Nessuno è testimone di una cosmogenesi. Nessuno sa in che modo la notte dell'inferno del Sabato si è trasformata nella luce del mattino di Pasqua. Noi tutti siamo stati trasportati dormenti sulle ali al di sopra dell'abisso, dormenti abbiamo ricevuto la grazia della Pasqua. E nessuno sa come gli è accaduto.
del 01 gennaio 2002
Nessuno è testimone di una cosmogenesi. Nessuno sa in che modo la notte dell’inferno del Sabato si è trasformata nella luce del mattino di Pasqua. Noi tutti siamo stati trasportati dormenti sulle ali al di sopra dell’abisso, dormenti abbiamo ricevuto la grazia della Pasqua. E nessuno sa come gli è accaduto. Nessuno sa quale mano lo ha segnato sulla guancia in modo che tutto a un tratto il pallido mondo brillò di colore e lui dovette sorridere senza volere del miracolo che si compiva a suo riguardo.
Chi può descrivere che cosa significhi che il Signore è Spirito? Spirito è la realtà invisibile che per un attimo si mostra come per intero visibile. Lo Spirito è il profumo invisibile del Paradiso che è sorto in mezzo a noi. Spirito è la grande ala invisibile che si riconosce al soffio dell’aria e all’improvvisa gioia che ci sopraffa quando anche solo una sua piuma ci sfiora. Spirito è il Paraclito, il consolatore, alla cui dolcezza la parola del pentimento ammutolisce non detta, come assorbita in una goccia di rugiada alla luce del sole; un grande e bianco mantello, leggero come seta si getta intorno al tuo corpo e sotto di esso spariscono come da sé le vesti appiccicose della disperazione. Lo Spirito è un mago incantatore: può creare in te ciò che non è, far scomparire ciò che sembrava ineliminabile, in mezzo al deserto produce giardini, fontane, uccelli e ciò che esce da questi incantesimi non è uno spettro, è pura verità. E con la verità ti crea la fede. Tu credi alla Parola, vedi, senti, tocchi: avverti il membro nuovo che ti è cresciuto dentro, tu accarezzi la pelle liscia da cui per miracolo è scomparsa la ferita. Vivi nel regno dei miracoli, vai in giro come i bambini dentro una fiaba: reso felice e naturale. E come in un sogno, di cui non ci si ricorda più esattamente, tutto è passato, e come un’immagine dentro il quadro sta appeso tutto il vecchio mondo nello spazio nuovo.
Tu ti trovi ancora inginocchiata, tutta in lacrime, presso la tomba vuota. E sapevi solo che il Signore è morto, che la dolce vita tra lui e te è morta. Ti trovi di fronte solo il vuoto della caverna, gelida è l’aria, da brivido, essa sale dalla tua anima in cui il morto si è posato a suo riposo, dove tu l’hai unto e avvolto come una mummia con la tua venerazione, che nulla più aspetta. Vuoi eseguire i tuoi riti alla sua tomba, non smetti di pregare e di recarti in chiesa alle vuote cerimonie, in un disperato servizio al tuo morto amore. Ed ora, che cosa significa risurrezione? Chi lo sa tra quelli che non sono risorti? Che cosa vuol dire adesso credere?
La fede è sigillata dentro al tomba. Che cosa significa ora speranza? Un pensiero di piombo senza forza e desiderio. E amore? Ahimé forse solo il rammarico, il dolore vuoto dell’inconsolabile inutilità, la stanchezza che non può più neppure portare avanti il lutto. Così sei là, irrigidita nel vuoto. Poiché di fatto la tomba è vuota, sei tu stessa vuota e per questo sei già pura e solo un crampo ti impedisce di guardare indietro. Guardi fissa davanti a te e dietro le tue spalle c’è la tua vita! Essa ti chiama, tu ti volti, non la riconosci; l’occhio disabituato alla luce non l’afferra.
E d’un tratto una parola: il tuo nome! il tuo proprio amato nome dalla bocca dell’amore, il tuo essere, la tua quintessenza, tu stessa ricreata dalla bocca creduta morta! O parola, o nome, tu mio proprio nome! Pronunciato a mio riguardo, bisbigliato in sorriso e in promessa, o fiume di luce, o fede, speranza, amore! In uno schiocco di tuono io sono il nuovo essere, lo sono e lo posso, restituito a me, e ancora in quello stesso istante, e giubilo, eccomi ai piedi della vita.
