27 Gennaio > Giorno della Memoria«Noi non avremo mai la pace, mai. Solo quando moriremo. C'è una cosa che devo dire, con molta fatica: noi abbiamo un rimorso...perché noi siamo riusciti a vivere. Non avremo mai pace fino al giorno in cui andremo a raggiungerli»
del 27 gennaio 2009
   Marcello Pezzetti s'accende una sigaretta e mostra la scatola dei cerini, «non uso accendini né altro, porto sempre con me questi, e sa perché? Per Martino Godelli. Lui lavorava alla Rampa di Auschwitz-Birkenau, dove si fermavano i vagoni e avveniva la selezione verso il gas e i crematori: la Shoah è là». Sfoglia rapidamente le pagine, «ecco cosa dice Godelli: 'Sapevo quando era un trasporto italiano, perché vedevo i cerini per terra. I cerini ce li hanno solo gli italiani, non esistono in nessun'altra parte del mondo. Allora mi allontanavo...”».
Bisogna vederlo, Marcello Pezzetti, mentre alza lo sguardo dal libro cui ha dedicato quindici anni e centocinque interviste, «Il libro della Shoah italiana», le lacrime agli occhi. È forse il massimo esperto al mondo di Auschwitz, storico del centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano (Cdec), tra l'altro insegna al Master di Roma Tre e allo Yad Vashem, è stato consulente di Spielberg e Benigni, è direttore del museo della Shoah che si sta costituendo a Roma, è autore con Liliana Picciotto del film «Memoria», nel '99 ha scoperto la prima camera a gas nazista dove sorgeva una villetta di contadini polacchi.
Sa tutto. Ma ora dice: «Non lo immaginavo neanche. Per me non è stato facile. Anche adesso è insopportabile. Racconto Auschwitz attraverso i loro occhi.
Ed è peggio di quanto si possa credere. Molto peggio».
Nessun libro di storia, in nessun Paese, ha mai raccontato la Shoah così. E nessun romanzo. Lo stesso Primo Levi stava ad Auschwitz III e non vide mai Birkenau, il cuore della Shoah: Birkenau, «il bosco delle betulle», il campo di sterminio dove morirono un milione e 300 mila persone, di cui 1 milione e 100 mila ebrei. Il primo convoglio dall'Italia vi giunse il 23 ottobre '43 da Roma, dopo la retata del 16 ottobre: su 1.020, tornarono 16 uomini e una donna. Dei 45 mila ebrei italiani ne vennero deportati un quinto, circa novemila, quasi tutti qui. E ora questo libro raccoglie le voci degli ultimi centocinque sopravvissuti, rintracciati per quindici anni in giro per il mondo, sessanta donne e quarantacinque uomini intervistati e filmati. Nel frattempo molti sono morti. Gran parte di loro non aveva mai raccontato. «Questo è un pezzo d'Italia. La gente non se ne rende ancora conto.
Per questo non ho messo filtri: i romani parlano in romanesco, i triestini in triestino... Per la prima volta ci sono anche gli ebrei italiani di Rodi».
Una narrazione collettiva che si fa epos. Le testimonianze sono state scomposte e raccolte per
argomenti: il mondo «prima», la vita quotidiana, il rapporto col fascismo uguale a quello degli altri italiani, e poi le leggi razziali, l'occupazione, Fossoli e la deportazione, Auschwitz e gli altri campi di sterminio, il ritorno, il dolore muto e i sensi di colpa. «Non c'è il lieto fine. Non c'è». Ogni capitolo ha una brevissima scheda storica, poche righe. Poi la parola passa alle vittime. Voci che non offrono risposte facili. C'è la Chiesa indifferente e la Chiesa che aiuta. Gli italiani che salvano e i delatori, con nomi e cognomi. La «spontanea umanità di un popolo d'antica civiltà», come scriveva Hannah Arendt, e le miserie del nostro Paese. Soprattutto c'è il racconto polifonico dall'interno di Birkenau. Cose mai lette: come le parole di Mengele sulla Rampa, l'inganno osceno del «campo di riposo» per i «vecchi» («dai 40, 45 anni»), quelli con l'aria malata, le donne con i bambini o incinte, «o anche così, senza nessun motivo »: tutti nelle camere a gas. E poi i Krematorium, gli «esperimenti» medici, il Kinderblock dei bimbi, l'orrore quotidiano del campo.
«Questo te la fa vivere, la storia. Tu la vivi, la storia. È pazzesco ma è così». È un libro che toglie il sonno e dal quale non ci si può staccare. Un libro che va letto. Anche se si piange. Anche se talvolta, incredibilmente, si ride fra le lacrime per lo spirito dei sopravvissuti. In questa pagina riportiamo alcune voci, una goccia del mare.
Ma tra i tanti c'è una persona di cui parlare: il più piccolo ebreo deportato dall'Italia, figlio di Marcella Perugia, che nacque al Collegio militare di Roma il 17 ottobre 1943, all'indomani del rastrellamento del ghetto e il giorno prima della partenza. Forse non arrivò neppure a Birkenau. Forse entrò nella camera a gas con la mamma. È rimasto senza nome. Il libro è dedicato a lui.
 
