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1.1 L'educazione, evento e compito

Oggi la pedagogia pare un capitolo della filosofia ormai chiuso; il posto un tempo proprio della pedagogia è stato occupato dalle cosiddette “scienze dell'educazione”. Le risorse che vengono a mancare sono di due generi, le prime si riferiscono alla qualità dei discorsi correnti, le seconde riguardano i rapporti pratici.


1.1 L’educazione, evento e compito

da L'autore

del 05 dicembre 2011

1.1. L’educazione, evento e compito

          Del compito di rimuovere i pregiudizi correnti in fatto di educazione ci siamo occupati in questo medesimo corso di teologia pastorale II dell’anno accademico scorso, intitolato L’educazione, processo e atto libero. Richiamo qui in termini sommari la tesi che ho cercato di illustrare e argomentare in quel corso. Essa può essere schematicamente articolata in tre affermazioni fondamentali, strettamente legate l’una all’altra:

(a) La prima affermazione, di carattere teorico, è questa: l’educazione, molto prima di essere un compito che debba essere deliberatamente perseguito, è un processo che si produce spontaneamente, anticipando la consapevolezza e la libertà degli interessati. (b) Anche la seconda affermazione è di carattere teorico e precisa la prima: il processo educativo, che si produce in maniera fondamentalmente spontanea, è reso possibile anzitutto da evidenze che sono dischiuse dal rapporto tra genitori e figli. (c) La terza affermazione si riferisce invece alle condizioni storiche presenti del rapporto educativo, e può essere formulata in prima battuta soltanto in termini molto generici: nell’esperienza civile contemporanea assistiamo a un progressivo e in ogni caso macroscopico impoverimento di quelle risorse, che un tempo consentivano all’educazione di prodursi senza che fosse neppure avvertita in maniera riflessa la necessità di provvedervi.

          Questa terza tesi può essere più analiticamente determinata specificando che le risorse che vengono a mancare sono di due generi, le prime si riferiscono alla qualità dei discorsi correnti, o addirittura delle dottrine intorno all’educazione, e dunque alla sua comprensione riflessa, il secondo genere di risorse è invece quello disposto dai rapporti pratici, che fanno mancare sempre in misura sempre più clamorosa le condizioni propizie alla valenza educativa della vita quotidiana.

         aa) Le risorse di carattere teorico che vengono a mancare sono quelle che dovrebbero essere prestate in linea di principio dalla pedagogia; un tempo esse erano in qualche misura effettivamente prestate da un capitolo della filosofia così chiamato, pedagogia. Il capitolo s’era configurato nel Settecento, come articolazione della filosofia morale. Ha di che sorprendere che la pedagogia sia nata soltanto in epoca moderna, e che sia nata in forme teoriche certo sotto molti profili eccepibili; in ogni caso essa riconosceva l’educazione come un dovere morale; più precisamente, come un debito della generazione adulta nei confronti dei minori; al fondamento del dovere stava l’assunto che la generazione adulta fruisse di una risorsa indiscussa, la conoscenza della verità a proposito della vita; appunto di tale conoscenza era in debito nei confronti delle nuove generazioni.

          Oggi la pedagogia pare un capitolo della filosofia ormai chiuso; il posto un tempo proprio della pedagogia è stato occupato dalle cosiddette “scienze dell’educazione”. Ora, come accade nel caso di tutte le scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia culturale, e simili), anche nel caso delle ibride scienze dell’educazione della realtà umana ci si occupa non nell’ottica della verità (ontologia), né in particolare nell’ottica del bene o della vita buona (morale), e dunque nell’ottica morale (dottrina della vita buona), ma nell’ottica del buon “funzionamento” o della salute; in ogni caso, in un’ottica autoreferenziale. Il sottinteso inespresso è che non siano disponibili criteri di valore per giudicare della condizione umana altri da quelli offerti dal rapporto dell’uomo con se stesso. Non è possibile definire in termini obiettivi una pretesa figura della vita buona; buona è soltanto la vita che soddisfa, che risulta grata a chi la vive. Il criterio del benessere si sostituisce al criterio del bene, o se si vuole determina il criterio del bene.

