2° capitolo. Infanzia e maggiore età: Francesco di Sales e la sua «grande figlia...

Il sentimento grande della natura nacque certamente in Francesco durante quelle passeggiate: se fosse stato un bimbo di città, non avrebbe amato tanto l'azzurro e la natura. E un'altra cosa nacque: quel gusto straordinario della immagine piccina, domestica, il bisogno di rivelar cose alte dell'anima, e segrete, attraverso simboli umili.

2° capitolo. Infanzia e maggiore età: Francesco di Sales e la sua «grande figlia»

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Il battesimo ebbe luogo nella chiesa parrocchiale di Thorens otto giorni dopo, cioè il 28 agosto, e fu un avvenimento per il villaggio e per la regione: la nobiltà era presente da un raggio di decine di miglia. Poi il bel gruppo piumato si mosse, le signore in corsetto a stecche di ferro e gonnella ampia, i signori in mantello e spadino, ebbero un suntuoso rinfresco nel castello, e sfilarono poi nella camera della signora di Boisy. Un cugino disse: «Questo piccino sarà di Chiesa». I    primi sei anni di Francesco appartennero alla mamma. Si rifugiarono uno nell'altra: uno dei primi discorsi del bambino fu: «Il mio Dio e la mia mamma mi vogliono tanto bene». Francesca trovò in quel suo ometto di tre anni, di quattro anni, una rispondenza straordinaria. Le piaceva di trattenersi sulla terrazza dalla quale, il mondo era tanto bello, pregava, lavorava, leggeva: il piccino giocava vicino a lei. Una e l'altro non chiedevano di più. Il signore di Boisy era spesso assente, aveva le faccende del feudo, aveva incarichi, si moveva, continuava la sua vita ch'era stata, spesso, una lotta. Amava teneramente sua moglie e il bambino, il suo cruccio consisteva nella impossibilità di goderli quanto avrebbe voluto. Nel 1569 ci fu una novità per la famiglia. I due fratelli Luigi e Francesco acquistarono - in comproprietà - il castello di Brens, situato in pieno Chiablese e circondato da campagne calviniste. «Questo castello - scrisse Carlo Augusto di Sales - è considerevole: ha un fossato col fondo a punta, è costruito in forma regolare di quadrato, con difese, buone muraglie, alta torre merlata dalla quale si vede Ginevra e la sua porta di Rive, tanto che è annoverato tra le fortezze. Un vasto, alto, fitto bosco di querce antiche lo protegge dalla tramontana; intorno, sono prati e campi; tutto questo circondato da paludi basse da cui si elevano le vigne in forma di grandi bastioni disegnati dalla natura, tanto che il castello appare da lontano come una cittadella circondata da grandi e alti baluardi». Nel 1570 la novità si completò: Luigi, Janine e i tre figli si trasferirono a Brens, ove li avrebbero raggiunti, per breve tempo, i de Boisy nelle stagioni adatte. Intanto, la solitudine avvolse Francesca e il suo bimbo. Il castello di Sales le parve troppo grande e più isolato di quanto ella si fosse accorta fino allora. Ogni mattina il cappellano celebrava Messa nella cappellina, e marito e moglie de Boisy assistevano, possibilmente, ambedue. Il sacerdote si chiamava Don Déage, era giovane e aveva interrotto - o dovuto interrompere - gli studi. Ora ne sentiva nostalgia. Aveva uno zio illustre, amicissimo dei di Sales, Monsignor Regard Vescovo titolare di Bagnorea, il quale avrebbe potuto aiutare il nipote a riprendere una carriera universitaria: la Provvidenza. Lo aiuterà, come vedremo, in altro modo. Dopo la partenza dei cuginetti, Francesca ebbe timore che il suo bimbo rimanesse troppo solo; disse perciò a Pétremande: «Scegli alcuni bambini del castello, quelli che ti paiono più buoni, e invitali a giocare con Francesco». Poi aggiunse: «Evita i maliziosi». Da allora si vide Pétremande, come una guardiana di agnellini, capeggiare il branchetto e fare il giro della fattoria: fare e rifare, visitare i pollai, le stalle bovine, le anatre nelle grosse pozze d'acqua: si spiegava tutto, si ammirava e commentava e ogni giorno si ricominciava da capo. Più bello era sciorinarsi nell'erba alta dei prati sotto le mura del castello, empirsi gli occhi di blu e di luce. Il sentimento grande della natura nacque certamente in Francesco durante quelle passeggiate: se fosse stato un bimbo di città, non avrebbe amato tanto l'azzurro e la natura. E un'altra cosa nacque: quel gusto straordinario della immagine piccina, domestica, il bisogno di rivelar cose alte dell'anima, e segrete, attraverso simboli umili. Questo bisogno così intimo, così naturale, rimarrà come una nota-base di Francesco