Furono novemila gli ebrei italiani deportati nei campi di concentramento, quasi tutti ad Auschwitz- Birkenau. Per 15 anni lo storico Marcello Pezzetti è andato alla ricerca degli ultimi sopravvissuti e li ha convinti a ridestare nella loro mente le immagini di un viaggio agghiacciante: 105 testimonianze in presa diretta, delle quali ha lasciato intatto il sapore dialettale della gente comune e perfino alcuni accenti ironici paradossali. Ne è venuto fuori un libro, edito da Einaudi, unico nel suo genere che rende ancor più sconvolgente la realtà dell'Olocausto. Eccone alcuni stralci.
 
LE ORIGINI
«Siamo romani, di generazione in generazione. Io sono nato a Panico, cioè a dire a Vicolo delle Vacche. Era niente di meno che la casa appresso dove abitava papa Pio XII. Io, la generazione mia, abbiamo una discendenza di duemila anni... sono duemila anni che sono ebreo, e romano!» (Leone Di Veroli)
«Mio padre era medico e mio nonno era un giurista che proviene da Parenzo. Io frequentavo solamente ebrei di un ceto borghese, ma piuttosto alto». (Ottaviano Danelon)
(A Rodi)
«Eravamo sei sorelle e un fratello. Parlavamo lo spagnolo, perché noi deriviamo dall'Inquisizione della Spagna». (Rosa Levi)
«Credevo soltanto in Dio fortemente, ma istruzione nun c'ho avuta. Se ci voleva cinque, dieci lire al giorno per mangiare, come potevo studiare l'istruzione? Mio padre era religioso, che il sabato nun lavorava pure, perché è peccato lavorare il sabato. Lavoravo io». (Raimondo Di Neris)
(A Biella)
«Pensa, non avevi i regali di natale, a natale!» (Luciana Nissim)
(A Trieste)
«Andavamo in tempio, ma no jerimo tanto inteligenti quela volta. L'ebraico no me 'ndava in testa: ciapà tante bachetàde, mama mia! Non me 'ndava e non me 'ndava, che Dio me pardoni! (Rachele Mustacchi)
«Premetto: nella via dove ero io ci adoravano; a scuola, invece, dicevano che noi avevamo ammazzato Gesù Cristo». (Romeo Salmoni)
 
I RAPPORTI COL FASCISMO E LE LEGGI RAZZIALI
«Ero in un collegio nazionale a Tivoli. Fui avanguardista, avevo anche i gradi, smontavamo e montavamo il fucile, la mitragliera, facevamo i campi Dux e che altro... ero un fanatico del passo romano, di quella camicia nera! Nacqui e vissi in regime». (Eugenio Sermoneta)
«Io fui tolto dalla scuola Metastasio di Roma. E così è stato e così fu, come diceva il faraone. Tanta amarezza, perché nun esiste che l'altri andavano a scuola e io no». (Giacomo Moscato)
«Mi ricordo il discorso di Trieste di Mussolini, ero sotto il palco, dove c'è guardia del corpo, tutti neri, e subito davanti era la milizia universitaria. In quel momento uno dietro dice: «Butì fora Levi!» E questo qui chi era? Un carissimo amico! Quando ho inteso, ho detto: «Basta, qui siamo finiti!». (Italo Dino Levi)
 
I CATTOLICI
«C'avevo du' sorelle. Dopo il 16 ottobre le hanno portate al convento di San Pancrazio, a Monteverde. Le hanno vestite da monaca e si son salvate». (Raimondo Di Neris)
«Aspettavamo che succedesse qualche cosa, perché eravamo sotto il naso del Vaticano e il gruppo era composto di donne e bambini, perché i omini, chi s'era dato ai partigiani, chi s'era nascosto. Essendo tutte donne e bambini, aspettavamo la voce del Vaticano». (Settimia Spizzichino)
 
