannibali

del 14 maggio 2010

 

          Pare che vivere almeno 120 anni sia ormai alla portata di tutti. Infatti, la medicina “anti-aging”, quella che combatte l’invecchiamento, sta tornando a far parlare di sé. Perché nasce dalle conoscenze del Dna e si pone l’obiettivo di mantenere il più a lungo possibile la giovinezza delle nostre cellule per prevenire le malattie degenerative legate all’invecchiamento, con il risultato di aumentare la durata della vita.

 

          Negli ultimi 20 anni i progressi della medicina, soprattutto nella cura delle malattie cardiovascolari e dei tumori, hanno contribuito ad allungare di due anni la vita media degli italiani: le donne hanno superato la soglia degli 82 anni, gli uomini si stanno avvicinando a quella dei 77. Va chiarito subito che la scienza non si interessa all’immortalità.

           L’obiettivo non è allungare la durata della vita, ma la durata della sua qualità, cioè intervenire non sul tempo dell’esistenza, ma sul tempo senza malattia.

           La storica scoperta del professor Pier Giuseppe Pelicci sul “gene 66”, cioè che la durata della vita umana è scritta nei nostri geni, è stata accolta come la ricetta per la vita eterna. In realtà, le indagini molecolari che sta sviluppando all’Istituto Europeo di Oncologia mirano a ridurre il peso delle malattie degenerative come il cancro, l’Alzheimer e il Parkinson. DN lo ha incontrato alla Quinta Conferenza sul Futuro della Scienza, organizzata dalla Fondazione Cini di Venezia.

Prof. Pelicci, perché moriamo?

           Morire è biologicamente necessario: è parte del programma di ogni cellula ed è, per me, anche un nostro “dovere biologico”, perché significa lasciare posto a nuove generazioni, sempre più forti, che possono contribuire all’evoluzione.

           Tuttavia, non vedo perché “eticamente” dovremmo opporci a un prolungamento della vita, in condizioni di lucidità di pensiero e autonomia fisica.

          Oggi abbiamo moltissime informazioni sull’invecchiamento e la biologia molecolare ci permette di ipotizzare che il controllo sulla vecchiaia, intesa come fenomeno cellulare, sia un traguardo raggiungibile. Se una persona è messa in grado di godere della propria esistenza, non c’è ragione di temere un mondo più longevo.

Ma come possiamo arrivare fino a quella età? Riusciremo a mantenerci in buone condizioni?

           La ricerca sta arrivando a decodificare i geni preposti all'invecchiamento, per capire come bloccarli. Bisogna dire, però, che questo tipo di studi non è finalizzato all'eterna giovinezza. Punta, prima di tutto, a curare i mali che accorciano o rovinano la vita. Dal cancro all'Alzheimer. Ed è qualcosa di realisticamente raggiungibile. Me lo sono detto quando, nel 1999, sono incappato in uno dei geni dell'invecchiamento: si chiama p66shc. Ebbene, ho scoperto con la mia équipe che, senza quel gene, i topi vivevano il 35% in più. La notizia ha fatto scalpore: lo studio è finito in copertina sulla rivista scientifica Nature e anche i giornali italiani ne hanno parlato, pensando alla tappa successiva: l'uomo.

Perché gli animali di laboratorio diventavano più longevi?

           Ci siamo resi conto che riuscivano ad arginare molto meglio quei danni che fanno invecchiare la cellula e la fanno degenerare, innescando patologie come tumore, demenza senile, infarto, aterosclerosi. Si capisce, dunque, come il ruolo della ricerca sia duplice: allungare la vita e, soprattutto, eliminare le malattie degenerative.

Invecchiamo per colpa del gene p66shc?

            Dopo tanto lavoro, siamo arrivati a nuovi risultati, pubblicati sulla rivista Cell. Abbiamo scoperto il meccanismo di funzionamento del p66 e il motivo per cui nell'organismo esiste un gene che lo danneggia e lo fa invecchiare. La proteina p66, che ha lo stesso nome del gene, favorisce la produzione di acqua ossigenata da parte dei mitocondri, che propongono gran parte dell'energia necessaria alla cellula. L'acqua ossigenata è molto reattiva e induce danno a proteine, lipidi e Dna: quello che si chiama stress ossidativo. La cellula si difende attivando meccanismi di riparazione o, addirittura, un programma di suicidio. Se tutto questo non avviene, degenera e può, per esempio, innescare un tumore.

Qual è la funzione del p66?

