Per gli atei le voci della cultura cristiana non parlano di Dio, o ne parlano in modo impercettibile. Il mondo occidentale ha prodotto e costruito le sue opere più belle nello spirito della religione.
del 01 gennaio 2002
Per gli atei le voci della cultura cristiana non parlano di Dio, o ne parlano in modo impercettibile. Il mondo occidentale ha prodotto e costruito le sue opere più belle nello spirito della religione. Ciò vale sia per le opere classiche dell’antichità che son sorte tutte quante dal culto del divino, sia per tutte le creazioni originali dei tempi cristiani. Non è ancora dimostrato che dall’irreligione possa nascere una qualche arte di grande valore; Goethe ha detto a Riemer: «Gli uomini sono produttivi in poesia ed arte solo finché sono religiosi; poi diventano semplicemente imitatori e ripetitori; come noi in rapporto all’antichità, i cui monumenti furono tutte opere di fede e possono essere da noi imitati solo per fantasticheria ed in modo fantastico». La Ifigenia di Euripide era il dramma di un’obbedienza quasi insensata verso Dio; la traduzione di Schiller taglia via la conclusione teologica e quindi semplicemente la radice; la elaborazione che Goethe ha tratto dall’argomento è solo più il gioco prudente di una nobile umanità.
Edifici, poesie, composizioni musicali cristiane, progettate per Dio, vogliono parlare di Dio. Se domandiamo che cosa dicano oggi all’osservatore, al lettore, all’ascoltatore, la risposta è questa: in ogni caso non ciò che vogliono dire. ‘Sento bene il messaggio...’, no, egli non lo sente, lo registra, lo fotografa soltanto. Ed allora il cristiano può essere colto da un grande scoraggiamento che lo induce a dubitare dei valori espressivi della storia e lo istiga dovunque al sospetto di ideologia. Non è stato tutto errore? Non siamo come circondati da un’unica mistificazione? Cos’ha da vedere l’elegante basilica romana con il cristianesimo? Essa non è che il mercato coperto e profano appena modificato. E la chiesa romanica, simile ad una fortezza con Gesù inerme? Ed il faustiano assalto al cielo del gotico con il ‘mite ed umile di cuore’? E (se sorvoliamo con confuso silenzio il rinascimento) la magnificenza barocca con la nuda croce? Taluni si rallegrano che dopo d’allora la cristianità abbia perso la voce: meglio nulla che questo. Il cristiano si vergogna del suo passato se lo considera con l’occhio dell’ ‘uomo moderno’. (Non entrano neppur più in questo calcolo le orde che corrono cieche di monumento in monumento attraverso l’Europa: termiti della rovina).
Ma non dovrebbe vergognarsi. Dovrebbe saper distinguere tra la fede e la sua espressione. La fede può essere infinita, quando ama; l’opera è finita. La fede può essere senza tempo; ma l’opera è nel tempo. E l’opera ha in sé un appello ed una rigida esigenza di maggior fede. E quand’anche si trattasse di una santa del barocco rapita in estasi in un umido alzare d’occhi; non ti sei mai abbandonato a Dio in modo che egli abbia potuto prender ti come costei? Tu – che ridacchi in tal modo quando si parla di armonia – hai mai avuto, anche solo a metà, l’anima in cui abbia potuto rispecchiarsi la purezza di Palestrina o di Haydn? Non atteggiarti, o cristiano, ad incredulo stanco, che non vede più nulla, mentre pure ti son dati gli occhi della fede. Non lasciarti sopraffare da estranee ideologie inconsistenti. Trova la libertà di affermare, quando ti è facile negare. Sii libero tra la gioia che indugia e l’apertura a ciò che è nuovo. Appunto perché sei un libero cristiano, che non ha bisogno di aggrapparsi a nulla di terreno, riconosci la libertà dei tuoi fratelli di fede creatori, e dietro ad essi di tutti i devoti e pii che, al pari di te, hanno aderito a Dio, al div
ino. Non lasciarti dare ad intendere che la cristianità antica sia stata estranea al mondo: donde altrimenti avrebbe preso un simile amore per le cose, una simile conoscenza delle loro leggi più segrete, che supera di molto l’amore e la conoscenza dei moderni? Oppure pensi seriamente che le loro piccole costruzioni astratte abbiano più contenuto mondano, siano più fedeli e congeniali (concrete) alla terra delle realizzazioni dei grandi cristiani? Chi conosce più intimamente l’uomo: Villon e Grimmelshausen, oppure i freddi pornografi di oggi? Di questi non ti curare, e non fidarti dei cristiani che vorrebbero darti ad intendere che soltanto qui l’uomo venga scoperto in tutta la sua ‘serietà del peccato’ e senza orpelli pagano-idealistici.[1]
Ma rassegnati anche che nessuno più inforchi i veri occhiali che permettono di vedere. «So soffrire penuria – dice Paolo – e so anche abbondare; in ogni tempo e in tutte le maniere io sono stato iniziato» (Fil. 4, 12). Il cristiano deve saper vedere tramonti attorno a sé, senza che per questo il suo sole scompaia; dev’essere povero con i fratelli (spiritualmente) poveri e tuttavia non deve rinnegare la sua ricchezza, quel la che ha prodotto tutta la ricchezza, che essi hanno venduto e perso per il loro piatto di lenticchie. E certo i tramonti lo avvolgeranno realmente nelle ombre, in ciò che si può chiamare benissimo notte del mondo e tenebre di Dio. Ma gli è vietato di lasciarsi ottenebrare anch’egli per pretesi motivi di compassione. «Figli di Dio senza macchia in mezzo a una generazione perversa e sviata, in seno alla quale voi brillate come luminari nell’universo» (Fil. 2,15).
[1] Ad. es. Hans Eckehard Bahr, Poiesis. Theologische Untersuchung der Kunst (Poiesis. Studio teologico dell’arte), 1961.
Hans Urs Von Balthasar
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