        In ogni in caso, nella prospettiva propria delle scienze dell’educazione pare pregiudizialmente escluso che l’educazione dei minori – o la cura per la loro crescita, comunque essa debba essere chiamata – debba mettere in questione le persuasioni proprie del soggetto educante, in particolare le sue persuasioni di carattere etico-religioso, o addirittura la stessa qualità morale della sua vita. L’opera dell’adulto è pensata fondamentalmente nella forma del mero catalizzatore di un processo, il quale avrebbe in se stesso la propria norma. Molto meglio che di educatore si deve parlare in tal senso di “animatore”, come di fatto l’uso corrente sempre più spesso fa. Se proprio si deve parlare di “maestro” il modello privilegiato è Socrate, il quale notoriamente protestava di educare mediante la propria ignoranza; educava cioè propiziando l’attivazione di quelle risorse, che il giovane aveva in se stesso per dare risposta agli interrogativi della propria vita. Il genitore invece vive inevitabilmente, quanto meno a livello emotivo, l’esperienza di un coinvolgimento personale nel rapporto col figlio; vive anzi, sia pure spesso in maniera soltanto emotiva, il sentimento di un positivo debito morale nei confronti del figlio. Come precisare il senso di tale debito morale? In primissima battuta si deve rispondere così: ciò che è dovuto non ha la figura di una prestazione di abilità, ma ha la figura di un’immagine di sé; in tal senso, il debito è quello di una testimonianza. “La vita di mio figlio – così possiamo parafrasare il debito – ha bisogno di una verità, che può essere attestata ai suoi occhi soltanto dalla mia stessa vita”.

          bb) Per rapporto alle esigenze dell’educazione vengono a mancare non solo risorse teoriche, ma anche e soprattutto risorse di carattere pratico. Per molti secoli, quando neppure si era ancora costituita la pedagogia come capitolo della filosofia, l’educazione era tuttavia di fatto praticata; soccorrevano una tale pratica risorse offerte non certo da un sapere riflesso a proposito della educazione, ma da una sapere immediato della coscienza. Soccorreva la coscienza assai più della scienza. Accadeva in tal senso per l’educazione quello che accadeva in genere per tutta la vita; il sapere che soprattutto serve alla vita non ha la figura del sapere riflesso, ma quella di un sapere iscritto nelle forme della vita effettiva, così plasmate dai mores. La necessità di un sapere riflesso a proposito dei comportamenti s’impone a misura in cui i mores cessano di istruire in maniera adeguata.

          Oggi ci si interroga a proposito di molte cose che un tempo apparivano del tutto ovvie. Che cosa vuol dire maschio e femmina? che cosa comporta il rapporto tra genitori e figli? che cosa caratterizza – se pure qualche cosa deve caratterizzare – la madre e il padre? come distinguere la figura della fanciullezza da quella dell’adolescenza? e così via. Oggi ci si interroga a proposito di quelle figure antropologiche elementari che un tempo apparivano scontate. L’interrogazione diventa urgente a misura in cui quelle figure di valore cessano d’apparire come definite in maniera proporzionalmente univoca dai mores.

          Possiamo esprimere il nesso appena enunciato appunto nei termini già suggeriti: la necessità di qualche cosa come una scienza – intesa qui genericamente come forma del sapere riflesso e argomentato – s’impone a misura in cui diventa insicuro il sapere della coscienza, intesa appunto come forma del sapere irriflesso.

          Occorre per altro registrare questa circostanza innegabile: il sapere che serve per vivere, e anche quello che serve per educare, non può mai essere separato dalla coscienza; il nuovo sapere riflesso che si rende indispensabile non può dunque esonerarsi dalla necessità di tornare con processo riflessivo sui dati immediati della coscienza. Appunto a questa necessità si sottraggono le cosiddette scienze umane, e in particolare per riferimento al nostro tema le scienze dell’educazione.