scrittore: senza saperlo, Pétremande collaborò validamente. Festa completa quando al gruppo si aggiungevano i tre cugini importanti, per i quali era sempre gran gioia trasferirsi ospiti a Sales; ma intanto, tra i quattro rampolli, quand'erano tra loro, si cominciava a parlare di cose astruse: di alfabeto, di scrivere, per esempio. Quando Francesco aveva quattro o cinque anni, Amé ne aveva dieci o undici, e ragionava di grammatica e di numeri: Francesco era rapito. Luigi con i suoi sette anni, già seguiva e qualche volta teneva testa. Ma quando si entrava nel campo di pregare e voler bene a Gesù e alla Madonna, Francesco, senza saperlo, vivo com'era, e perfino focoso, diventava il capo. Tutto, in lui, rivelava già una tendenza: pregare. Una volta, una marachella: Francesco girellava, solo: si soffermò a guardare gli operai che lavoravano in un campo, si erano levati i giubbotti e li avevano lasciati sull'erba. Ad un occhiello d'un giubbotto Francesco vide qualcosa di bello e di raro: un gancio di chiusura foderato di seta rossa: una meraviglia... Ammirazione schietta: gli piaceva tanto: gli piaceva davvero. Non si fece problemi - oppure, chi sa? fece il proposito di chiederlo, dopo, al legittimo proprietario - sfilò lo spillo magico, lo prese, continuò il suo andare a zonzo. A lavoro finito, l'operaio volle agganciarsi il giubbotto... denunciò, meravigliato, la sparizione. Mulinello di sospetti, li per li, tra uno e l'altro dei compagni di lavoro: per fortuna, qualcuno disse: «C'era Francesco, qui». Ragguagliarono il signor di Boisy il quale chiamò il figlio: «L'hai preso tu?». «Si, l'ho preso io. L'ho qui». Lo tirò fuori, lo fece vedere. Allora il signor di Boisy riunì gli operai e la gente di castello: qualcosa di solenne stava per accadere. Prese il suo bimbetto di cinque anni - l'erede del nome, della casata - e lo frustò di santa ragione. Poi gli disse: «Per questa volta, vi ho trattato con indulgenza: se lo rifaceste, vi farei morire sotto questa frusta». Francesco pianse e strillò con tutta la voce che aveva: prima della frusta, durante la frusta, gli si era spalancata, a un tratto, la coscienza: soffri per il male che aveva fatto, per la paura delle sferzate, per le sferzate, per la vergogna (inaudita). Fu un attimo drammatico. Si macerò, poi, e poi si rasserenò. Dovett'essere quello il capo di accusa numero uno nella sua prima confessione, fra un anno o poco più. Ma quando aveva tempo, il babbo lo prendeva per mano e lo portava a spasso con sé. Bisogna dire che il signor di Boisy traduceva la sua fede schietta di cristiano, in una pratica di comprensione verso i poveri. Era elemosiniere in grande. Nei giorni belli di famiglia, al portone sfilavano cinquantine di più o meno poveri per ricevere grano, legumi, vino, quello che volevano... era corte bandita. E quando, cosi, passeggiando col suo piccino, incontravano un paesano a brandelli, senza zoccoli, il babbo: «Lo vedi, quel poverino? Noi si potrebb'essere come lui, e lui, invece, al posto nostro». Generalmente chiamava il povero e lo invitava a bere il vino buono. Col figlio, insisteva sullo stesso tema: «Se Dio avesse voluto, to, io, saremmo in quel modo li». Era una di quelle verità assodate e conficcate nel profondo, che valeva tutto un sistema sociale. Anche la mamma prendeva per mano il suo piccino, andavano a vedere la mietitura: lei aggiungeva una pennellata: «Vedi, come lavorano, come sudano? Dobbiamo voler molto bene a loro. E poi, c'è un fatto: che se Dio non mandasse la pioggia, il sole, quello che ci vuole, questi poverini, con tutto il loro sudare, non raccoglierebbero nulla». Ecco: il quadretto dei mietitori, a un tratto, era trasumanato. Anche questo, il bimbo lo capiva in pieno. Con la mamma era possibile stare insieme delle ore, specie sulla terrazza, e c'erano momenti misteriosi. La ventenne signora a volte lasciava cadere il gomitolo e i ferri - oppure il libro - alzava gli occhi e sospirava. Attratto, Francesco si avvicinava. Venti anni... un compito arduo, il marito con quasi trent'anni di più e troppo occupato e poi certe ambizioni di lui, da gentiluomo di razza, legittime quanto si voglia, ma non erano l'ideale di lei... Francesca di Boisy mormorò, un giorno: «Dio mio, aiutateci». Il bambino la fissò, pareva che le cercasse l'anima: lei lo prese in braccio, lo strinse a sé: lui le disse, sereno: «Si, mamma, vedrai che Dio ci aiuterà». Quella unione era genuina; per la mamma, era tutto. Sei anni: una prima «maggiore età»

