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1. La Passione di Barabba - Prima puntata

La passione di Barabba,


1. La Passione di Barabba - Prima puntata

da Feste dei Giovani

del 02 dicembre 2010

 

  La telefonata che ti cambia la vita

    Proprio quella mattina, verso le 10, Maria decise di fare un bagno: era solita fare una nuotata lunga e distensiva, che la distaccasse anche mentalmente da tutte le preoccupazioni e le incombenze della famiglia.

Io per darle modo di fare una nuotata tranquilla presi il piccolo Rocco, ancora morbosamente legato a lei, e lo portai in acqua con un canottino per distrarlo, mentre Simone faceva le parole crociate col nonno e FrancaMaria giocava con paletta e secchiello, serena sotto l’occhio vigile della nonna.

    Un momento di calma totale, ma apparente; proprio allora infatti il mio telefonino si mise a squillare. Poiché era troppo macchinoso uscire dall’acqua, chiesi a mia madre di rispondere, benché consapevole della sua sempre eccessiva emozione nel gestire le telefonate. La vidi confabulare un po’, gridare, farsi ripetere qualcosa, e poi soddisfatta chiudere il telefono.

«Allora? Chi era?» domandai, curioso.

«Mah! Non ho capito molto bene, era una ragazza straniera, parlava male l’italiano, ha detto che c’è un certo Gibson che ti vuole incontrare per un film!»

«Cosa ha detto di preciso? Mel Gibson?»

«Sì, sì! Proprio lui, per un film!»

    Solo in quel momento mi resi conto che la nostra conversazione, urlata anche a causa della distanza tra noi, era stata ascoltata da tanti dei nostri vicini d’ombrellone, i quali si schernivano tra di loro, con dei sorrisini come per dire: figurati se Gibson dall’America chiama proprio lui.

I geometri hanno amici geometri, le maestre hanno amiche maestre e gli attori, ahimè, hanno amici attori.

“Sarà stato qualche collega attore che per ingannare la canicola estiva gioca a fare gli scherzi telefonici” pensai. Non mi sembrava possibile che accadesse una cosa del genere: nessuno più mi cercava da tempo per proposte di lavoro, Mel Gibson poi!

«Gli ho detto che non potevi rispondere, che stavi facendo il bagnetto al bambino, si sono scusati e hanno detto che richiamano più tardi.» Aggiunse mia madre, aumentando il paradosso della situazione.

«Ma lascia perdere!» le urlai. «Non ha capito che è uno scherzo?»

«Ma no, mi sembrava una brava persona.»

«Sì, sì, per te sono tutte brave persone… lascia perdere! Se richiamano li metto a posto io!»

    Continuai a fare il bagno con Rocco come se niente fosse, ma in testa questo nome – Mel Gibson – mi rimbalzava come la pallina impazzita di un flipper. Certamente si trattava di uno scherzo e magari l’autore si trovava proprio sotto uno dei tanti ombrelloni che affollavano la spiaggia: dovevo essere cauto e non mostrare il fianco. Certo che se invece fosse stato vero, sarebbe stato troppo bello!

Lentamente uscii dall’acqua e affidai Rocco a Maria che, nel frattempo, incuriosita, attirata dal vocio, aveva terminato la nuotata ed era tornata sulla spiaggia per essere partecipe di ciò che stava accadendo. Mi asciugai le mani con cautela e con finta noncuranza mi sedetti vicino alla borsa dive erano riposti gli innumerevoli telefonini della famiglia.

    Passarono venti, interminabili, minuti. All’improvviso il telefono squillò, veloce lo recuperai dal fondo della borsa e controllai il numero: era il prefisso di Roma.

Almeno il buontempone, se di buontempone si trattava, non era lì sulla spiaggia.

Aspettai qualche squillo prima di rispondere, per non dare la sensazione di essere lì ad aspettare: «Pronto!?!».

«Pronto, Pedro?»

«Sì, sono io. Chi parla?» risposi, rasserenato dalla voce femminile dall’altra parte, pensando fiducioso che le donne sono dotate di una profondità d’animo che impedisce loro di perdere tempo con gli scherzi telefonici.

«Sono l’assistente della signora De Curtis, attendi in linea che te la passo.»

    Cinzia De Curtis, che è la nipote di Totò, era – ed è tuttora – la mia agente cinematografica, una persona adorabile, dolce, onesta e innamorata dell’arte; perla rarissima tra i numerosi pescicani – cinici, odiosi e approssimativi – che si possono trovare nel mondo del cinema italiano. Per questo sono in tanti a stimarla e apprezzarla.

Poteva essere lei al telefono prima, ma forse no… Mi struggevo ascoltando le note del Bolero di Ravel che facevano da sottofondo telefonico all’attesa, finché sentii una voce entusiasta che conoscevo bene, era quella delle grandi occasioni.

