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2. La Passione di Barabba - Seconda puntata

La passione di Barabba,


2. La Passione di Barabba - Seconda puntata

da Feste dei Giovani

del 02 dicembre 2010

 

 L’incontro con Mel Gibson

Giovedì mattina, sveglia alle 4: certo, non si sarebbe partiti così presto, ma chi poteva dormire?

    Tutta la notte avevo sognato quell’incontro che mi aspettava, un misto di Braveheart e Arma Letale 5: avevo immaginato di essere in un albergo romano e all’entrata del grande mito mi bloccavo e non riuscivo a dire una parola, allora lui rivolgendosi alla mia agente diceva: «Cinzia, ma se questo non parla non posso usarlo come attore!». Ne uscivo disperato, allora Giacinto entrava e cominciava a litigare con Gibson, poi scoppiava la rissa che vedeva coinvolti tutti: Mel, Giacinto, Cinzia, mia madre, Danny De Vito, mio figlio Simone e così via, in un turbinio felliniano. Infine avevo gridato: «Lasciatelo stare!» per poi svegliarmi al centro del letto, con Maria che mi dava dei calci perché, agitandomi nel sonno, rischiavo di svegliare i bambini.

Alle 4 comunque mi alzai e andai in cucina per un caffè, poi lavai i denti, provai due o tre combinazioni di vestiti, immaginando quale sarebbe stata la migliore; una volta scelta, riposi tutto in una sacca e mi preparai per il viaggio: un bacio a Maria, uno ai miei figli che dormivano e uscii.

«Pedro…» mi richiamò Maria. «Volevo augurarti tutto il bene possibile per questo provino!» e tornò a dormire.

    Per gli attori è un po’come per gli universitari alla vigilia di un esame o per i pescatori alla mattina, sentirsi fare gli auguri è come anticipare un fallimento: strinsi i denti e sorrisi amaro, pensando: “Non comprenderà mai il mio mondo… ma forse è un bene”.

    Uscii di casa, silenzioso come un gatto, erano ormai le 5 e tutti dormivano. In una mano avevo la borsa da viaggio con cambio, foto e spazzolino, nell’altra avevo le scarpe per non far rumore – abitavamo infatti tutti in un’unica palazzina, io con la mia famiglia in quel sottotetto dove mi rifugiavo da ragazzo e che era poi diventato un’ampia mansarda, i miei genitori e mia sorella Giulia al secondo piano, Giacinto e Stefano con le relative mogli al primo.

Non accesi la luce delle scale, per non disturbare, visto che tutti gli appartamenti avevano le porte a vetri, ma al primo pianerottolo scattò l’interruttore generale e si illuminarono tutte le scale a giorno: era mia madre. Probabilmente aveva vissuto i miei stessi incubi. Con il viso segnato dall’assenza di sonno, era così bella nel suo disordine picassiano – vestaglia, occhi, capelli, camicia da notte, tutto sottosopra. Probabilmente aveva sofferto al buio tutta la notte le mie stesse preoccupazioni, senza avere il coraggio di accendere una luce, per non essere redarguita da mio padre.

«Figlio mio, vieni che ti faccio il caffè.»

«Mamma non ti preoccupare, vado a fare un provino, non vado mica in guerra, torna a dormire.»

«Figlio mio ti prego, andate piano, non correte e chiamate quando arrivate!»

Era quasi una supplica. La rassicurai, anche se sia io sia lei sapevamo quanto Giacinto amasse correre in macchina, la baciai, le accarezzai il capo disordinato, sembrava una bambina spaventata.

«Mamma torna a dormire, per favore!»

«Mi raccomando, non rispondere male a Mel Gibson, sii umile!»

«Va bene, non ti preoccupare.»

Era quasi rientrata in casa, io iniziai a scendere, quando sentii: «Auguri per il provino!».

Non sapevo se ridere o piangere.

Scesi le scale e lentamente mi riabituai al buio. Dovevo aspettare che si alzasse Giacinto per partire, intanto sarei stato un po’fuori, in riva al mare, a godermi l’atmosfera che una volta era la norma, ma da quando c’erano Maria e i bambini era diventata solo un ricordo.