Tornando a considerare il processo mediante il quale il figlio diventa cristiano, occorre riconoscere due aspetti qualificanti del rapporto educativo:

che il profilo religioso è assolutamente qualificante per rapporto alla relazione tra genitori e figli, e più precisamente per rapporto all’efficienza educativa che essa realizza;

in tal senso nel caso di figli di genitori credenti l’iniziazione alla fede cristiana assume di necessità la forma di determinazione del messaggio religioso in ogni caso trasmesso dalla relazione parentale.

          Per ciò che si riferisce all’educazione del figlio, non è sufficiente affermare che i genitori hanno il compito più grave, e che per altro lato hanno anche le maggiori opportunità; correggendo un pregiudizio assai diffuso, occorre riconoscere che soltanto attraverso la relazione con i genitori l’educazione trova la sua prima e imprescindibile realizzazione, destinata a rimanere un paradigma per rapporto ad ogni altra figura che l’educazione assumerà in seguito, destinata quindi anche a divenire il referente privilegiato per definire sotto il profilo teorico l’idea stessa di educazione. Quanto all’ordo inventionis, non sta prima l’idea generica di educazione e poi la determinazione del compito dei genitori per rapporto ad essa; c’è invece prima il rapporto tra figli e genitori, e sullo sfondo di esso l’idea di educazione.

          Considerata d’altra parte in questa sua originaria consistenza, l’educazione è un evento denso di un’innegabile densità religiosa. Il senso di tale densità religiosa deve essere precisato; lo possiamo fare esprimendoci in prima battuta così: il figlio trova nella relazione con i genitori per un primo lato la promessa di cui il cammino della sua vita ha indispensabile bisogno, per altro lato l’imperativo che solo gli consente di volere, dunque di credere nel proprio cammino, di legarsi a tutto quello che fa, di credere in genere alla causa della propria vita.

          Tra promessa e imperativo si stabilisce una dialettica, a proposito della quale la tradizione biblica avrebbe molto da dire; purtroppo la teologia ancora molto poco ha messo a frutto l’istruzione che la memoria delle Scritture propone a riguardo della teoria dell’umano. Non è ancora entrata nella consapevolezza diffusa della teologia in particolare questa evidenza elementare: soltanto grazie al carattere promettente del primo cammino della vita, dunque del cammino infantile, compiuto da chi è portato in braccio e non ha ancora conosciuto la necessità di volere per agire, soltanto grazie al carattere promettente di quel cammino dunque diventa possibile conoscere il mondo; e la conoscenza del mondo è dall’origine attraversata da questa domanda: che cosa il mondo vuole da me? è attraversata dunque dall’interrogativo a proposito della legge, o forse a proposito della propria vocazione; in ogni caso, legge e vocazione non possono essere comprese in maniera disgiunta. Non è un caso che la prima forma della coscienza morale sia quella “eteronoma”: bene e male sono rispettivamente quel che fa contenta o scontenta la mamma [4]. La forma “eteronoma” della coscienza non è soltanto una protesi provvisoria per il soggetto mancante dell’uso della ragione; la forma eteronoma annuncia una verità definitiva, la verità addirittura escatologica, della coscienza morale. La coscienza morale nella tradizione occidentale e cristiana s’è di fatto configurata secondo una forma religiosa; essa è la voce di Dio. Proprio in forza di questa sua forma religiosa, la coscienza morale non può essere in alcun modo intesa come la voce della ragione, o della legge; è invece la voce che mi avverte sul come nel mio agire si tratti di me e di Lui. Questa forma della coscienza prende originariamente forma grazie al rapporto parentale.

          Di tale nesso tra figure parentali da un lato, speranza e forma morale del volere d’altro lato, hanno parlato soprattutto psicologi e sociologi; certo essi ne hanno detto in prospettiva non esplicitamente religiosa. E tuttavia essi hanno offerto contributi precisi a proposito del nesso tra figure parentali e speranza, figure parentali e coscienza morale. Per il secondo aspetto molto esplicite sono state già le analisi di Freud sul nesso tra autorità paterna e super Io; per il primo nesso assai significative sono le analisi di Erikson relative al rilievo strategico che il basic trust per rapporto all’interesse per il mondo, rispettivamente per rapporto alla configurazione simbolica del mondo [5]. L’accoglienza materna nei confronti del figlio offre al figlio stesso quello schema di fondo del cosmo, che autorizza la sua successiva esplorazione.

