Tre tracce di riflessione attorno all'esperienza del volontariato: cercherò di svolgere questa riflessione considerando la radice, la ragione ultima del “fare” proprio del volontario[...]. Esperienza del volontariato, quando autentica, non è mai buonista o pietistica, ma sempre protestataria, perché la sofferenza, l'ingiustizia e la morte sono sempre uno scandalo. Vogliamo che il male non ci sia, prima ancora che porvi rimedio (di Massimo Cacciari).
del 01 gennaio 2002
Tre tracce di riflessione attorno all'esperienza del volontariato: cercherò di svolgere questa riflessione considerando la radice, la ragione ultima del “fare” proprio del volontario.
Una prima traccia potrebbe essere sviluppata attorno all'idea della relazione che il volontario ha con le condizioni di sofferenza estrema. È una questione molto importante, che caratterizza l'esperienza del volontariato in contraddizione con la cultura, nel senso antropologico del termine, contemporanea: lo sguardo del volontario, infatti, si rivolge propriamente a ciò che la cultura contemporanea tende a dimenticare, a escludere, a cancellare.
La nostra cultura si caratterizza proprio per l'esclusione della malattia e della morte, intesa come compimento della malattia, non vuole vedere malattia e morte, che vengono recluse. Qui c'è allora il primo scandalo, nel senso etimologico del termine, che l'esperienza del volontariato manifesta rispetto alla cultura contemporanea: il fare del volontario intende richiamare lo sguardo a vedere, e cioè a pensare, ciò che la cultura contemporanea non vede e perciò non pensa. Bisogna che questo scandalo sia curato, sia pensato e manifestato in tutta la sua radicalità e crudezza.
La morte, cioè l'ultimo
Vediamo le conseguenze generali - anche per coloro che non fanno ciò che il volontario fa - di questo atteggiamento verso la malattia e la morte: rimuovere, precludere con un gesto violento l'incontro con la malattia e con la morte (o richiedere che le autorità, il potere operino questa rimozione in nostra vece), significa non pensare “all'ultimo”: non voler vedere la malattia e la morte perché non ci si vuole pensare “all'ultimo”.
Rimuovere l'idea della morte significa, nella vita quotidiana, pensare sempre di poter mediare, di poter fare domani quel che si può fare oggi, credere che sarà sempre possibile un compromesso, un aggiustamento: dunque non trovarsi mai in una condizione di decisione ultima.
Questo significa anche non essere mai perfettamente responsabili: se non penso a ciò che ora faccio come fosse l'ultima cosa che faccio, non sarò mai perfettamente responsabile del mio agire. Non pensare la morte comporta quindi una radicale irresponsabilità: io non rispondo mai di ciò che faccio come fosse l'ultima cosa che faccio. Non sono responsabile, ossia capace di “rispondere”.
Protesta contro il male
La seconda traccia è forse più propria di una mentalità, di un'esperienza definibile “lato sensu” giudaico-cristiana, di una dimensione di fede: se io rimuovo la morte e la malattia, allora nemmeno potrò protestare contro la malattia e la morte.
L'esperienza del volontario infatti non può essere un'esperienza quietistica, accomodante, consolatoria. Malattia e morte sono spesso considerate come “fastidiosamente naturali”. La grande filosofia, tuttavia, ha sempre protestato contro il male, contro l'idea che morte e malattia siano condizioni “naturali”: morte e malattia sono intollerabili! L'atteggiamento vero, pertanto, deve essere sempre di scandalo nei confronti della morte: bisogna protestare contro questo fatto, come Giobbe. Gli amici di Giobbe infatti cercano di consolarlo, con l'idea che la malattia sia connessa alla finitezza della condizione umana; non riconoscono valore alla protesta di Giobbe.
Atteggiamento del volontario deve essere di protesta contro il male, in tutte le sue dimensioni, incluso il male “morale”, che tutti abbiamo il dovere di combattere. Ovviamente questo percorso non sarà proprio di tutto il volontariato, ma ritengo comunque sia un elemento culturale importante da valorizzare. È importante reagire al “paganesimo” del mondo moderno, che nega la visione giudaico-cristiana della malattia come qualcosa di innaturale e “scandaloso”.
Che cos'è il prossimo
La terza traccia prende spunto dal concetto di “prossimo”. Che cosa significa “prossimo”? Nel Nuovo Testamento “prossimo” è un termine greco che etimologicamente sarebbe meglio tradurre con “straniero”. Il prossimo, colui che incontro, in termini giudaico-cristiani è lo “straniero”; al contrario, nel linguaggio classico, il prossimo è il “filos”: ossia il mio uguale, il vicino per cultura, etnia.
Notiamo come il termine “uguaglianza” dica l'opposto del termine “prossimità”. Nel mondo greco-romano l'amicizia è concepibile soltanto come relazione intima tra “uguali”, tra gente che condivide culture, filosofie, un'uguaglianza di tipo etnico... Esattamente contrario è il concetto di “prossimo” nel Vangelo: prossimo è colui che rimane distante, che non sarà mai uguale a me. Si tratta di una relazione che salva, preserva la distanza e che non produce mai uguaglianza. “Ama il tuo prossimo” non significa dunque “ama il tuo uguale”, ma ama lo straniero, il nemico, colui che ti è scandalo.
Questa relazione che si instaura con lo “straniero”, con il “diverso da me” non pretende di creare uguaglianza, ma tutela differenza, distanza. Ne deriva una particolare concezione di quella che è la nostra identità, che coinvolge anche la sfera del nostro “esserci” sociale, civile, politico: se io penso il prossimo secondo questa prospettiva, allora ne consegue che io penso la mia identità in un certo modo: il mio “io” non è un “ego” compatto, unico che, se vuole, entra in relazione con l'altro da sé e se ne prende cura, in modo più o meno caritatevole.
Secondo questa prospettiva l'identità non è concepibile se non in relazione con lo straniero, con il distante; il mio “io” allora si produce solo attraverso un processo di relazione con l'altro
Il discorso sull'identità nella cultura contemporanea afferma il contrario: “io sono”, “io penso” e perciò l'altro è; “altro” è considerato mera proiezione del mio io.
In questo ultimo caso, se io concepisco la mia identità come una mia proprietà ben salda, allora posso farne l'uso che voglio, come per qualsiasi altra proprietà: nella nostra società infatti la dimensione della libertà si declina nel concetto di proprietà, tanto che libertà e proprietà sono diventati sinonimi.
Qualora invece io concepisca la mia identità in relazione con altro, allora io concepisco la mia identità come “trascendenza”: io non riesco a definirmi, se non rispondendo (essendo responsabile) al diverso da me. Questa visione è di incommensurabile valore, perché contraddice in toto la cultura dominante; ma può reggersi questo confronto? Si può avere la forza di sopportare una simile contraddizione? Si può sperare... ma la speranza non è la virtù dei filosofi!
Massimo Cacciari
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