           Durante l'invecchiamento si ha un aumento progressivo dello stress ossidativo. Come mai? Colpa anche del p66, che induce a produrre acqua ossigenata. E perché fa questo? Per regolare funzioni biologiche come il metabolismo degli zuccheri e il mantenimento della temperatura corporea. Infatti, nelle cellule, questi processi sono sottomodulati dalle concentrazioni di acqua ossigenata. La cellula, per sopravvivere, ha bisogno di energia e l'energia viene prodotta al suo interno da una sorta di centralina elettrica: il mitocondrio. Tutto avviene attraverso uno scambio di elettroni, che corrono da una proteina all'altra fino all'ossigeno. È come l'elettricità in un filo che va verso la lampadina e l'accende.

           Ogni tanto, uno di questi elettroni salta via dal percorso e va a reagire con l'ossigeno anzitempo, producendo alla fine acqua ossigenata. Gli scienziati hanno sempre pensato che la sua formazione fosse un prezzo da pagare: l'uomo spende energia, la produce mediante la cosiddetta respirazione cellulare, la recupera mangiando e respirando, con un costo finale obbligato che è di acqua ossigenata. Una sorta di rifiuto tossico, causa di malattie e invecchiamento. In realtà, non è solo così: esistono proteine nelle cellule che, per mestiere, prendono gli elettroni dalla catena energetica e formano acqua ossigenata. Una delle proteine è quella prodotta dal gene p66. Ecco la nostra scoperta.

Fra quanto tempo sarà completata la vostra scoperta?

          Fra non molto potremo essere facilmente ultracentenari e in forma.Siamo programmati per vivere 120 anni, è scritto nel nostro Dna, a prescindere da malattie e incidenti la nostra durata è fissata. L'obiettivo non è l'immortalità ma vivere più a lungo e più giovani, ammalandosi meno.

Chi é

           Il Professore Pier Giuseppe Pelicci, direttore del Dipartimento di Oncologia Sperimentale all'Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, è nato il 5 settembre 1956 a Semonte di Gubbio da Elda Matteucci e Flavio Pelicci, una casalinga e un impiegato dell'Enel, oggi in pensione. Sposato, ha due figli: Sara e Luca.

           Laureatosi in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli studi di Perugia nel 1981, si è specializzato in Biologia Molecolare presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Perugia. Dal 1981 al 1982 ha migliorato la sua preparazione in Francia e poi a New York fino al 1986.

            Dal 1986 al 1995 è stato direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare dell'Istituto di Clinica Medica I presso la Facoltà di Medicina dell'Università di Perugia.Dal 1996 è direttore del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell'Istituto Europeo di Oncologia a Milano. I suoi studi vertono essenzialmente sulla genesi delle leucemie e sulla traduzione dei segnali provenienti dal DNA.

          È saltato agli onori delle cronache nazionali ed internazionali per la scoperta del 'gene' che prolunga la vita, il p66shc.

           Lo hanno dimostrato ricercatori dell'Istituto europeo di oncologia di Milano, da lui diretto,in collaborazione con l'Università di Perugia e con lo Sloan Kattering Cancer Center di New York, in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica 'Nature' che getta nuova luce su processi degenerativi quali l'invecchiamento e il cancro e, in una prospettiva più remota, fa intravedere la possibilità di migliorare la qualità della vita anziana, se non addirittura allungare l'esistenza umana.

            Tale scoperta ha cambiato la teoria del processo d'invecchiamento: in precedenza, attribuito all'ambiente per effetto usura, oggi deve essere considerato responsabile il gene programmato dal codice genetico che ogni individuo si porta dietro dalla nascita, a prescindere dalle condizioni ambientali in cui vive.

            Nel 1998 al prof. Pier Giuseppe Pelicci è stato assegnato il Premio GUIDO VENOSTA per aver identificato l'oncogene PML/RARalfa della leucemia acuta promielocitica e indicato una nuova specifica strategia terapeutica (terapia differenziativa con acido retinoico).

            Lo stesso gruppo di Milano ha scoperto che nel nostro patrimonio genetico, scritto nel DNA, si formano delle proteine 'difettose', dette oncoproteine, capaci di attirare sui geni, che regolano la moltiplicazione cellulare (il cancro nasce da una cellula che all'improvviso 'impazzisce' e si replica senza interruzione), delle proteine enzimatiche (detti enzimi 'guastatori') che inserendo un metile (CH3), scompaginano i geni regolatori; per cui la cellula incomincia a moltiplicarsi come una cellula indifferenziata.

            Il prof. Pelicci è cordialissimo e raccomanda ai giovani di non mangiare troppo, specie merendine.

Maria & Enrico Marotta

http://www.dimensioni.org

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