Scesi dunque e… incredibile, ma vero! Giacinto era giù sul portone di casa, con un’ora di anticipo, e dalla cenere del suo maleodorante sigaro, che era caduta per terra, intuii che era lì da un po’.

Vuoi vedere che anche l’arcigno e inflessibile manager quella notte era stato in ansia per me? Come se intuisse il mi pensiero, Giacinto avanzò una serie di giustificazioni: le zanzare, i rumorosi spazzini, i fastidiosi discotecari tiratardi, il caldo, l’indigeribile pizza della sera prima.

«E poi mi sono alzato presto perché in auto non mi avresti lasciato fumare!»

Troppe giustificazioni. Evviva, era preoccupato per me! Partimmo. L’elegante auto di mio fratello, superate le asperità delle prime curve, correva veloce sull’autostrada. Il silenzio era irreale: ci vogliamo bene, ma abbiamo caratteri difficili e opposti e quindi, normalmente, dopo dieci minuti di conversazione puntualmente si litiga. La claustrofobica condizione dell’abitacolo e il desiderio di arrivare ci fecero evitare grandi discussioni, mentre la musica dello stereo riempiva ogni silenzio.

    Arrivammo intorno alle 10  in una Roma assolata e deserta. Eravamo nettamente in anticipo, per cui ci prendemmo un cappuccino, poi, con tutta calma, ci dirigemmo all’appuntamento. Roma sembrava una città fantasma. L’auto elegante – vistosa eccezione nelle strade deserte – e il nostro aspetto mediorientale – soprattutto il mio con barba e capelli incolti, come da ordini della regia – insospettirono una volante della polizia, che annoiata all’inoperosità ci fermò per un controllo.

Inizialmente la situazione era tesa: l’Italia e il mondo intero avevano ancora davanti agli occhi l’orrore dell’11 settembre. Iniziò il controllo dei documenti: «Che strano… un commercialista e un attore assieme!».

«Be’, siamo fratelli» dissi io, guardando il capopattuglia. Lui mi fissava come se stesse visionando un suo archivio fotografico mentale e poi esordì: «Sì! Tu sei quello che vendeva la droga a Raimondo Vianello!».

Gli altri due poliziotti s’irrigidirono e i pochi curiosi, che ingannavano la noia ascoltando con discrezione, ebbero un sobbalzo.

«Sì, ma era una puntata di Casa Vianello!» replicai immediatamente.

«Certo!» riprese il capopattuglia. «Ma quanto mi sono divertito a vedere Raimondo e Sandra che per errore assumevano hashish e poi ballavano sul tavolo, puntata straordinaria!»

    Il clima tornò a essere rilassato, tutti sorrisero, come per uno scampato pericolo, ma poi iniziò l’insopportabile interrogatorio di quando qualcuno ti riconosce come personaggio dello spettacolo: «Ma si guadagna bene?», «Quella attrice ha il seno rifatto?», «Quel tale attore è gay?», «Quel presentatore come mai è scomparso?», «Ma è vero che tizio sta con tizia?», ecc… Ci sottraemmo a fatica a questo fuoco incrociato d’indiscrezioni, facendoci scudo con una serie di «non so», ci salutarono, restituendoci i documenti e apostrofandomi: «Auguri per il suo lavoro!». Strinsi i denti per la terza volta, quasi con la voglia di tornare a casa e non fare il provino, vista la quantità industriale di auguri che avevo ricevuto. Comunque da che eravamo in anticipo cominciavamo quasi ad essere in ritardo, per cui ci affrettammo a raggiungere il luogo dell’appuntamento.

    Via Pompeo Magno 29 era l’indirizzo dove avrei avuto l’incontro con Mel. Si tratta di una splendida cappella sconsacrata, arricchita da affreschi meravigliosi, che in realtà appartiene alla confinante parrocchia ma – cose che accadono solo a Roma, città intrisa di opere d’arte, soprattutto a carattere religioso, che ha fatto l’abitudine alla bellezza e quasi non la nota più – viene affittata per le più svariate occasioni, tra cui l’utilizzo per casting di un certo prestigio.