«Io sono la risurrezione e la vita!» Chi crede in me, colui che tocco, chi ode il suo nome dalla mia bocca, costui vive ed è risorto dai morti. E oggi è il tuo giorno novissimo, il più infantile dei giorni, nulla sarà più giovane di questo oggi, quando ti ha chiamato per nome la vita eterna.
Ora io so chi sono, e lo posso essere, perché il mio amore mi ama, il mio amore mi dona la fiducia. Questo adesso, in cui i due nomi si sono toccati, è il mio giorno di nascita nell’eternità e nessun tempo potrà cancellare questo adesso: qui è stato messo il punto. Qui è la creazione e il principio. Qui la campana viene versata nella forma vuota, va in frantumi il rigido mantello che, delimitandomi da fuori, riduceva il mio vuoto, a partire da qui potrò scampanellare alto sulle torri e annunciare, annunciare...! «Va’e annuncia ai miei fratelli!» Già vedo le tue ali mettersi impazienti in movimento, va’, mia colomba, mia messaggera pasquale, annuncia ai tuoi fratelli. Poiché questo è essere risorti e vivi: far passare via via l’annuncio, portare la fiamma. Essere utilizzabili nella mia mano alla costruzione del mio regno nei cuori. Far passar oltre il battito del mio cuore. E se non ti crederanno, come tu stessa non hai creduto, dal momento che la vita ti ha irradiato, anche da te splenderà la convinzione della vita e farà sussultare i loro rigidi sensi.
Va’e annuncia! E mentre loro insorgeranno increduli, comincia a spirare lo Spirito del Signore, e come da ciel sereno brilla ogni tanto davanti alle anime scoraggiate e le solleva immantinente e getta in esse la stessa fiamma. E quando esse, ebbre di gioia, cercano di afferrarlo con occhi e mani, egli indica loro la via, scomparendo: «Andate e annunciate!» E li fa vorticare l’uno verso l’altro in vortici a perdifiato. E infine, di sera, eccoli alzarsi fiammanti nella sala, e pieni del suo amore si raccontano gli uni agli altri, e mentre ancora parlano ecco egli sta in piedi tra loro e li saluta: la pace sia con voi.
La pace che il mondo non conosce e non può dare. La pace che sorpassa ogni senso e ogni conoscenza, così eccelsamente alta e profonda e trascinante, che il loro cuore sarebbe scoppiato per l’eccesso, se questa non fosse appunto... pace. O incendio fatto di silenzio, o tempesta fatta di riposo! Così semplice è il paradiso di Dio che è una colazione con un favo di miele e un pesce arrostito. Così terreno è il paradiso che è un mattino di pesca sul lago di Genezareth, le onde risuonano, un primo sole irradia attraverso la nebbia, sulla riva c’è un uomo e chiama, fa segno, si getti la rete dalla parte destra, già brulica la rete piena. Sulla riva sta pronta la colazione, tutti si accomodano, mentre le pietre si asciugano, e non essendoci bisogno che alcuno faccia domande per sapere chi sia quello straniero, confabulano le onde contro il silenzio. O pace al di là delle domande: è il Signore. Così semplice è ogni cosa, come se non fosse stata mai diversa. Il Maestro benedice, come sempre, il pane e lo porge loro, dopo averlo spezzato. Come se non ci fosse mai stata la croce, la tenebra, la morte. La pace sia con voi. Come se mai tradimenti, maledizioni, rinnegamenti ci fossero stati nei loro cuori. La pace sia con voi, non come la dà il mondo io ve la do. Il vostro cuore non si angosci e non si strugga. Perché ecco: io ho vinto il mondo. E tu, Simon Pietro, figlio di Giovanni, mi ami? Mi ami, tu, anima, che mi ha tradito tre volte? Non mi hai sempre amato, e non era amore quello di allora, quando mi seguivi di soppiatto, invece che rifugiarti come gli altri in angoli più scuri. Non amore quando, freddoloso e fuori di te, confuso e paralizzato, ti trovavi in quel bivacco notturno. Ti riscaldavi, ma quale caldo è penetrato fino alla tua anima indurita, che rinnegò senza sapere come tutto questo le sia accaduto, senza sapere perché mi dovevate tutti abbandonare, affinché io potessi andare solo per la mia strada, quella che unicamente il solitario percorre, la tua anima mi rinnegò, perché l’amaro profluvio delle lacrime al canto del gallo pienamente ti restituisse a me. Tutto questo ora è