La pista di Taifet è semplicemente orribile. Tutte le volte che l'ho potuto l'ho evitata con gioia. Preferivo allungare di qualche chilometro il tragitto passando per Ideles e Irafok piuttosto di transitare tra quelle gole impervie, bisognava farsi strada col piccone e la pala nei tratti rocciosi e sprofondare poi nella sabbia molle degli oued tortuosi e bizzarri che non finivano mai.
La pista di Taifet è semplicemente orribile. Tutte le volte che l'ho potuto l'ho evitata con gioia. Preferivo allungare di qualche chilometro il tragitto passando per Ideles e Irafok piuttosto di transitare tra quelle gole impervie, bisognava farsi strada col piccone e la pala nei tratti rocciosi e sprofondare poi nella sabbia molle degli oued tortuosi e bizzarri che non finivano mai. Ma quella volta non avevo avuto altra scelta e mi ero ingaggiato in essa raccogliendo tutto il coraggio di cui disponevo, che non era molto dopo una settimana di vento caldo del sud e la fatica di rilievi meteorologici diurni e notturni. Il cielo era, come al solito, senza nubi, e implacabile il sole fin dal mattino. Ma non ci facevo caso: la mia preoccupazione, l'unica mia preoccupazione era il motore della jeep che dava segni di stanchezza e che non voleva più saperne di sradicare la macchina quando affondava nella sabbia fino al telaio. Eppure bisognava avanzare. Chi sarebbe venuto ad aiutarmi su quella pista? La sera prima, al pozzo di Tazrouk avevo caricato sì tutta l'acqua possibile, ma anche quella finita... e poi? E poi, cosa avrei fatto in quella landa deserta, immagine della morte e del perpetuo silenzio? Sì, tutte le mie speranze erano nel motore; quel motore che conoscevo così bene nel fremito e nelle voci e che non mi aveva mai tradito fino allora. Ma ora? Sarei riuscito ad attraversare i ventidue chilometri dell'oued di Taifet così soffice nelle sue sabbie lucenti, così caldo nelle sue gole selvaggie? Le nove... le dieci... le undici... , tra pause per lasciar raffreddare il motore e strappate fortunate su banchi di sabbia più compatta ero giunto finalmente in vista di Taifet, piccolissimo villaggio di ex schiavi sui bordi dell'oued omonimo. Mi lanciai sulla pista deciso a vincere con la velocità la presa della sabbia che si faceva sempre più molle e insidiosa. Il caldo era soffocante e l'acqua bolliva nel radiatore. In quelle condizioni non avrei certo fatto molta strada! Difatti, in un ultimo sforzo per sostenere l'andatura, il motore che ronzava a tutto gas, ebbe un gemito stroncato e si fermò. Ero sprofondato nella sabbia. Scesi dalla jeep ma ebbi paura di un colpo di sole. Non mi sentivo di prendere la pala per liberare la macchiana dalla sabbia. Cercai un po' d'ombra. Nell'oued, qua e là c'erano cespugli di etel. Mi diressi al più vicino e mi gettai aterra alla sua ombra. Non so come, ma in quel momento mi tornò alla mente il profeta Giona seduto sotto l'ellera che lo riparava dal sole davanti a Ninive infuocata. Ma ebbi poco tempo per considerazioni bibliche e mi addormentai subito.