Un anno e mezzo prima proprio qui avevo incontrato il sette volte premio Oscar John Madden che mi aveva scritturato per interpretare Il mandolino del capitano Corelli con Nicolas Cage e Penelope Cruz. Speravo che questo fosse di buon auspicio.

L’entrata, umida e angusta, avrebbe sconfortato i più: si scendeva per scale ripide verso il ventre fresco della terra, fino a quella che più che una cappella sembrava una cripta, visto che si trovava parecchio sotto il livello del suolo.

Nella spartana sala d’attesa incontrai la casting director per eccellenza, Shaila Rubin, la più amata e ambita dagli attori italiani, la più stimata e conosciuta dai registi hollywoodiani, un vero totem di quel cinema italiano che sogna il grande salto verso gli States.

Mi salutò con un gran sorriso, a cui non è avvezza, segno che John Madden le aveva fatto i complimenti per il mio lavoro oppure, come speravo, che Mel Gibson era veramente interessato a me. Comunque mi rincuorò, mi piaceva il suo stile, senza inutili smancerie, ma improntato alla più ferrea meritocrazia.

    Aspettai. Ma vi ero abituato. L’attore deve aspettare sempre: aspetta una telefonata, aspetta l’applauso, aspetta a lungo i pagamenti, aspetta per ore nei camper quando deve girare una scena di un film, aspetta per anni un casting come quello a cui stavo per partecipare.

Aspettavo e la mia mente andava a mille all’ora, i pensieri si inseguivano alternandosi a fantasie che si sovrapponevano alla realtà, mentre tentavo di controllare il respiro, la sudorazione, l’emozione, cercando di tenere in ordine come prima del decollo di un aereo.

«Sarubbi!» Una voce dal forte accento anglosassone maltrattò ad alta voce il mio cognome. Toccava a me. Mi schiarii la voce, mi segnai con la croce, come facevo da ragazzo prima di tuffarmi da alte e insidiose scogliere, ed entrai.

    La visione era mistica: la cappella, di rara bellezza. Ha un’unica volta concava completamente affrescata con vividi e rilucenti colori, con immagini che arrivano fino al pavimento. Mi aspettavo un sacco di gente, telecamere, luci, fotografi e altro e invece c’era solo un enorme tavolo, ricoperto da foto, schizzi, riproduzioni di quadri a carattere religioso, e dietro, comodamente seduto, c’era lui, Mel Gibson.

    Ero abituato da sempre a lavorare con celebrità. Nei miei tre anni alla Scala di Milano, per esempio, avevo lavorato con stelle della regia, della lirica e del balletto, sempre di livello internazionale: ci stavo gomito a gomito sul palcoscenico, abituandomi a convivere con la loro enorme fama, fino a trasformare tutto in un ricordo di normalità: Zeffirelli, che mi volle per primo alla Scala, poi la Fracci, la magica Alessandra Ferri, Carreras, con le sue malinconie, il simpaticissimo Placido Domingo, che prima della première stringeva la mano a tutti gli artisti rincuorandoli, l’affascinante Katia Ricciarelli, l’inimitabile Nureyev, il grande direttore Loreen Mazel e tante altre stelle con cui avevo lavorato in televisione o sul set da Anthony Hopkins a Susan Sarandon, da John Madden a John Hurt, da Irene Papas ad Annie Girardot. Solo un’altra volta il mio cuore aveva battuto tanto, quando avevo avuto, giovanissimo, una scena da girare con il grandissimo Burt Lancaster, nel film Il sequestro dell’Achille Lauro, con la geniale regia di Alberto Negrin.

Emozionatissimo, mi avvicinai al tavolo e Mel Gibson saltò in piedi, e con un sorriso raggiante, mi accolse sporgendomi la mano. Ricambiai quella stretta di mano, forte e rigorosa come raramente s’incontra.