lontano e visibile appena, una pagina nuova si è girata. Non soltanto ho vinto la morte, e non soltanto il peccato, ma non meno la sua vergogna, la rossa vergogna, l’amara feccia della tua colpa e il tuo pentimento e la tua cattiva coscienza: ecco, tutto ciò è scomparso senza lasciare traccia come la neve sparisce al sole della Pasqua. Tu mi guardi così ingenuamente in faccia, con tale libertà e con cera così innocente, neppure con l’aria contraffatta del ragazzo che vorrebbe nascondere il tiro dietro un volto che finge di non sapere, tu mi guardi con più lievità che non una canzone di primavera e il tuo sguardo è fino in fondo così azzurro come il cielo sopra di noi, così che ti devo pur credere: Sì, Signore, tu sai che ti amo! Questo è il mio regalo di Pasqua per te: la tua buona coscienza, e tu devi riceverlo con buona coscienza questo regalo, perché nel giorno della mia vittoria non voglio vedere cuori contristati. Per che cosa ancora questa contrizione sorpassata, questo fallito tentativo di apparire infelice? Lasciala ai farisei questa giusta ed esatta misurazione tra la colpa e il pentimento, tra il peso dei vostri peccati e la durata e fermezza del vostro senso di colpa, questo appartiene al Vecchio Testamento. lo ho portato la colpa e la vergogna e la cattiva coscienza, ora è nato il Patto nuovo nell’innocenza del paradiso e nella rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo. Così prevalente è lo splendore di questo mondo rigenerato che la vostra anima -lo tentasse pure di controvoglia - non è capace di avere i sentimenti del mondo che è sprofondato. Il vaso di fiori può opporsi quando il sole lo sopraffa con simili flussi di calore e di luce? Può restare chiuso, forse perché non è degno di vedere la santa luce che gli batte negli occhi? Se già dei genitori e degli amici si perdonano a vicenda, che sono pure uomini e non possono creare niente, come non dovrei io, vostro Creatore, poter realizzare quest’azione creatrice in questo mio giorno primigenio?
E così vieni qui anche tu, Tommaso, vieni fuori dall’antro dei tuoi dolori, metti il tuo dito qui dentro e vedi le mie mani; metti qui la tua mano e introducila nel mio costato. E non t’immaginare che il tuo cieco dolore sia più chiaroveggente della mia grazia. Non rintanarti nella fortezza dei tuoi tormenti. Vero è che tu credi di vedere più acutamente dei tuoi fratelli, tu hai delle prove in mano, tu conosci il tuo uomo vecchio nero su bianco, e tutto in lui grida: impossibile! Tu vedi la distanza, la puoi misurare col gomito, la spanna tra peccato ed espiazione tra te e me. Chi vorrà lottare contro simile evidenza? Tu ti tiri indietro nella tua mestizia, questa almeno è tua; nell’esperienza dei tuoi dolori tu ti senti vivere. E se uno ci mettesse sopra la mano e cercasse di strappare, aiutandoti, le sue radici, ti caverebbe certo l’intero cuore dal petto: così tutt’uno sei diventato col tuo dolore. E tuttavia io sono risorto. E il tuo saggio dolore, il tuo grigio dolore, in cui ti nascondi, in cui ti immagini di dimostrarmi la tua fedeltà, in cui tu credi di essere presso di me, è molto anacronistico. Perché io oggi sono giovane e felice. E quello che chiami la tua fedeltà è autocompiacenza. Tu hai una misura in mano? La tua anima è il criterio di giudizio per quello che è possibile a Dio? Il tuo cuore carico e gonfio di esperienza è l’orologio secondo cui puoi leggere il consiglio di Dio a tuo riguardo? Mancanza di fede è quello che tu credi sia profondità. Ma poiché tu sei così consunto e l’evidente tormento del tuo cuore si è spalancato fin nell’abisso del tuo io, porgimi la tua mano e percepisci con essa il pulsare di un altro cuore. In questa esperienza nuova la tua anima si darà e arrenderà, e il cupo serrato fiele scoppierà. Ti devo sopraffare. Non ti posso risparmiare di pretendere da te la cosa più cara, che hai, la tua malinconia. Dalla via, anche se ti costa l’anima, e il tuo io crede di morire. Butta via questi idoli, il freddo grumo di pietra nel tuo petto, ed io ti darò al posto suo un cuore nuovo di carne, che batterà secondo il battito del mio.
