What's the matter? E tu, di che materiale sei?

Conosco degli uomini che sono proprio “legnosi”. Altri sono di plastica, finti. Diversi da quelli di gomma, a cui tutto rimbalza addosso. In genere hanno anche la faccia di bronzo.

What’s the matter? E tu, di che materiale sei?

 

Conosco degli uomini che sono proprio “legnosi”. Altri sono di plastica, finti. Diversi da quelli di gomma, a cui tutto rimbalza addosso. In genere hanno anche la faccia di bronzo. Non necessariamente questi ultimi hanno il cuore di pietra, né hanno segatura nel cervello per cui fanno progetti che sono castelli di carta. Il cuore può anche essere di burro, se è per questo, mentre altri sono rigidi come il ferro o duri come l’acciaio. A Roma poi ce ne sono molti che sono “de coccio” e poi c’era Tayllerand, che secondo Napoleone era un calzino di seta, pieno di merda. Siamo tutti fatti “di” qualcosa, e a volta c’è un materiale che ci contraddistingue, e innanzitutto siamo “fatti di… mamma e papà”; quale dei due prevale in me? Ah, boh.. what’s the matter with me? Quale è il mio “matter”, materiale, cioè “problema”?

 

 

Beh, innanzitutto il mio problema ora è scrivere questo editoriale dedicato al tema dell’anno, sulla materia, i materiali… Non sapevo da dove partire ed ecco che mi viene in aiuto, senza saperlo, Cecilia, una mia ex-alunna, studente di psicologia, che mi invia su Facebook una frase di Erich Fromm, un autore molto quotato, forse troppo, quando io ero giovane, che dice esattamente: “In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda. Sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo, l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione”.

 

 

La mia prima impressione è stata: è vero, esiste una forma di “fusione”, calda o fredda non saprei, tra l’artista e la materia. Poi ho pensato che il più famoso processo di creazione di cui l’uomo conosce un “resoconto” lo troviamo nel primo capitolo del primo libro della Bibbia e lì le cose sembrano andare diversamente. Dio, nel creare il mondo, non fa altro che separare. Ma forse le vie di Dio non sono le nostre vie. Le nostre sono molto più terra-terra. Adam, questo il nome dell’uomo, vuol dire appunto fatto di terra, “terroso”. E quando Dio lo ha creato non ha proceduto come con tutto il resto, distinguendo e separando (la terra dalle acque e dal cielo, la luna e il sole, i vari tipi di animali…) ma immergendo le mani nel fango, modellando l’argilla e soffiandoci dentro, quasi fosse un flauto da soffiare o una bocca da baciare. Anche qui una fusione. Dio si è divertito a creare il mondo ma si è compromesso nel creare l’uomo. E l’uomo quando crea, perchè essendo suo figlio non può far altro che imitarlo (secondo la teoria del sub-creatore di Tolkien), continua a compromettersi, a immergersi totalmente, con il suo spirito ispirato, nella materia per cui ogni cellula del suo corpo, ogni suo pensiero, diventa tutt’uno con quei materiali che sta maneggiando per creare per cui “lo scultore pensa in marmo”, come ricordava Oscar Wilde.

 

 

Se la creazione di Dio può fare, forse, a meno di tutto, l’uomo è solo un sub-creatore, un costruttore, un creatore in seconda che ha bisogno di materie prime per realizzare i suoi sogni (della cui stessa stoffa, secondo lo Shakespeare de La Tempesta, noi uomini siamo fatti). Le materie prime sono del creatore primario: “Credo che non vedrò mai una poesia bella come un albero. Ma le poesie le fanno gli sciocchi come me. Un albero lo può fare solamente Dio” scrive un secolo fa in Trees and Other Poems, il poeta americano Alfred Joyce Kilmer.

 

 

Un albero no, ma con il legno l’uomo in tutti questi millenni che abita la terra ha compiuto incredibili meraviglie, come se quel legno fosse nascosto negli alberi come uno spirito, un demone (le Driadi dell’antica mitologia) in attesa di un altro spirito, un altro demone, quello dell’artista, che fosse pronto a risvegliarlo. Ricordo che quando da bambino suonavo il violino la maestra mi diceva che lo strumento, nella sua materialità, anche prima di essere suonato, fosse “animato”, dotato di un’anima che risiedeva proprio nel legno, per cui ogni violino era diverso dagli altri e i maestri liutai (da Stradivari in giù) non erano semplici “intagliatori” ma quasi dei maghi o stregoni.

 

 

Ho ritrovato una simile suggestione nelle parole del poeta Claudio Damiani in una recente intervista in cui parla che “una via maestra per sentire la sacralità di noi e di tutti gli essere viventi è l’arte, che proprio questo fa: ci fa sentire la sacralità degli esseri, ci fa sentire viventi tutti gli esseri, anche i non viventi. Ma anche la scienza, che è, come l’arte, conoscenza e imitazione della natura. Scienziato, oltre che filosofo, era il grande Teilhard de Chardin, gesuita, che scoprì che la vita veniva dalla materia, ma non perchè la vita era materia, ma perchè la materia era già vita (mater materia)”.

 

 

C’è molto spirito nella materia, le due cose si trovano agli antipodi molto meno di quello che si pensa, anzi si intrecciano profondamente, già in noi, uomini semplici, creatori e fruitori dell’arte. Noi uomini infatti siamo spiriti incarnati, siamo un ammasso di acqua, carne, muscoli, cartilagini e ossa, cute, unghie e capelli (il cosiddetto materiale organico) ma sentiamo che c’è qualcos’altro, innanzitutto questa possibilità di sentire, altrimenti ha ragione una delle ultime e più meste poesie di Borges in cui si sente costretto ad ammettere, di fronte alla sua lapide, che: “Qui sotto gli epitaffi e le croci non c’è quasi nulla. Qui non ci sarò io. Ci saranno i miei capelli e le mie unghie, che non sapranno che il resto è morto, e continueranno a crescere e diventeranno polvere. Qui non ci sarò io, che farò parte dell’oblio che è la tenue sostanza di cui è fatto l’universo”.

 

 

Viene da pensare: tutto qua? Siamo fatti di sogni, di oblio? O qualcosa di noi è destinato a restare, rimanere quando tutto il resto crolla, sembra finire. Non mi meraviglio che, anche per me, il dogma della resurrezione della carne è l’aspetto più duro e misterioso della fede cristiana. Cosa resta alla fine di tutto? Mi viene in mente l’abbeveratoio di pietra della pagina finale di Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy, dove ancora una volta, materia e spirito, vita e arte, si fondono.

 

 

Non vorrei aver dato l’impressione di essere uno contro il materialismo e tutto a favore dello spirito, tutt’altro. A me lo spirito, l’anima… sono cose che mi mettono un po’ d’ansia. Mi piace invece la carne, non solo a tavola. La carne, la mia, quella altrui, la tocco, trasmette calore, vita. Un grande teologo del ’900, Romano Guardini, diceva che il cristianesimo è la religione più materialista. Mi piace. Perchè aveva ragione, ancora una volta, il buon Gilbert K.Chesterton quando osservava che: “non vi sono cose cattive, ma solo un uso cattivo delle cose o, se volete, non vi sono cose cattive, ma pensieri cattivi, specialmente cattive intenzioni […] le cose buone, come il mondo e la carne, sono state contorte da una cattiva intenzione chiamata il diavolo. Ma egli non può fare cattive cose; queste rimangono come nel primo giorno della creazione. L’opera del cielo fu materiale, la costruzione di un mondo materiale. L’opera dell’inferno è interamente spirituale.

 

 

Andrea Monda

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