#1 - Voce di uno che grida nel deserto

Siamo in un’era di sperimentazione di robot socievoli pronti a sostituirsi all’uomo. Durante un Ted, Sherry Turkle, sociologa, psicologa e tecnologa americana, parlando di quanto siamo connessi ma anche di quanto siamo soli, ha affermato che ciascuno di noi vuole fondamentalmente solo essere visto e ascoltato.

#1 - Posso urlare?


 

Rubrica a cura di Laura Giulian

 

Siamo in un’era di sperimentazione di robot socievoli pronti a sostituirsi all’uomo. Durante un Ted, Sherry Turkle, sociologa, psicologa e tecnologa americana, parlando di quanto siamo connessi ma anche di quanto siamo soli, ha affermato che ciascuno di noi vuole fondamentalmente solo essere visto e ascoltato. Ha continuato raccontando di come stiano provando a progettare un modello più avanzato e “umano” della funzione “Siri” dell’iPhone, per renderlo capace di farci sentire ascoltati. Ma davvero una macchina potrà mai sostituirsi all’uomo? Non è forse questo quello che abbiamo sperimentato e che più ci è mancato durante quest’ultimo anno? Le macchine non sostituiscono l’umano e in realtà è l’empatia, la grande assente che recriminano i nostri adolescenti.

 

Li abbiamo già definiti “generazione covid-19”, eppure ci ricordano con il loro grido, quanto il loro sia semplicemente un bisogno di sentirsi capiti, ascoltati, visti, da parte di chi abbia il coraggio di fermarsi e vedere, ascoltare, capire.  

 

Mentre quella donna sperimentava quella falsa empatia ho pensato: “Quel robot non prova empatia. Non sperimenta la morte. Non sa cosa sia la vita.” (S. Turkle)

 

Potrebbe infastidire questo continuo parlare di loro con questi toni. Vero. Potrebbe emergere un profilo troppo vittimistico. Potenzialmente vero anche questo. In realtà questa rubrica consapevolmente vuol cominciare dalla notte, dal buio, dal fondo. Ogni Risurrezione deve passare per l’abisso. Ed è fondamentale per ogni tipo di guarigione e di cammino verso una novità, partire dando un nome proprio a tutto ciò che si vive. Solo giocando a carte scoperte è possibile compiere passi verso nuove direzioni. Anche nella città più bassa sulla terra, ben 250 metri sotto il livello del mare, a quell’uomo cieco, seduto sul ciglio della strada, viene chiesto “Che cosa vuoi che io faccia per te?” È necessario partire dal fondo. E dirlo.

 

Il passo di oggi rivela tutti quei sentimenti, emozioni e pensieri legati alla mancanza. Questo è l’abisso più grande che vivono i nostri adolescenti. Tutti l’hanno manifestato.

 

“ora siamo di nuovo chiusi in casa e mi manca tutto, mi manca persino stare svegli fino a tardi a studiare per la verifica in presenza del giorno dopo.”

 

Forse dimentichiamo la bellezza delle relazioni nate tra i banchi di scuola, quanti amori sbocciati e finiti. Dimentichiamo le prime cotte, l’attesa per la gita di quarta o quinta superiore. I pomeriggi in centro città con gli amici. L’adrenalina per aver fatto “sega” a scuola, i 4 e anche i bigliettini salva debito. I compagni di banco, di merende. I sabati sera. Il tragitto in autobus soli con le proprie cuffiette, l’appuntamento alla fermata del bus con gli amici, la speranza di vedere quella tipa. Non per niente ci si continua a ritrovare dopo anni per le famose “cene di classe”, per continuare a celebrare dei legami nati non certo – o non solo – per le conoscenze di quanti e neutroni, di poeti e filosofi, bensì – o anche – per le relazioni fatte di molta quotidianità, concretezza, scherzi e risate. In presenza. È semplicemente questo quello che ci stanno chiedendo di capire. A loro manca. La fatica più grande della Dad è tutto questo “contorno” assente che per molti è anche il piatto principale e il motore per procedere.

 

È cambiata la vita, lo stile, gli orari, i luoghi, le persone, le routine. Niente feste, niente sabati sera, niente gite, niente sveglia all’alba sperando di arrivare in tempo a trascinare il proprio corpo addormentato sull’autobus, nessuna nuova amicizia, anzi molte si sono frantumate.

 

Questo grido che ci stanno lanciando possiamo mutarlo, far finta di non averlo sentito, snobbarlo, giudicarlo. Oppure possiamo solo considerarli continue vittime. In nessun caso forse faremo il loro bene. Forse un’altra strada c’è. Possiamo ascoltare, compatire – nel senso di soffrire-con – e poi rilanciare, ridare aria ai nostri e loro polmoni, riaprire i loro occhi mostrando anche altre strade di speranza. Già, possiamo renderli protagonisti della loro e nostra storia futura se sapremo mostragli che la strada c’è. E che se anche non ci fosse, beh, basterebbe inventarla. Ma insieme.

 

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