«Ciao! Come stai? Cos’è ’sta storia che ti neghi a Mel Gibson?»

«Ma no, è che ha risposto mamma… e lo sai mamma com’è con il telefonino, poi se dall’altra parte c’è uno straniero, immagina!»

«Tua madre è troppo forte!» rise argentina. E io non stavo nella pelle.

«Ascolta, mi ha chiamato Shaila Rubin, che è la casting director più amata e stimata dallo show biz americano, dicendomi che Mel Gibson ti vuole incontrare per il prossimo film che deve girare in Italia.»

    Restai senza parole… allora era vero! Cominciai a fare domande a raffica, ero entusiasta. Cinzia era molto riservata, vista la delicatezza del progetto, ma tratteneva a fatica l’entusiasmo.

Io parlavo e camminavo, camminavo e parlavo, cercando involontariamente un posto dove vivere con serena tranquillità quella fantastica telefonata.

Ero un esperto di arti marziali, avevo la faccia da duro: nella mia mente, che galoppava più veloce della mia improvvisa felicità, immaginavo già una sorta di Arma Letale girato in Italia, dove io interpretavo il cattivissimo che combatte con Mel Gibson.

    Era un sogno, l’idea di girare un film d’azione, i miei preferiti, con Mel Gibson, il mio attore preferito… Percepii dal divertito imbarazzo di Cinzia che, come al solito, la mia fantasia era andata troppo veloce, superando la realtà. Lei si schermiva, diceva e non diceva, ma tra noi c’era profonda confidenza e… sapevo come farla parlare!

Alla fine Cinzia mi confessò, tra mille richieste di riservatezza assoluta, che si trattava in realtà di un film sulla vita degli Apostoli, argomento strano che aveva spiazzato tutti gli addetti ai lavori coinvolti nel progetto.

«Mi raccomando non parlarne con nessuno, non tagliarti né barba né capelli, che a breve ti richiamo per fissarti un appuntamento a Roma.»

Chiusi la conversazione salutando felice e rimasi quasi in estasi a godermi questa notizia. Ero troppo eccitato, mi rilassai e mi accorsi che, camminando e camminando, ero finito in un bosco di ulivi centenari, contorti dal vento marino e dagli anni, che si estendeva per chilometri alla periferia del paese.

    Mi sedetti e cominciai a pensare al giardino degli ulivi di cui mi raccontavano al catechismo, pensando che magari fosse un segnale di buon auspicio. Iniziai a camminare con gli occhi socchiusi, come quando si crea un personaggio teatrale, sentendo le ruvide e argentate foglie d’ulivo sotto la pianta dei piedi, provando forse la stessa sensazione che provavano gli Apostoli duemila anni fa. Aumentai la concentrazione e cominciai a vedere le prime sagome e a sentire le prime voci… finché un urlo mi richiamò alla realtà: «Hai quarant’anni, moglie e figli e ancora vai in giro a cercare i nidi dei cardellini, come quando ne avevi dieci, ma proprio non cresci mai!».

Era Gerardo, un amico d’infanzia che, con il garbo tipico dei locali, mi aveva risvegliato dal mio creare. Lui rideva malizioso e mi resi conto che se avessi tentato di negare o di spiegare avrei peggiorato soltanto la mia situazione, così feci un sorrisino da bambino sorpreso con le mani nella marmellata e mi unii a lui per tornare verso la spiaggia.

È stato un bene che mi abbia interrotto, ero talmente eccitato che sarei rimasto delle ore a fantasticare su some sarebbe andato il film e poi, irrimediabilmente, il confronto con la realtà mi avrebbe fatto soffrire.

Tornato in spiaggia, gli occhi della mia famiglia e dei vicini d’ombrellone erano puntati su di me, in attesa di notizie. Maria si fece avanti: «Allora!?!».

«Niente, niente, continuate a fare il bagno.»

«Ma come sei antipatico, vogliamo sapere!» insistette, facendo il broncio.

«Non vi dico niente, era solo uno stupido scherzo, la prima telefonata non c’entrava nulla con la seconda.»

Un sospiro generale, misto di dolore dei miei cari e di piacere dei vicini, con cui ogni giorno litigavo per lo spazio in spiaggia, accolse e sottolineò questa mia ultima affermazione. Mi sedetti, e sfogliando il giornale, iniziai a leggere con finto distacco.. ma che voglia di urlare al mondo intero la grande novità!

 

 

L’attesa snervante

    Passarono i giorni, la barba cresceva veloce, ma mai quanto la mia fantasia: passai in rassegna tutti gli Apostoli, iniziai a pensare a quale avrei potuto meglio interpretare. Intanto il tempo passava, la barba continuava a crescere, come la mia ansia, finché un giorno al telefono Cinzia mi disse che c’erano dei ritardi e che dovevo aspettare: «Goditi il mare, tu che puoi, che al momento opportuno ti chiamo».