Cedilo questo tuo io, che vive del fatto di non poter vivere, che è malato perché non può morire: lascialo perdere, così comincerai finalmente a vivere. Tu sei innamorato nel malinconico enigma della sua incomprensibilità, ma tu sei tutto penetrato dallo sguardo e compreso, perché ecco: se il tuo cuore ti accusa, io sono più grande di questo tuo cuore e so tutto. Osa il salto nella luce, non pensare che il mondo sia più profondo di Dio, non pensare che io non ce la farò con te. La tua città è assediata, le tue provviste sono esaurite: devi arrenderti. Che cosa c’è di più semplice e dolce che aprire la porta? Che cosa c’è di più facile che non inginocchiarsi e dire: Mio Signore e mio Dio?
IL MIO REGNO MATURA IN TUTTI VOI. Voi non lo vedete, questo regno, oppure ne avvertite solo da lontano delle piccole schegge. Ma io sono il re e il centro di tutti i cuori, e di tutti i cuori il segreto più intimo, il meglio custodito, che è riservato a me. Voi vedete il guscio esterno con cui gli uomini si nascondono l’un l’altro. lo guardo dentro nelle anime, a partire da quel centro verso cui esse stanno aperte inermi. E là, nell’intimità massima, c’è anche il loro vero volto. Là splende il loro oro, là riposa la loro perla nascosta. Là brilla l’immagine e il simbolo, il sigillo della loro nobiltà. Là stanno aperti gli occhi che perpetuamente vedono il volto del Padre. Là vigila, anche se il corpo, l’anima esterna, dorme, la lampada davanti al tabernacolo. A ciò che di fuori gli uomini presentano come sinistro, improvvido o anche falso, corrisponde all’interno sempre un che di puro, commovente o benintenzionato. E quando essi realmente amano e si fanno davvero del bene a vicenda, allora splende la loro faccia intima e mi sorride, ed io ricevo di più del 10ro confratello uomo. Ogni cosa buona in essi, che essi neppur conoscono, che forse per un certo pudore non vogliono conoscere, sta rivolta a me. L’incomprensibile bellezza delle anime, che il Padre mio ha coperto davanti ad esse affinché non si innamorino dello specchio creato; questa bellezza sconvolgente accanto a Dio sta svelata davanti ai miei occhi. Credete voi che non sia meraviglioso vedere tutto ciò, come in una immensa sfera tutt’attorno alla mia questi milioni di cuori che contano solo per me, che si aprono come una gigantesca rosa rossa dei dolori, respirando a fatica incontro alla luce, tutto questo lottare, correre pericoli, osare cieco, tutto questo cercar aiuto e di continuo le paure, gli ostacoli, le esitazioni, questo inciampare e cadere, riprendersi e correr di nuovo via: tutto questo mi riguarda. Ogni singola vita: una catena infinitamente articolata, una storia nuova in ogni suo minuto, un’attrazione, una vaga promessa, poi un’intuizione improvvisa, una decisione ancora ricoperta di veli, un camminare da sonnamboli, e di nuovo crepuscolo, nebbia, un arrestarsi (il pensiero di vivere meglio per se stessi), un indietreggiare, rabbrividire, scoraggiarsi, che cos’era tutto ciò? forse la mia voce? un ascoltare, riflettere, pentirsi, oppure anche un intenzionale far l’orecchio del mercante, uno scantonare spavaldo, stendersi a terra, fare il morto, per anni forse, finché come un lampo arriva all’orecchio un nuovo grido e richiamo, un riscuotersi, uscire dal sonno e rimettersi d’impeto sulla strada per il tempo perduto. E tutto questo mille volte, e sempre di nuovo, e ogni volta, in ogni anima e del tutto nuovo: un mondo che parte, il regno in divenire, la celeste Gerusalemme in costruzione, la migrazione dei popoli verso il paradiso: e sempre nella mia direzione. E ogni anima un dono del Padre per me; ad ognuna mi posso rivolgere, donarmi a profusione, stendermi sotto i piedi come loro strada, inarcarmi sopra ogni strada del destino come porta verso la vita. Tra ogni anima e me questo patto, questo verginale contratto di un matrimonio santo; per ognuna io sono il Tutto, l’Estremo, l’Incondizionato, l’Assoluto; sono