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Quando ripresi i sensi sentii attorno a me un parlare sommesso intercalato da risatine. Ero immerso in un bagno di sudore e la testa mi faceva male. Aprii gli occhi e vidi attorno a me gli uomini di Taifet che mi guardavano sorridendo. Com'erano bianchi i loro denti e come brillava la loro pelle scura! Erano forse una ventina e avevano interrotto il loro lavoro al mio arrivo. Sotto l'etel vidi che avevano già preparato il fuoco per il the. Quella bevanda calda ed eccitante mi ristorò alquanto. Mi invitarono a mangiare con loro il "couscous" ed io offrii tutto ciò che avevo sulla jeep. Soprattutto il tabacco li rese loquaci e la siesta ebbe momenti di particolare gaiezza. Ma fu così breve! Era il lavoro che li attendeva e che lavoro! Dovevano scavare nell'oued un canale sotterraneo, chiamato "fogara", capace di raccogliere l'acqua di cui era imbibita la sabbia come una spugna e condurla ai campetti vicini dove il grano seminato e ormai adulto aveva una gran sete. Il solito temporale fuori tempo aveva distrutto la vecchia "fogara" e bisognava rifare il lavoro senza perdere tempo. Una settimana di ritardo sarebbe bastata per compromettere tutto il raccolto, il che voleva dire fame per tutto l'anno. Mi offrii a lavorare con essi per qualche giornata pur sapendo che il mio aiuto non era dei più validi. Fu così che vissi per una settimana con uno dei più poveri gruppi umani che esisteva sulla terra. Il lavoro cominciava all'alba e durava fino al tramonto. Con rudimentali strumenti si scavava la galleria che correva a circa tre metri sotto il livello dell'oued in un materiale sabbioso, ma compatto. La sabbia scavata veniva spinta verso i pozzi che intercalavano la galleria e gettata fuori con l'aiuto di pale. Chi lavorava nella galleria aveva il vantaggio di soffrire di meno il caldo, ma in posizione scomoda, chi lavorava fuori soffriva meno il mal di schiena, ma soffocava dal caldo. Nei due casi, si stava molto male e si sospiurava la sera, il cibo e il riposo. La sera si magiava atorno ai fuochi e se fossero stati presenti gli studiosi americani di dietetica avrebbero fatto con facilità il calcolo delle calorie ingoiate e sempre al di sotto del minimo vitale. In compenso però si mangiavano cose rarissime per gusti e piatti europei. La prima sera venne servito con un po' di "couscous" un piatto di cavallette arrostite; il giorno dopo, alcuni topolini delle sabbie chiamati "gerboise" e per due altre volte pezzetti cotti di un lucertolone chiamato "dobb" molto gustoso e che conteneva - a detta dei Tuareg - ben quaranta medicamenti preziosi. La notte, avvolto in una coperta, vicino alle capanne, guardavo il cielo lungamente prima di addormentarmi. Quale rapporto poteva avere tutto quello scintillio di stelle con quella miseria, in cui ero piovuto; quella infinitezza della materia profusa nel cosmo senza limiti e l'indigenza mortale di quegli uomini? Era il mistero del male, del dolore; il mistero degli uomini che muoiono di fame, che vivono abbrutiti da un lavoro disumano, condannati ad una vita in cui la perpetua angoscia di trovare un po' di pane avvelena la gioia del sogere del sole in ogni giornata. Ma ero troppo stanco per pensare al perché Dio non interveniva, Lui così potente e così buono. Ripiegavo con facilità sugli "dei della terra", sugli uomini che avrebbero potuto aiutarci con tanta facilità. Che costa scrivere una lettera in Italia a tanti amici? Mi avrebbero subito mandato un "buldozer" per scavare la trincea in pochi giorni; mi avrebbero spedito con urgenza almeno dei grossi tubi di cemento per rendere la galleria stabile e sicura onde impedirne i crolli al primo scorrere dell'acqua nell'oued. Ed io restavo lì immobile a guardare le stelle! Era giustificata questa mia inattività o almeno questa mia poco intelligenet attività? A che cosa potevano servire queste mie povere braccia davati a tanto lavoro, questo mio vecchio cuore dinanzi a tanta fatica? Non era meglio cercar dei mezzi e molti?