Mio figlio Simone aveva nella borsa delle vacanze un libro di catechismo: presi a sfogliarlo avidamente, attento a non farmi scoprire per non dare indizi alla sospettosa famiglia.

Il libro, molto elementare, era arricchito di immagini quasi fumettistiche, tanto era semplice il tratto, ma per me fu un’illuminazione: tra i tanti personaggi – tolti quelli non adatti: le donne, i troppo belli e i troppo brutti – quello identico a me è san Pietro, alto, forte, robusto, sincero, (se si esclude lo sfortunato episodio del canto del gallo), lo si può definire l’Apostolo ideale; in più ama la pesca come me, che sono stato battezzato Pietro, anche se poi la passione per le origini sudamericane di mia madre hanno fatto sì che artisticamente lo cambiassi in Pedro; non ultimo, con la barba che mi stava crescendo, nera e irsuta, eravamo due gocce d’acqua.

Così, lentamente si fece strada nella mia mente l’idea di essere stato scelto per interpretare san Pietro, il fondatore della Chiesa Cattolica. Era tutta la vita che quando mi presentavo dicendo: «Io sono Pietro!» immancabilmente il mio interlocutore rispondeva, in tono ironico «… e su questa pietra fonderò la mia Chiesa!». Questo ruolo mi spettava anche come una sorta di indennizzo per aver sopportato, con serenità, tutto ciò.

    Passavano i giorni, cresceva l’ansia, le aspettative… la barba! E quando quasi mi stavo rassegnando a non essere più chiamato – come spesso accade nel mondo dello spettacolo, dove la parola data spesso non vale nulla – ecco il fatidico squillo e il lampeggiare sul display di «Intermedia», la mia agenzia.

Risposi al volo, dall’altra parte c’era Cinzia: era felice almeno quanto me, aveva incontrato Mel Gibson ed era rimasta affascinata dalla gentilezza e dalla cordialità con cui era stata accolta. Un uomo apparentemente rude e spregiudicato che, in realtà, sapeva essere un gentiluomo. L’appuntamento era per giovedì a mezzogiorno a Roma, non sapeva ancora il luogo preciso dell’incontro e si riservava di comunicarmelo il giorno del mio arrivo.

Il dolore e il terrore per l’11 settembre erano ancora vivi in tutti, soprattutto negli americani, ed era quindi comprensibile quella riservatezza; in più immaginate se si fosse sparsa la voce che una star come Gibson era a Roma per incontrare persone per fare un film in Italia: avrebbe voluto dire provocare un ingorgo da bloccare tutta Roma per almeno tre giorni!

    Era martedì 12 agosto: avevo dunque due giorni per organizzare il viaggio. La zona dove abitavo era servita malissimo dai treni, aerei neanche parlarne, io non guido la macchina e in più la partenza sarebbe stata giovedì 14 agosto, vigilia di Ferragosto, praticamente quando tutta l’Italia si sarebbe fermata… iniziavo già ad agitarmi.

Andai a Sapri, la cittadina vicina che ha un discreto nodo ferroviario, pedalando in fretta nonostante la calura – tre chilometri percorsi in un lampo, la mia vecchia bicicletta che un po’si era lamentata, per poi rendersi conto dell’emergenza e arrancare fedele fino alla stazione – arrivai trafelato ed agitatissimo, in preda a una frenesia che fece subito contrasto con la totale apatia dell’addetto alle informazioni.

L’impiegato, sudato e assonnato, stava appisolato sulla sedia. Sapevo che erano le tre del pomeriggio, ma non potevo aspettare ore più fresche, avevo fretta. Lo richiamai all’attività e lui, a malincuore, si alzò e venne allo sportello; ogni parola gli costava fatica, sembrava in preda a qualche strano sortilegio che gli rallentasse il corpo e la mente. Alla fine, seppure a stento, mi snocciolò una serie di negatività: proprio giovedì ci sarebbe stato uno sciopero generale, poi sarebbe stato Ferragosto, in più in un paese lì in zona si prevedevano dei blocchi a sorpresa della ferrovia per manifestazioni contro una discarica. Avrei potuto partire il pomeriggio tardi con un treno lentissimo, di quelli che fermano in tutte le stazioni, viaggiare tutta la notte, arrivare all’alba a Roma e aspettare almeno dieci ore prima dell’appuntamento, arrivandoci tutto distrutto. E senza neppure la sicurezza di poterci arrivare.