IL VIAGGIO
«Entrati nel vagone, abbiamo dato il posto vicino alle pareti alla gente anziana, perché potessero sedersi appoggiando la schiena; noi invece, i più giovani, ci siamo messi in mezzo. Di notte, ricordo che volevo andare da mia madre e non ci sono mai riuscita, perché per terra eran tutto corpi che cominciavano a gridare». (Elena Kugler)
«L'aria era irrespirabile, perché queste persone vecchie, fra cui una signora amputata, non riuscivano ad arrivare fino al buco per defecare, quindi c'erano escrementi dappertutto. Le feci... bisognava raccoglierle e portarle con un pezzo di legno in questo buco, ma rimaneva impregnato e quindi era una cosa paurosa». (Alessandro Kroo)
«Non direi che ci fosse la possibilità di scappare. Loro avevan detto: 'Se qualcuno scappa, passeremo per le armi tutto il vagone!' Quindi c'era un controllo reciproco». (Luciana Nissim)
 
L'ARRIVO
«Siamo arivati 'a matina presso a Birkenau. Se vedevano migliaia in fila che andaveno, cantaveno canzoni che io nun capivo, andavano a lavorà ne le fabbriche. Poi se sentivano le urla dei cani equando si sono aperti i vagoni... qualcuno cascava per tera, donne anziane, vecchi. Spartivano i bambini da le madri, il fratello dai fratelli, venivan divisi tutti. e noi ci presenro a bastonate e bisognava seguire il gruppo fino a l'entrata del campo». (Mario Spizzichino)
 
BIRKENAU: LA SELEZIONE
«Poi cercano un interprete, e io sono l'unico a parlare tedesco. Rudolf Höß e il dottor Mengele mi fanno montare su un tavolino, mi danno gli ordini in tedesco e io devo tradurli in italiano. Dice: 'Siete arrivati a un campo di lavoro. I giovani forti andranno a lavorare, le persone anziane andranno nel campo di riposo, le donne se sono giovani e non hanno figli anche loro andranno a lavorare, le donne con bambini vanno nel campo di riposo'. Io traduco». (Arminio Wachsberger)
«Mia madre, mia madre, mia madre, ce l'ho ancora 'n core. C'avevo una mamma stupenda, bella donna era, pareva 'n'artista, di trentasei anni.... E mia sorella, dodici anni, una bellissima ragazza con gli occhi azzurri, con le trecce fino a qui… li hanno subito ammazzati lo stesso giorno. Poi ho veduto prendere un lenzuolo, strappare i neonati che poppavano dalle madri, metterne cinque, sei dentro, fare un fagotto, così, come di panni sporchi, e buttarli violentemente sopra a un camion. Un fagotto come i panni sporchi che si lava alla lavandaia… Uno era talmente demoralizzato, talmente ingarbugliato con le idee che non stava okay al cento per cento col cervello. Nun vedevo l'ora che mi mandavano via». (Sabatino Finzi)
«È salita sul camion e ci ha raccomandato: 'Bambine, state sempre insieme!' Forse lo sentiva, non lo so... comunque non ha pianto la mia mamma, non piangeva. Non l'ho vista più. La mamma… è quella sera che è morta». (Ida Marcheria)
«La mamma… non gli ho detto neanche addio, niente. Non l'ho salutata. Non sapevo cos'è, cosa viene, dove andiamo». (Gisella Kugler)
«E poi mi hanno separato dalla mia sorellina. Aveva sette anni, da appena tre mesi era restata senza madre, senza fratelli, solo io e il babbo che stava malato. Ho cominciato a parlare italiano: 'Lasciatemi la mia sorellina!' Me l'han tolta dalle braccia. Ma lei si appiccicava: 'Non ci vado, nonci vado!' 'Ma devi andare, cara, devi andare. Siamo obbligati, non lo vedi che siamo obbligati?'» (Stella Franco)
«Un episodio che mi ha fatto capire che era proprio la distruzione del mondo fu questo: davanti a me c'era un altro del Kommando che portava un regazzino verso questo caretto; c'erano due tedeschi, uno dei due gli ha detto: 'Férmete! Il regazzino nun l'apoggiare, ma lancialo dentro il caretto!' Questo è rimasto un po' fermo, nun riusciva a capì. Stava proseguendo, allora gli hanno intimato di lanciarlo: 'Il regazzino lo prendi e lo butti in alto dentro al caretto!' E questo ha dovuto prendere il regazzino e buttarlo. 'Sto regazzino poteva ave cinque, sette mesi, poi piangeva… quando questo l'ha buttato, inaspettatamente uno dei due ha tirato fuori la pistola… e c'ha fatto il tiro a segno. Avevano scomesso dei marchi, se lo colpiva o nun lo colpiva con il tiro a segno.
Avevano scomesso! Cose incredibili che nun so se 'a gente ce crede o nun ce crede. Da lì ho capito proprio tutto, tutto. Ho detto: 'Qui, questi ce stanno a trucidà giorno per giorno proprio come le bestie. Ma ancora peggio, perché una bestia nun s'amazza in quella maniera'». (Alberto Sed)
«Io ho saputo la fine dei miei la sera stessa. Ci hanno detto: 'Voi ringraziate Dio che siete qui per lavorare. Dovete mettervi in testa che papà e mamma non esistono più. Non piangete perché è inutile'». (Rosa Capelluto)
 