Rimanemmo in piedi. Lui era un vulcano di proposte e simpatia: parlava a raffica con entusiasmo, mi chiese se avessi mai recitato in latino, io iniziai a declamare dei versi di Cicerone e dove la memoria non mi aiutava improvvisai in latino maccheronico, lui rise divertito. Poi mi chiese se conoscessi l’aramaico e se avessi mai recitato in quella lingua: «Sì un po’al liceo» buttai lì, bluffando.

Lui rise ancora di più per la mia sfrontatezza e mi disse che ero il primo attore che incontrava che avesse recitato in aramaico. Decisi di giocarmi il tutto per tutto e iniziai a declamare una dolce e musicale poesia in siriano, ricordo di un amore siriano che aveva voluto a tutti i costi che io l’imparassi, per recitargliela nell’intimità delle nostri notti a Damasco.

Mel Gibson mi disse che gli piacevo molto, gli ricordavo un suo caro amico, generoso e sbruffone come me, la cosa lo divertiva molto. Pensai: “Speriamo bene”.

Mi fece quindi tantissime domande sulla mia famiglia, la mia passione per la recitazione. I figli, la fede, la mia terra, i miei sport: sembravamo due vecchi amici che, rincontratisi dopo 20 anni, si raccontavano tutto con frenesia.

Il tempo scorreva, ero felice, pensando che se mi teneva dentro tanto voleva dire che gli interessavo.

    Uscii dopo un’ora. Ero entusiasta, mi sentivo già nel film, ma anche se non mi avesse preso avevo passato l’ora più inebriante dei miei ultimi dieci anni. La mia felicità fu subito smorzata dai musi induriti dei colleghi in sala d’attesa, inferociti: tanto tempo dentro voleva dire che avevo avuto successo. «Mors tua, vita mea»: si erano quindi ridotte le loro possibilità, in più avevano dovuto aspettare un’ora per entrare… be’, peggio per loro, quante volte era toccato a me di mordermi il labbro per la delusione!

Uscii in strada e mio fratello era là, immerso in un’afa africana, che cercava ristoro in una mezza bottiglia di acqua minerale, «Il Sole-24 ore» come compagnia. Nessun appuntamento di lavoro, come prevedevo.

«Hai finito, bene, andiamo che se partiamo subito arriviamo a casa per cena… a proposito che ti ha detto?»

«Niente di speciale, ha visto le foto e ha detto che mi farà sapere.»

Per scaramanzia preferii non aggiungere altro – troppe volte avevo gioito di promesse che poi si erano rivelate infondate. Evadendo la legittima curiosità di mio fratello, accesi la radio, inforcai i miei Rayban neri e, sprofondando nel sedile, mentre l’auto partiva sgommando, mi misi anch’io in viaggio con la mia fantasia.

    Al rientro fu un turbine di domande, tutti giustamente volevano sapere, la famiglia è numerosa ed era difficile sfuggire all’assedio. Mi salvò il citofono: era Michele Pellegrino, un amico di infanzia – l’aspetto che era un misto tra Gaber e Richard Gere – eravamo cresciuti assieme con passioni comuni, l’uomo più generoso che io avessi mai incontrato, ma con il dono dell’assenza di tatto.

Quella volta il suo arrivare a sproposito mi salvò: «Scendo a prendere un aperitivo con Michele, tra mezz’ora sono a casa!».

Scesi le scale, felice, riflettendo sul come non farmi scappare niente riguardo alla questione di Gibson. Lui era sulla soglia del portone e sornione mi chiese: «Allora? Che dice Mel? Ti ha chiesto di me?».

Io finsi stupore, presi tempo, tendando di cambiare discorso, quindi lo presi sotto braccio e puntai dritto verso il bar. Fu un incubo: almeno metà delle persone che incontrai sapevano già e fu tutto un «Digli a Mel che se vuole un buon attore ci sono io!», «Invitalo qui a mangiare la pizza!», «Quand’è che lo porti nella mia gelateria, gli hai detto che faccio il miglior gelato del golfo?», «Io sono pronta a sposarlo!»…

Pazzesco! Lo sapevano tutti, era bastato che qualcuno della mia famiglia facesse trapelare qualcosa e ormai era una questione di dominio pubblico. E pensare che Cinzia si era tanto raccomandata!