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È questo il problema che mi son posto sovente, anzi così sovente da diventare una tentazione continua allo slancio della mia stessa vocazione. Basta deflettere per un istante dal clima di fede nel quale cerco di vivere per vedere subito trionfare in me il "buon senso" umano. Il buon senso dlla madre di frère Paul che non riusciva a capire l'inutile sacrificio del figlio sulle piste sahariane, il buon senso mio che cerca di convincermi che sarò più utile alla gente di Taifet portando qui qualche autocarro di materiale; il buon senso degli uomini che credono che coi soldi si può tutto risolvere e che la sofferenza è inutile spreco. Ma c'è il buon senso del Vangelo? O c'è il mistero? Forse che Gesù quando venne su questa terra, Lui, l'Onnipotente, Lui l'Amore, non poteva guarire tutti i malati, sfamare tutti i poveri, lenire tutte le piaghe, risuscitare tutti i morti? Perché non l'ha fatto? Perché ha lasciato il mondo come l'ha trovato, bisognoso, sofferente, ingiusto, cattivo? Ha risuscitato Lazzaro e la figlia di Giairo e il figlio della vedova di Naim è vero, ma solo per provare che non intendeva risuscitare tutti gli altri ed eran molti. Ne ha guariti sì parecchi, ma per lasciarli riammalare alla prima occasione non certo rara per l'uomo sulla terra. No, le cose non sono così chiare come il buon senso umano le vorrebbe, e resta, piaccia o non piaccia, un grande e buio mistero che solo la fede mi può illuminare e illuminare con una luce che non è di questo mondo e che ha bisogno per essere utilizzata di occhi ben avvertiti e penetranti.
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Il mistero è Gesù stesso. Ed è mistero non solo nella sua trascendenza divina, ma anche nel momento in cui si avvicina a noi con la sua Incarnazione. La perfezione di Dio, l'onnipotenza di Dio, l'amore infinito di Dio si sono fatti uomo nel Cristo che "abitò tra noi". Sempre, ma soprattutto in due momenti questo "abitare tra noi" sono veri nella loro sfolgorante bellezza: a Betlemme e sul Calvario. A betlemme Dio diventa l'impotenza assoluta, sul Calvario diventa la sofferenza stessa. Mai Gesù fu così uomo come in quelle due posizioni perché l'impotenza e il dolore sono le più cospique eredità dell'uomo sulla terra come creatura e come peccatore. C'è però una differenza sostanziale tra l'impotenza e la sofferenza dell'uomo e l'impotenza e sofferenza del Cristo: le prime sono d'obbligo, le seconde sono volontarie; le prime nella rivolta, le seconde nell'amore. Gesù si mette accanto all'uomo e gli insegna a vivere l'impotenza ed a sopportare la sofferenza con l'amore, nell'amore. È quindi l'amore la grande finestra aperta sul mistero dell'una e dell'altra eredità dell'uomo, e solo l'amore. Accanto all'uomo immerso nella sua indigenza o soffocato dal suo dolore Gesù passa. Aveva mille modi per aiutarlo, ma sceglie il più duro, il più radicale: imitarlo, mettersi al suo posto, somigliargli il più possibile. "In tutto si fece simile all'uomo meno che nel peccato". Invece, accanto a Giobbe che si guarda le ulcere e piange sul letamaio della vita, gli amici teologi fanno delle discussioni e conversano sui "perché". Arrivano fino a giudicarlo e ad accusarlo: "Se tu soffri, è perché hai peccato" gli dicono, e lasciano il povero uomo nel pianto e con parole amare in bocca: "Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si esclamò: È concepito un uomo"(Giobbe 3, 3). È per questo che, per chi soffre, non basta la teologia. Bisogna fare qualche altra cosa.
