Il passaggio dalla meditazione mariana a quella ecclesiale ha luogo nella disposizione del Crocefisso che ha posto sua madre nel centro della Chiesa, che sarà il suo corpo e la sua sposa. Non meraviglierà perciò di ritrovare anche qui la stessa forma unitiva che generò il dialogo tra madre e figlio all'interno dell'unità della sostanza.
del 01 gennaio 2002
Il passaggio dalla meditazione mariana a quella ecclesiale ha luogo nella disposizione del Crocefisso che ha posto sua madre nel centro della Chiesa, che sarà il suo corpo e la sua sposa. Non meraviglierà perciò di ritrovare anche qui la stessa forma unitiva che generò il dialogo tra madre e figlio all'interno dell'unità della sostanza. Naturalmente nella mutata forma che ora non è più il bimbo che vive nella madre, ma il membro nel corpo, che è sia corpo della Chiesa che corpo di Cristo. Infatti sposa e sposo sono «una sola carne».
Non si tratta qui di rappresentare in modo esauriente il rapporto tra i due accessi all'unità - rapporto sponsale e rapporto corporeo nel loro reciproco intreccio, ma si tratta solo di considerare le conseguenze di questo mistero per la meditazione cristiana. In primo luogo si presenta di nuovo la considerazione che la unione Cristo-Chiesa, nella misura in cui vi è riconosciuta una forma conclusiva dell'autorivelazione del Padre, è una «Parola» che si realizza nel silenzio dell'essere-uno-per-l'altro oltre le singole parole. In quanto estrema espressione di Dio il mistero è anche intimissíma interiorizzazione, come già l'unione di uomo e donna non è il luogo del «dialogo» ma di una recíproca espressione totale che nel silenzio parla più chiaramente di ogni singola parola. Riallacciandoci a questa immagine (che è più di un'immagine) può rivelarsi evidente che tra parola e risposta esiste una differenza solo poco più che relativa. Si può invero attribuire all'iniziativa maschile il ruolo della parola e al consenso e disponibilità della donna il ruolo della risposta, ma nell'essere uno-per-l'altro e uno-nell'altro le differenze si annullano. Oppure: se l'atto della procreazione è compreso come parola dell'uomo, allora l'atto del parto sarà proprio una parola esuberante in quanto risposta della donna.
Ora però nell'unità sponsale di Cristo e della Chiesa egli rimane il Dio-uomo e in quanto Parola del Padre rimane in modo totalmente diverso la parola attiva, in grado massimo nella libera spontaneità della sua eucarestia. La Chiesa riceve, come Maria in quanto ancella del Signore, il dono della Parola in «rispettoso timore» (EJ 5,33). E la parola che essa gli dà come risposta è come un'eco della sua parola, certamente un'eco attiva, che la forza della Parola le ha dato di esprimere. Le ha dato cosi che, «fondata» (EJ 5,27) anzitutto dalla Parola, già nella sua risposta è creatura, generata dalla Parola. E questo non solo una prima volta, ma sempre di nuovo, nella misura in cui è «fondata» continuamente attraverso l'eucarestia dello sposo, ma allo stesso modo col tempo ottiene la facoltà di «fondare» lei stessa questa eucarestia. In quanto risposta alla Parola è cosi autorizzata a riesprimere (nel sacrificio eucaristico) la parola stessa in ringraziamento (eucarestia) al Padre.
Qui si compie pienamente ciò che era già presente nell'antica alleanza in modo allusivo; quando per esempio i Salmi sono incorporati nella Bibbia come risposta d'Israele, da Dio stesso assunti come sua ispirata parola. Oppure quando la parola con cui Maria educa il suo bambino e gli insegna a parlare, è risposta alla parola in lei vivente, umanamente parola ancora muta. La Chiesa è sposa attraverso lo sposo che la dota della potestà di una risposta equivalente: la potestà di maturare e partorire la Parola. Naturalmente questo diventa pienamente comprensibile solo quando nella Chiesa ancora una volta si distingue tra l'ufficio autorizzato da Cristo di attualizzarlo efficacemente nella Chiesa e la comunità che accoglie la sua eucarestia e l'assoluzione attraverso l'incarico che lo rappresenta. Ma questo nel nostro contesto non deve significare più di questo: la sposa non si impossessa dello sposo, ma lo ottiene sempre nella forma del dono-di-sé (così come l'ufficio non è preso, ma è donato solo in forza della successione apostolica).
Per lui che medita in quanto membro della Chiesa questo significa: egli è conformato in un corpo in cui lo scambio di dono-accoglienza e restituzione si è già sempre realizzato e si realizza, egli esiste all'interno di questo dialogo più che verbale, veramente sostanziale. Attraverso il suo essere egli ne prende parte già da sempre; in quanto singolo membro deve solo realizzare ciò che tutto il corpo già fa ed è. Ma il corpo non è al di sopra o al di fuori delle sue membra, esso esiste in esse e dipende perciò dal loro agire ecclesialmente responsabile. Il sacramento non basta. Così come presuppone la Parola deve a sua volta sfociare nella Parola, questa volta compresa come consapevolezza di chi ha ricevuto il dono e solo in essa può donare la risposta attesa. P- questo i,] luogo dove il membro della Chiesa deve esplicare il lavoro della meditazione. La risposta fuori dell'ambito della meditazione presuppone il meditare, il rendere presenti a se stesso gli orizzonti della Parola che si dona nell'eucarestia; senza tale lavoro la preghiera-risposta rimarrebbe totalmente inadeguata.