Francesco compi sei anni, età che stuzzicò il vespaio dei progetti. Il signore di Boisy aveva una facoltà di sognare da ventenne: lui, così smagato, disincantato per se stesso, si rianimava, all'avvenire di suo figlio. Ma, bisogna intendersi, senza utopia: egli era uomo solido, di ragione lucida: Francesco era sano, si, ma di costituzione non atletica. Il mestiere delle armi? Avrebbe anche potuto farlo, a forza di esercizi, ma il babbo aveva capito bene: quel bambino aveva una fede, e le armi non le avrebbe usate. Un giorno disse a sua moglie: «In verità, Signora, mi pare che questo bambino sia meno figlio della natura che della grazia: sono persuaso, per un certo presentimento, che Dio ha l'intenzione di farne un grande personaggio, perché la sua saggezza e la sua modestia ispirano a me stesso una gran voglia di diventare uomo di bene, e non so da dove venga questo sentimento». Un elemento piaceva a Francesco al punto che egli si accendeva parlandone: gli studi. Ma quale era la via degli studi? pensava il signor di Boisy. Quanto a lui, aveva fissa nella mente una stella: diciamo meglio, una costellazione. Un gruppo di uomini solenni, togati in manto rosso con qualche coda di ermellino al bavero: i senatori di Savoia, residenti a Chambéry in alto consesso. Dopo il Duca e, se si voglia, il governatore di Savoia - che era un Lussemburgo - Martigues come abbiamo visto - l'autorità era nelle mani loro su tutto ciò che esisteva di qua dai monti. Per l'Oltremonte, per Torino, per «l'Italia», era un'altra cosa, ma di questo Francesco di Boisy se n'interessava ben poco. Ciò che contava, era la Savoia: Savoia, vita! vita! Ebbene: Senatore di Savoia: quel suo figlio pensoso, buono, che ambiva a imparare... Senatore di Savoia! Il problema venne sul tappeto ben presto. Il sire di Boisy cominciò a preparare gli animi per tempo. Quando vedeva la moglie smammolarsi in carezze a quel magnifico bimbo, bello come dipinto dentro i suoi riccioloni biondi e fresco come un angelo, lui rimaneva sostenuto. Probabilmente - rendiamogli giustizia - ne avrebbe avuto una gran voglia anche lui, di patullarselo, ma si asteneva. Quando si parlò di studi, ecco le varie opinioni: la signora di Boisy: «Oh si, studiare è cosa eccellente. Può studiare in casa, lo aiuteremo tutti». Boisy tace, poi scuote lentamente la testa: «Ma certo - ribadisce la mamma - abbiamo la fortuna di Don Déage. Non chiede di meglio che di parlare di studi». «La scuola - sentenzia, serio, il Boisy - è la grande formatrice del carattere». Ma la mamma sostiene i diritti, la necessità della famiglia. Allora il signore di Boisy fa un discorso grave, che è arrivato fino a noi: le dice: «Signora, io disapprovo in voi un po' troppa "mignardise", e che voi la mostriate troppo teneramente a nostro figlio. Io ho verso lui un affetto più solido e gli rivolgo un interesse conforme ai grandi disegni che medito per il suo innalzamento». È un «cicchetto» storico, dal momento che è passato di libro in libro fino a noi. Tuttavia, non disarma la signora de Boisy. La quale è mite, volta agli altri spontaneamente, cortese con i dipendenti, affettuosa con i poveri, e, proprio per sistema, evita d'imporre la propria opinione: ma il caso di cui parliamo è diverso: è unico: ella non concepisce l'allontanamento di un figlio di sei anni, nonostante che ciò sia, in quel tempo, negli usi. Questo è uno dei pochissimi argomenti sui quali ella non è disposta a cancellarsi. D'altra parte, Boisy non la vuole contrariare troppo, e in certi momenti egli stesso si pone la domanda: «E se, davvero, fosse troppo presto?». Ristagno, perciò, e rinvio forzato.