 

 

Il responso

    Dopo giornate di spasmodica attesa, proprio quando ormai la rassegnazione stava lentamente prendendo il posto della speranza, ecco la fatidica telefonata.

Ero al porto di Sapri, ero arrivato intorno alle 6, per prendere con gli amici i posti migliori per la pesca, ma avevamo sbagliato qualcosa nella scelta dell’esca e dell’attrezzatura, sta di fatto che erano le 10 e ancora di pesce neanche l’ombra. Alle 9 avevo acceso il telefonino nel caso di Maria, svegliandosi, avesse avuto bisogno di me.

    Nell’attesa tipica della pesca, fummo portati a ridere e scherzare, ricordando mille episodi della nostra vita. Io che non mi arrendevo mai ed ero il meno tecnico di loro, sperimentai qualcosa per ingannare il tempo e per non lasciare nulla d’intentato. Era terribile tornare a casa senza pesce: chiunque si sentiva autorizzato a prenderti in giro, al punto che spesso ti veniva voglia, veramente, di fare come i pescatori delle barzellette, che prima di tornare a casa passano dalla pescheria per rifornirsi e contemporaneamente salvare l’onore.

Escogitai dunque di usare un enorme amo trovato in fondo alla cassetta, ricoprendolo con decine di vermi. Un lancio lunghissimo fino a raggiungere il centro del porto e rimasi là ad aspettare, con la mia fantasia, compagna fedele. Ammiravo, sullo specchio cristallino del mare, il fragile navigare del mio esile galleggiante, fragile quanto le mie speranze di successo, eppure accadde l’imprevisto: di colpo, come strappato da un abile e veloce prestigiatore, il galleggiante scomparve sott’acqua.

Il cuore mi saltò in gola, l’adrenalina andò a mille.

Questo è il motivo che muove migliaia di pescatori e li strappa, col sorriso, dal loro comodo giaciglio, a orari assurdi e in situazioni inconcepibili per gli altri, è tutto qui il segreto: la ferrata”, cioè quando il pesce abbocca e inizia l’atavico combattimento tra uomo e natura, cominciato nella preistoria e mai risolto.

     Dopo la prima euforia, la mente tentò di tornare analitica, prima di tutto occorreva capire se si era vittima di uno scherzo di un amico, che per vincere la noia, avesse lanciato la propria lenza sulla tua, per poi agganciarla e, tirando di colpo, simulare l’attacco di un pesce di grossa taglia.

Ma non era così. Tutti erano sinceramente felici ed eccitati. Iniziai a combattere col grosso pesce che, probabilmente, rientrando dai suoi bagordi notturni in alto mare aveva voluto eccedere e con noncuranza si era impossessato di quello che sembrava un boccone troppo invitante per essere lasciato lì.

Tirava forte e cominciai a temere che la mia attrezzatura, molto spartana, potesse cedere. Allora tentai di recuperare prima che l’usura mi tradisse, forzando la mano, ma l’amo ferì la mia preda che manifestò tutto il suo disappunto per il dolore infertole, saltando fuori dall’acqua.

Era una splendida spigola, sarà stata almeno di 5 chili. Lucente e metallica, la regina del mare con il suo comparire aveva fatto arrivare il cuore in gola a tutti i pescatori presenti, che nel frattempo avevano smesso di pescare per seguire assieme, come in un rituale antico, gli sviluppi della cattura.

La canna era diventata un mio prolungamento, potevo sentire fremere la carne della spigola attraverso le vibrazioni che ricevevo, questo valeva mille alzatacce… ma in quel momento magico, che mi rendeva così vicino al vecchio pescatore del celebre romanzo di Hemingway, squillò il cellulare!