il Padre, la Madre, l’Amico, lo Sposo. Per ognuna io sto pronto come l’adempimento, quando tutte le care illusioni, tutti i falsi innamoramenti vengono alla fine meno. Sempre di nuovo si rappresenta la scena con il vaso di alabastro infranto, con le lacrime e i capelli sciolti, quando una vita si versa davanti a me come una libbra di nardo odoroso o una collana di perle; l’episodio accanto alla fontana di Giacobbe, o presso Simone il fariseo, oppure, indimenticabile, nel tempio l’incontro con quella donna, o lo sguardo dell’unico lebbroso che tornò indietro per ringraziarmi, o del giovane, quando si risvegliò dai morti sulla sua bara, come si guardò, là fuori davanti alla città, e la gente che l’accompagnava si fermò, ed egli vide sua madre, infine anche me, e cominciò lentamente a comprendere, o la vista del mio amico Giovanni davanti alla croce, come egli con tutte le vene pendeva da me e mi offriva tutta la sua anima come una coppa, e infine l’esistenza inesauribile con mia madre, sedendole in grembo, crescendo accanto a lei e la sua lenta metamorfosi in amica e sposa. E tutto questo (o bontà!) offerto a me fin dal principio del mondo, giacché anche i patriarchi avevano sete di me, di vedere il mio giorno ed lo hanno visto e ne sono stati consolati. Poi il numero da non poter contare dei santi, che io per altrettante vie diverse e diversamente articolate della grazia ho reso capaci di passare dalla grazia al dono dell’intera loro anima. Ma anche gli altri, laggiù avvolti nella nebbia, poco toccati dal sole del Padre, si volgono a me per strade erte, ansimanti sotto il peso del loro peccato e del loro destino difficile da rendere migliore, la piccola gente, il basso popolo come un gregge a perdita d’occhio, ben poco capaci di capire, la maggior parte sordi nella loro tenebra, senza conoscermi. Io sono davanti ai loro occhi spersi solo un’apparizione confusa (come quel cieco che ho guarito e che al primo contatto disse di vedere uomini andare come alberi), ma quando essi vedono appena albeggiare qualcosa, già sorridono e si rimettono a camminare volonterosi. Ma anche tutto ciò che gli uomini cercano e trovano è mio e converge al mio centro e nulla di tutto ciò va perduto nel viaggio verso il mio regno. Ciò che essi hanno intravisto sul mio modello e poi trasferito in statue, case, ponti, ciò che come eco della mia voce hanno tradotto in musica, dalla mia bianca luce hanno distribuito in colori e forme - e spesso gli uomini hanno pianto sulla bellezza, perché in essa, senza che lo sapessero, io toccavo i loro cuori - ciò che tante volte nella loro intuizione creatrice è salito in essi dal centro profondo come opera e nel progetto del Maestro mirava più oltre, assai più oltre di quanto i loro poveri disegni e linee potevano prefigurare. Tutto questo deve puntare, nel suo invisibile prolungamento, a quel centro che io sono. E tutto ciò che gli uomini hanno realizzato in associazioni, stati e nazioni a comunione e sollievo vicendevole, è pensato in relazione a me ed è un’ombra della città dalle dodici porte di pietre preziose e mi procura sassi e legna per la costruzione del mio regno.
E anche nei loro idoli essi mi devono servire, e coloro che mi rinnegano e perseguitano, frugano in cerca delle mie tracce nel mucchio immondo dei loro ideali illuministici. Per tutti io sono la via e la vita, anche se non conoscono il sentiero su cui camminano e non sanno dove li porta, anche se della verità altro non sanno che quanto vedono in specchi infranti e in enigmi, e ciò che chiamano la vita non è che una debole eco, un riflesso contorto della vita che è in me. La strada che va a Emmaus quante volte l’ho percorsa accompagnato a gente che non mi riconosceva, non avevano mai sentito il mio nome, ma il loro cuore ardeva, mentre spiegavo loro il libro della vita e, perché non dirlo, ardeva anche a me il cuore nella gioia della compagnia.