Intanto, accadono due cose inattese: una, la più sorprendente, è che Francesco stesso, per il quale la mamma è tutto, avendo ascoltato le divergenze tra madre e padre, dà ragione a quest'ultimo. È chiaro, la voglia di studiare lo strugge e lui vorrebbe essere già a scuola. Tuttavia, non osa pronunciarsi per timidezza, e soprattutto per non dare dispiacere alla mamma. Ma nella sua mente infantile rimugina, evidentemente, sul mezzo per ottenere che lo facciano studiare. Un giorno si avvicina alla ex-balia e le dice: «Cara e buona Pétremande, ditelo voi ai miei genitori che mi mandino in una scuola, così io studio davvero». La tata lo guarda, sbalordita, e ci pensa un po' su: poi, lo mette alla prova:  «Eh...eh... e tu che cosa mi dai, se ti ottengo questo?». Francesco cerca di smuoverle il cuore: «Io sono piccino e non possiedo nulla». Poi aggiunge: «Però, quando sono grande e padrone di me, vi do ogni anno un abito di lana rossa!». Contemporaneamente ha luogo un fatto, lontano, imprevisto, e decisivo. Arriva al castello di Sales un messaggio dal castello di Brens: Luigi e Janine hanno deciso di mandare tutti tre i loro rampolli alla scuola di La Roche, perché studino seriamente. È un mutar di scenario. Se tutti i bambini della stirpe dei Sales vanno a La Roche, perché non Francesco? Il quale non sarebbe più solo, perché la famiglia - la parte giovane - si ricompone là, in un ambiente che, in fondo, è curato religiosamente: la signora di Boisy comincia a spostarsi sovra un binario diverso. A scioglimento del nodo, Francesco, quando sa che i cugini andranno a La Roche, interrogato dai suoi, risponde con un lampeggio tale negli occhi, che mamma e babbo rimangono trasecolati: lei smarrita, ma, in fondo, più tranquilla, lui, beato, e prende impegno con la moglie che ogni settimana, immancabilmente, andrà a trovare Francesco. Di comune accordo, i due babbi fratelli stabiliscono che i ragazzi siano accompagnati da un precettore particolare, il quale non può essere altro che Don Déage. Per quest'ultimo, la novità somiglia al Paradiso: lui, che ha tanta voglia di studiare, trovarsi finalmente in una scuola ove parlare, con gl'insegnanti, di cultura, di didattica... Trasferirsi a La Roche significa allontanarsi, in fondo, di sei miglia... una galoppata di mezz'ora! Nell'entusiasmo generale la signora di Boisy, se non altro per non stonare con le sue lacrime, sorride anche lei. Che vuol dire se poi le lacrime fanno il comodo loro, e gocciano, e luccicano quando nessuno le vede? In realtà, ella è sicura dell'affetto grande, dominante, per lei del suo bimbo: sono tutti due troppo certi uno dell'altra. E l'atteggiamento di Francesco finisce col fare riflettere i grandi... Quel cosino, circondato dalle carezze, ha un carattere, è un uomo.

Giorgio Papasogli

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