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Quando ero partito la prima volta per l'Africa per farmi piccolo fratello di Gesù, avevo vissuto qualche tempo ad Algeri ospite di un vecchio amico. Avevo il cuore in tumulto in quei giorni e il mondo mi appariva sotto una luce nuova, che scaturiva a fiotti da quella intuizione nata nel cuore di colui che ora volevo seguire sulle piste del deserto: Carlo de Foucauld. Vedevo tutto alla rovescia rispetto alla prospettiva dell'europeo, dotato di mezzi e di cultura, desideroso di dare, di fare qualcosa per gli altri. Avrei voluto nascondermi senza portafoglio in tasca e vestito da arabo tra la folla anonima dei mussulmani poveri che brulicavano nelle viuzze della Kasba. Mi ricordo che sul mezzogiorno avevo notato il formarsi di una lunga fila di straccioni accanto al marciapiedi di un caseggiato solido come una fortezza... Ogni povero aveva la gavetta. Vidi aprirsi una porta e comparire una suora tutta bianca con le due grandi cornette bianche, e vicino una enorme marmitta fumante. Era l'ora della distribuzione quotidiana dell'elemosina ed ogni povero partiva con una pagnotta e una minestra calda. Io fissavo quella processione come allucinato e considerando quegli uomini e quelle donne segnate dalla miseria, le lacrime mi scendevano dagli occhi, velando la scena sotto il cielo luminoso della città africana. Cercavo il mio posto in mezzo a tutta quella povertà. Avevo abbandonato la mia patria spinto dal desiderio di svuotarmi per darmi al mio Dio, di cercare tra i poveri il volto crocifisso di Gesù, di fare qualcosa per i miei fratelli più derelitti e disprezzati, per trovare in essi e nell'amore per essi più rapidamente l'unione vitale con l'Eterno. Che cosa dovevo fare dunque? Dovevo anch'io aprire dei dispensari e dare, dare pane e cultura e medicine a quella povera gente? Qual era il mio posto nella grande opera evangelizzatrice della Chiesa? Cercai il posto di colui che mi aveva attirato in Africa, il Padre de Foucauld. Tutto piccolo, tutto umile con la gavetta in mano, lo trovai in fondo alla fila. Sorrideva con discrezione come se volesse scusarsi di essere anche lui lì ad imbrogliare il terreno ed a complicare le cose. Indubbiamente, in quel momento, anche con tutta la mia paura di soffrire, con tutta la mia debolezza a sopportare il peso degli altri, il mio terrore a montare sulla croce, capivo che anche il mio posto era là e che avrei cercato di seguire la turba restando mescolato ad essa. Altri nella Chiesa avrebbe avuto il compito di evangelizzare, costruire, sfamare, predicare: a me il Signore chiedeva di essere povero tra i poveri, operaio tra operai. Sì, soprattutto operaio tra operai, dacché il mondo di oggi non era più il mondo in cerca di elemosina come al tempo di Francesco, ma il mondo in cerca di lavoro e di giustizia. Il mondo verso il quale camminavo era il mondo in cui la povertà è espressa dal proletariato di tutte le razze e di tutti i popoli, per il quale il lavoro è il duro cilizio quotidiano in quanto lavoro non scelto e in più doloroso, sporco e mal retribuito.
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Dopo una settimana trascorsa a Taifet, ripartii per Tamanrasset. Sentivo che non avrei resistito più a lungo a quella fatica ed a quella indigenza. In questo ero più povero io di quei poveri, perché non riuscivo a sopportare ciò che essi sopportavano da sempre. Avevo bisogno di preghiera. Avevo sete di trovarmi solo nel mio eremitaggio dove Gesù era esposto giorno e notte per sfogarmi con Lui, supplicare Lui, perdermi in Lui. Soprattutto volevo chiedergli di farmi più piccolo, più svuotato, più trasparente. E rendermi capace di tornare a Taifet. Sì, tornare a Taifet per vivere gli ultimi anni della mia vita. Avere una capannuccia "come loro", un corredo ridotto ad una stuoia ed una coperta "come loro", sulla sponda di quell'oued, a cui strappare un po' d'acqua con quelle crudeli "fogare" che crollavano continuamente come se ridessero della nostra fatica! Ma "più di loro" avere Gesù nell'Ostia, nascosto nella capanna per adorarlo, impetrarlo, amarlo e attingere da Lui la forza per non ribellarmi, per non maledire, per accettare amando la indigenza di ogni ora. E così, fino al giorno in cui sulla sponda di quell'oued si sarebbe alzata una piccola croce di etel che come sentinella avrebbe vigilato sulla solitudine di quegli uomini in attesa che altri, altri, altri fossero venuti per amarli e aiutarli ad amare.
Carlo Carretto
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