Sbuffai, pensando all’inopportunità di Maria – aveva un’abilità nel chiamarmi nei momenti più delicati, come se avesse un radar o un sesto senso: avevo perso treni e autobus per risponderle, aveva fatto scappare lepri e fagiani: poi, solitamente, le rispondevo preoccupato e lei, angelica e disarmante, mi diceva: «Volevo solo dirti che ti amo!». No, questa volta no! Non le avrei permesso di essere complice di quella magnifica spigola che sarebbe stato il mio capolavoro, il mio riscatto morale come pescatore.

«Maurizio! Rispondi tu per favore, tanto sarà Maria.»

E Maurizio mi rispose. Poi mi disse: «Pedro, vieni a sentire, chiamano da Roma, dicono che è una cosa importante».

Ebbi un sussulto, passai la canna nelle mani di un esterrefatto Maurizio e mi lanciai sul telefonino: «Ciao Pedro sono Cinzia ti disturbo?».

«No, figurati, non ti preoccupare, ero qui al sole con gli amici.» Mentii, reputando inutile spiegare a una donna quanto fosse importante il rapporto tra l’uomo e la spigola, soprattutto mentre lei stava in città a lavorare per te, che te ne sti beato al mare a far niente.

«Una grande notizia, Mel ti vuole per il suo film!»

Il cuore mi saltò di nuovo in gola, enorme e prepotente, come se avessi ora ferrato una spigola grande quanto la balena di Pinocchio.

«Meraviglioso! Quando si comincia? Che personaggio devo interpretare? Quanto mi danno? Ci sono possibilità di fare san Pietro?»

«Non so niente, tutto è coperto da una grande riservatezza, unica cosa che posso dirti è di non tagliarti né i capelli né la barba fino a quando si girerà il film!»

Gli amici si divisero tra l’osservare le mie reazioni alla telefonata e l’imperizia di Maurizio, che intuendo la fine della conversazione e volendo porre la sua firma alla preziosa cattura strinse i tempi, tendendo al limite la lenza, mentre io seguivo la scena quasi intuendo, con dolore, il finale.

«Allora Pedro, sei contento? Cos’è questo silenzio?» incalzò Cinzia.

    La spigola in un’enfasi di forza e orgoglio reagì, saltando fuori dall’acqua a pochi metri ormai dal guadino con cui l’avremmo catturata, e con un colpo di coda, sospesa nell’aria, strattonò la lenza, la spezzò e scomparve magicamente tra i flutti che rischiava invece di dover abbandonare. Cinzia era ancora in linea: «Sì, sì, sono contento, contentissimo!» le dissi con una punta di tristezza. Pochi attimi furono però sufficienti a ricredermi: ma sì, che festeggiasse anche la spigola, io avevo il mio film da festeggiare!

Cominciai a ridere. Maurizio preoccupato per quello che aveva combinato e consapevole del mio caratteraccio, non capiva e anche gli altri erano sorpresi dal mio buon umore. Li abbracciai e li baciai dicendo: «Grandi novità! Farò un film con Mel Gibson! Venite che pago da bere a tutti!».

L’allegria divenne comune, richiudemmo le canne intenzionati ad andare al bar a bere per festeggiare; passando davanti a un vecchio pescatore, quello mi disse:

«E la spigola?».

«Fa niente, tanto devo fare un film con Mel Gibson!»

Mi guardò con stupore e malinconia, ebbi l’impressione che credesse che io stessi vaneggiando, traumatizzato per la perdita di un trofeo tanto raro quanto ambito.

     Andai al bar, felice di bere e ridere in compagnia. Il sole cominciava ormai a essere caldo. Comprai anche delle brioches calde per la colazione di Maria e dei bambini, sentendomi un po’in colpa per non essere con lei a festeggiare e soprattutto per aver pensato male di lei quando era squillato il telefono. Così, uscendo  dal bar sul lungomare, fregai una piantina fiorita da un tavolino, per metterla al centro della tavola apparecchiata per la colazione, con i cornetti caldi in un bel piatto al centro, per festeggiare anche con la mia famiglia l’importante novità. Tornai subito indietro, prendendo due cornetti anche per i miei genitori e ripetendo l’operazione “vasetto di primule”: sapevo che anche mia madre avrebbe gradito il pensiero!

 

Pedro Sarubbi

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