    Rattristato e con la sensazione che tutti complottassero contro di me, mi lasciai andare al classico, ma giustificato, repertorio delle lamentele italiane: «Ma non vi vergognate a lavorare in questo modo? È più facile viaggiare in India che sui treni italiani! Ma vi hanno avvertiti che siamo nel duemila? Se io lavorassi così, perderei tutti i miei rapporti di lavoro».

Al ferroviere, ben protetto da un suicidio vetro blindato, poco importava di quello che stavo dicendo, l’amor proprio l’aveva perso da tempo, per cui se ne andò semplicemente via bofonchiando: «Ma proprio a dieci minuti dalla fine del turno mi doveva capitare uno così?»

Quindi si prese la «Gazzetta dello Sport» e si avviò verso gli spogliatoi, accompagnato da un paio dei miei migliori «Vaffa…!».

Però una buona notizia me l’aveva data: aveva finito il turno e dopo dieci minuti ci sarebbe stato un sostituto. Andai dunque a sedermi al bar di fronte, deciso di aspettare.

    L’aria sotto il pergolato del bar era stranamente fresca, ombra e granita fecero il miracolo e in pochissimo tempo mi rilassai. Terminata la granita, posai il bicchiere sul tavolino e distesi le gambe sereno, iniziando a guardarmi in giro per ingannare l’attesa. Un paio di tavolini più in là notai il ferroviere di prima, anche lui si era preso una granita e ora, cambiato nel volto e nell’animo, si guardava in giro.

I nostri sguardi si incontrarono di colpo come quelli di due duellanti, ma la condizione mentale era diversa. Quello, sereno e appagato, mi disse: «Certo che sei proprio velenoso!».

E io di rimando con molle serenità: «Be’, anche tu non scherzi!».

Quindi, un paio di «vaffa…» reciproci, che ormai avevano quasi la valenza di un saluto, e ognuno per la sua strada.

    Rinfrancato, tornai alla carica e quella volta fui decisamente fortunato, c’era una distinta e attiva signorina che si prodigò al massimo per me: cerca e ricerca col computer, passa ai bollettini interni, poi torna al computer, perfino l’orario degli autobus, ma niente… La sostanza era quella che brutalmente mi aveva prospettato il collega precedente. Il mio viaggio per Roma presentava notevoli rischi.

Mogio mogio me ne tornai a Villamare, deciso a provarle tutte pur di riuscire, a costo di andare a Roma in bicicletta.

    Tornai verso casa. Tutto il paese era avvolto in un silenzio inquietante. Incominciai ad andare avanti e indietro per le vie, con una temperatura di quaranta gradi almeno, cercando una soluzione, magari la fortuna di qualcuno che partisse per Roma… ma chi poteva mai partire a metà agosto, quando erano tutti appena arrivati, e soprattutto, chi si sarebbe messo in viaggio di giovedì?

Quando la calura divenne insopportabile, rientrai nel nostro giardino, riposi la bici e mi feci una doccia rigenerante. Il caldo passò ma il problema restava.

    Sulle antiche e fresche scale di marmo bianco della nostra casa del mare, trovai mio fratello Giacinto, rifugiatosi lì a leggere un libro, per sfuggire alla canicola pomeridiana. Vide la mia espressione un po’stranita e mi chiese cosa stesse succedendo. Fui un po’evasivo: lui è in grande manager e un uomo di successo, lavora tantissimo, non ha un carattere facile e in più fa solo una settimana di ferie all’anno, quindi non credevo che fosse la persona che mi potesse aiutare. Eppure insisteva per sapere. Demotivato, gli feci un riassunto della situazione e lui non ci pensò neanche un secondo:

«Ok, giovedì ti porto io in auto!»

Non credevo alle mie orecchie!

«Ma no, non è giusto, tu hai solo pochi giorni per rilassarti, sono mille chilometri tra andata e ritorno, con un caldo becco e tutto in un giorno! Non ti preoccupare, cercherò un’altra soluzione.»

«Pensi che ci possa essere un’altra soluzione?»

«No, non per il ,momento… è un po’un casino!»

«Va bene, si parte giovedì alle sei, tanto dovevo anche incontrare uno a Roma per lavoro» e chiuse con il tono di chi non accetta repliche.

Io lo sapevo che a Roma non doveva incontrare nessuno, figurarsi un appuntamento di lavoro dei suoi, fissato la vigilia di Ferragosto! Ma lo aveva detto per non mostrare troppo la sua generosità, come se svelando i propri sentimenti avesse palesato anche una sorta di debolezza.

Questo è il marchio della famiglia: austeri e generosi, contorti e spiazzanti, detestabili e adorabili al tempo stesso… “Se non temessi per la mia incolumità, lo abbraccerei… giovedì si va a Roma, Mel Gibson aspettami!”

 

Pedro Sarubbi

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