L'INGRESSO IN CAMPO
«Dovevo essere chiamato 158526. Come un cavallo. Su un lato del mio vestiario c'era il mio numero de bestia». (Lello Di Segni)
«Io nun me chiamavo più Zarfati Milena, me chiamavo co questo numero, sechsundsiebzigachthundertdreiundfünfzig, che praticamente in tedesco si legge prima il 6, poi il 7, poi l'8, poi il 3, poi il 5. Questo me lo ricordo bene… poi tutto l'altro tedesco l'ho dimenticato ». (Milena Zarfati)
 
GLI ESPERIMENTI MEDICI
«Mi è tanto dispiaciuto perché noi donne, parlando con poco rispetto, abbiamo due ovaie, una per la fecondazione dei bambini e una per le mestruazioni. A me m'hanno tolto quella dei bambini. Le mestruazioni là a Birkenau non ce l'abbiamo più avute, neanche le altre donne. Dopo però, quando siamo tornate a casa, le abbiamo avute. Dopo. Ma come bambini… Quando io sono venuta a casa i figli non son più venuti… non se n'è più parlato. Non ho fatto più famiglia. Ma a casa ce li avevo i miei bambini. Io so soltanto una cosa: loro lo sanno quello che m'hanno fatto, no io. Poi i figli non l'ho più fatti. Non me l'hanno fatti fare più… perché io sono stata in campo di sperimento. Oggi ho i figli molto belli. Dio li benedica...» (Erina Fornaro Di Veroli)
 
NELLA CAMERA A GAS
«Ho guardato (dallo spioncino), è stato questione di pochi attimi. Ho visto esattamente come si agitava la gente dentro. C'erano persone attaccate alla porta... cercavano di muoversi, ma non ci riuscivano. Si intrecciavano fra di loro, la maggior parte con le mani alzate che cercavano... può darsi chiamavano Dio» (Shlomo Venezia)
 
LA LIBERAZIONE
«Mia sorella non aveva gli occhiali. Entra in baracca e dice: 'Lo sapete che non vedo bene, ma mi sembra che siano arrivati i russi!'». (Elena Kugler)
 
IL RITORNO
«C'è stata l'amnistia di Togliatti, subito arrivati in Italia. Magari politicamente è stato un fatto positivo, ma è stata una grossa delusione...» (Gilberto Salmoni)
 
IL RACCONTO
«Parlo con nisùn. Figlia non voleva saver niente, no. Nipotini… gnanca loro i la sa».
(Matilde Mustacchi)
«Nun ho raccontato mai niente a mi' fija. Perché nun m'è mai andato de raccontajelo. Ho ricontato a lei perché so' mesi e mesi che me sta addosso. Anzi, ieri volevo dije: 'Lascia perde, nun ce venga più, me faccia 'n piacere, nun ce venga pe niente!'» (Settimio Piattelli)
 
IL SENSO DI COLPA
«Noi non avremo mai la pace, mai. Solo quando moriremo. C'è una cosa che devo dire, con molta fatica: noi abbiamo un rimorso...perché noi siamo riusciti a vivere. Non avremo mai pace fino al giorno in cui andremo a raggiungerli» (Alberto Israel)
 
LA RIVINCITA
«Io mi chiamo Sabatino Finzi, di Giuseppe. Er nipote più grande che c'ho si chiama Sabatino Finzi, di Giuseppe. È figlio di mio figlio. È un mito, una cosa da non crederci. È nato il 16 ottobre, il giorno che hanno preso a me. Dio m'ha ridato una parte di quello che m'ha tolto. Io, la prima volta che sono andato in Israele, dopo la guera del '67, sono andato immediatamente al muro del pianto.
Sul mio bigliettino c'ho scritto: 'Hitler, non ce l'hai fatta con Sabatino Finzi, già ci ho un figlio maschio...affanculo!'» (Sabatino Finzi)
 
LA SPERANZA
«Io ero convinta che fosse una cosa che non si sarebbe mai ripetuta, mai. Adesso molto meno». (Iris Steinmann)
«Io non ci sarò più nel mondo, perché c'ho un'età avanzata, ma io credo che un giorno ci sarà la pace internazionale... nun è vero?» ( Raimondo Di Neris)
 
Tratti da: «Il libro della Shoah italiana» di Marcello Pezzetti, Einaudi
 
Gian Guido Vecchi
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