E poi il mio sostare presso i poveri. Quando nella gelida baracca, incerti del domani, fra lamenti e depressione, si coricano nei loro stracci, allora, prima che si addormentino, accarezzo loro l’anima con invisibile mano per levar via la loro non voluta ma ahimé così comprensibile ribellione contro la volontà del Padre e per disporli al pieno doloroso abbandono. E il giorno dopo li accompagno alloro ritorno in fabbrica, alloro lavoro quotidiano senza gioia, che nella sua durezza assomiglia tanto al mio lavoro. Poi il mio passare lungo le sale degli ospedali per visitare i miei fratelli che, soffrendo, senza saperlo collaborano alla mia opera. Poi la mia presenza sui campi di battaglia dove tante vite moribonde si rotolano rantolanti a tre passi dal paradiso. Poi giù attraverso il mondo cavernoso del peccato, della degenerazione e della disperazione, sperando di lenire e di scoprire per via qualche perla che, sepolta sotto la sporcizia, attende il fuoco che la libera. Ciò che io tocco vede, che benedico diventa chiaro, che guardo si rialza nella speranza. lo non deludo nessuno: sono ricco abbastanza per riempire ogni vuoto, felice per trascendere ogni felicità del mondo, potente per attrarre a me il reprobo più reprobo. Illimitato e traboccante è il mio regno: come dovrei non amarlo? Chi non ama il proprio corpo? La chiesa difatti e, mediante lei, il mondo è questo corpo. Chi non morirebbe a cuor leggero per una simile sposa? Giacché tutto ciò che è stato creato in me - e senza di me nulla è stato creato - è grembo per il seme della mia parola e bocca casta per il mio bacio.
E tuttavia non è questa la mia ultima felicità. il mio regno non è il mio regno. Tutto ciò che mi appartiene, appartiene al Padre. Voi tutti, miei fratelli creati, io amo per amore del Padre. Voi siete la preda che nella mia marcia trionfale mi porto a casa e che verso davanti al suo trono. Credetemi, il Padre vi ama; vi ama al punto che non ha risparmiato neppure me e mi ha dato via per voi. Egli è colui che fa, io solamente la sua azione. Egli ha progettato, creato e fondato, egli vi ha eletto, predestinato, amato quando eravate ancora peccatori e vi ha attirati a sé affinché, da lui amati, possiate annunciare la grandezza della sua potenza. Suo è il regno e dunque dovete pregare: venga il Tuo regno. Sia fatta la Tua, non la mia, volontà. li regno che ho costituito nel sangue e nell’angoscia, che è fondato oggi nel giorno di Pasqua, io lo restituisco nelle sue mani. Lo stendo come atto di omaggio davanti ai suoi piedi. La felicità di un uomo, che ha conquistato il regno con la forza della spada per regalarlo alla sua sposa, che cos’è comparata alla felicità che provo io quando consegno la totalità del mondo al Padre? Giacché certamente ogni dono ottimo discende dal Padre della luce, e nulla può essergli dato che egli stesso non abbia già dato al donatore. Anch’io, riverbero della sua gloria, specchio della sia essenza, sono soltanto mediante Lui. Egli mi abbraccia nello Spirito Santo e, con me, la sua creazione; Egli, allora, che cosa riceve se non ciò che è sgorgato da lui, fonte primordiale di ogni bene? E così questa è la mia felicità: io sono la sua proprietà e il suo raggio luminoso, e attraverso il mondo torbido, ritorno intatto nel suo grembo. Però io torno a casa più ricco di quando ne uscii. Lo Spirito Santo, nel quale noi ci uniamo, non esce forse da noi? La divinità sarebbe compiuta se io, questo Spirito, non lo espiro? E il mondo non prende parte in me anche creaturalmente a questa creazione? Non deve anch’essa, che è stata a se stessa donata, arrivare con le mani piene al Padre onnidonante? Il seme del regno non deve portare nel granaio tutta una mietitura per sua propria forza, resa sua dal dono, con frutto sessanta e cento volte moltiplicato? Come il raggio, captato fra due specchi, così la mia felicità naviga fra due felicità: nulla possedere da me stesso che non appartenga al Padre mio: essere nella mia stessa persona un suo dono a me, così che io in tutto ciò che sono non incontro che la sua bontà; e insieme potergli costruire per mia forza questo regno, con il dolore e la croce, che lui non ha avuto, e potergli consegnare nello Spirito Santo, che esce da entrambi, tutto il colmo universo come un duro cristallo nel sole. Entrambe le cose sono beatitudine: scomparire per far apparire soltanto Lui; apparire per annunciare Lui come sua Parola. In questo gioco dell’amore noi siamo catturati, io e il mondo, e non esiste nulla più se non l’onore sempre più grande del Padre sempre più grande.
Hans Urs Von Balthasar
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