          Le acquisizioni analitiche della ricerca psicologica raggiungono in tal modo evidenze, le quali appaiono sorprendentemente vicine alle intuizioni antropologiche iscritte nella letteratura biblica. Mi riferisco al rilievo cruciale che hanno appunto la promessa e la legge per rapporto alla configurazione della vita del popolo come vita nella forma dell’alleanza con Dio. Il Dio di Israele è appunto un Dio che promette e rispettivamente comanda; la promessa nella sua consistenza più arcaica è quella che dice: “Mi occuperò di te”; il comando d’altra parte è quello di affidarsi appunto alla promessa di Dio per trovare la via della vita. Credere nella promessa e obbedire al comando sono le condizioni per prolungare quel cammino della vita, che inizia in maniera sorprendente e – per così dire – per miracolo. Appunto per rapporto a questi tratti appare sorprendente la similitudine tra il rapporto parentale e il rapporto religioso.

          La prima ragione di similitudine, la più generica per un lato, ma per altro lato anche la più fondamentale, è questa: la vita è avventura che sorprende, se non altro in questo senso: comincia sempre in anticipo rispetto ad una qualsivoglia volontà dell’interessato; e d’altra parte, questa volontà può realizzarsi soltanto a procedere dall’anticipazione di cui si dice. Potremmo schematicamente così interpretare: volere è possibile soltanto a condizione di essere prima voluti. Per rapporto ad una tale formulazione appare assai evidente il valore paradigmatico che la relazione parentale ha per rapporto alla relazione religiosa, dunque alla relazione tra il Creatore e la creatura.

          La vita anzi tutto accade, e solo perché essa accade può essere poi anche voluta. Più precisamente, proprio perché accade, proprio per riferimento al profilo intenzionale di tale accadere, essa addirittura deve essere voluta. Volere significa corrispondere all’intenzione che mi costituisce. Il mio esistere ed agire appare anzi tutto come un evento, e solo poi diventa anche un compito. Appunto la considerazione del primo profilo, indispensabile per definire il compito conseguente, mette in luce la densità di verità religiosa della relazione educativa.

          L’intreccio stretto tra l’educazione che avviene e quella che deve invece essere deliberatamente perseguita come un compito impedisce di intendere l’educazione alla fede cristiana, o rispettivamente l’educazione religiosa in genere, quasi essa fosse soltanto un capitolo, in ogni caso di un momento parziale della relazione educativa; quasi fosse addirittura un capitolo solo eventuale, legato alla scelta dei genitori. Essi possono decidere di far frequentare al figlio religione a scuola, e magari anche religione in Parrocchia, così come possono decidere di non farla frequentare; sotto tale profilo la scuola di religione è come la scuola di inglese, di danza, la piscina, o simili. Ma il rimando a un’origine, all’Autore della vita, e dunque in ultima istanza a Dio stesso, è una forma della relazione parentale che appare ineluttabile; è addirittura la forma sintetica che di necessità assume la relazione tra genitori e figli, che assume dunque l’educazione. In tal senso i genitori si trovano ad essere interpreti dell’origine della vita molto prima di saperlo e di volerlo. L’autorità che essi esercitano nei confronti dei figli, che poi anche scoprono d’esercitare, che divenendo consapevole chiede quindi insieme di divenire responsabile, d’essere confermata dalla qualità complessiva della loro vita – quell’autorità è gravida di una verità della quale essi si renderanno conto soltanto in maniera progressiva, attraverso lo svolgersi nel tempo della relazione con i figli. La responsabilità della loro originaria scelta di generare suppone che essi conoscano questo nesso prima ancora che si realizzi, che quindi anche si dispongano ad assolvere al compito corrispondente; che accettino cioè il compito di rendere ragione del carattere promettente della vita e del mondo intero, e di rendere ragione insieme delle leggi dell’alleanza umana agli occhi dei figli. In tal senso non è possibile separare il compito dell’iniziazione dei figli alla verità religiosa del mondo dal compito dell’educazione umana in genere.

Giuseppe Angelini

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