Come esempio si offrirebbe bene la meditazione sulla parola efficace rivolta al membro della Chiesa nei sacramenti. Per esempio la parola dell'assoluzione. In totale esteriorizzazione la si potrebbe comprendere come qualcosa che assomiglia al condono da una multa per infrazione stradale. Molti la comprendono così. Ma non c'è bisogno di un grande sforzo meditativo per scoprire le vere implicazioni di un'assoluzione sacramentale: la morte in croce di Gesù, che ha portato i miei peccati e li ha sepolti nell'inferno il sabato santo. Dietro questo avvenimento la totale e libera donazione del Padre misericordioso, che per amor mio non ha risparmiato il suo Figlio - incomprensibile che egli sembri amare di più il mondo peccatore che il suo eterno Figlio - e ancora in tutto ciò l'azione dello Spirito Santo, che in unione col Padre e il Figlio realizza il miracolo che una colpa, che veramente e definitivamente mi ha separato da Dio - o mi avrebbe - a causa di questo trinitario evento d'amore sia considerata come non esistente. Ci si può forse abituare a un evento come quello raccontato nella parabola del figliol prodigo? Non dovrebbe sconvolgere intimamente ogni persona che se ne rende conto almeno in parte?
In tutti i sacramenti ecclesiali si tratta proprio di questa presa di coscienza; ma abbiamo già detto che anche le parole del Vangelo, anzi di tutto il Nuovo Testamento, hanno in sé qualcosa del carattere sacramentale. Esse non sono semplici lettere dell'alfabeto, ma testimonianza e mediazione di uno spirito e di una azione trinitaria che è rivolta al mondo, alla Chiesa, a ogni singolo credente. E molte parole e azioni di Gesù sono chiaramente elementi che alla fine si integrano in un dono sacramentale: Cana, i numerosi banchetti con peccatori e pubblicani, il pranzo a casa del fariseo con la peccatrice, le parabole conviviali, le moltiplicazioni dei pani (a cui Giovanni riallaccia direttamente la promessa eucaristica), la cena a Betania. Sono tutte azioni di Gesù espresse in parole che sfociano nella suprema parola eucaristica. Parole e azioni sfociano come singole correnti nel mare del sacramento, il cui significato complessivo era però già presente nei singoli elementi confluenti.
A ciò si può legare un'osservazione di importante effetto per la meditazione. Come il sacramento è la convergenza di molte singole parole e azioni, così è anche perfettamente normale che colui che medita secondo la via ecclesiale possa tornare indietro dalla parola generale alle singole parole che la spiegano e la rendono comprensibile, e in ciò possa anche passare dalla meditazione alla preghiera orale. R superstizione neoplatonica che la meditazione rappresenti un «gradino superiore» della preghiera rispetto alla preghiera orale, sia personale e spontanea sia già ecclesialmente formulata. Classificare la preghiera orale a un livello più basso sarebbe una spiritualizzazione anti-incarnatoria. Gesù ci ha insegnato la preghiera orale, a condizione però che noi cerchiamo di penetrare nelle profondità delle parole che egli ha posto sulle nostre labbra, attingendole dalla, propria preghiera. E questo nella Chiesa è tanto più plausibile quanto più la preghiera di una comunità riunita necessariamente deve essere in gran parte una preghiera orale. Soltanto come alternanza a questo pregare comunitariamente può esistere anche qualcosa come un comunitario tacere meditato
E anche questo comunitario tacere meditativo non sarà una ricaduta in semplice preghiera privata di ogni singolo presente, bensì ora meditazione con una dimensione comunitaria, espressamente ecclesiale. Dovremmo infatti «insieme a tutti i santi cercare di misurare larghezza e lunghezza, altezza e profondità» dell'amore di Dio, ciò che non potremmo mai fare come persone isolate (Ef 3,18). Noi consideriamo allora non ciò che è offerto a «me», ma a «noi», lo consideriamo naturalmente in modo personale ma non individualistico, ciò significa: non ultimamente per me ma per tutto il «corpo», di cui io sono un membro. Così ne risulta naturalmente che la meditazione ecclesiale può essere «percorsa» dalla silenziosa preghiera di intercessione, dalla azione di grazie per altri e dalla offerta di se stessi per essi. E tutto ciò avviene senza risolversi in preghiera orale perché l'atto primario rimane, sia nel sacramento che nella meditazione in genere, l'accoglienza, l'ascolto della parola offerta e donata, alle cui divine dimensioni siamo invitati ad aprirci.
In ambito ecclesiale una tale preghiera è espressamente «leiturghia», ossia riverente servizio all'amore divino che si dona a noi e perciò è il contrario di un egoistico volersi appropriare dei tesori disseminati. L'affermazione sulla sobrietà e concretezza mariana ridiventa qui d'attualità: una mescolanza di preghiera e contemplazione liturgica con atteggiamenti di «dinamica di gruppo» o «estatico-carismatici» sarebbe come voler mischiare acqua e fuoco. Ascolto meditativo esige il silenzio di tutti; comune preghiera liturgica esige la disciplinata partecipazione di tutti.La rivalutazione ecclesiale della preghiera orale deve naturalmente essere verificata anche nella meditazione al di fuori del servizio liturgico comunitario. Nella vita ecclesiale c'è una grande dimensione personale, ma nulla di privato. Ogni preghiera si realizza nella comunione dei santi, da essa sostenuta e con essa rivolta a Dio. Quando un cristiano tenta di sondare le profondità di un mistero evangelico, egli sa bene che prima di lui innumerevoli altri lo hanno fatto, che innanzitutto la Chiesa celeste lo fa ora con lui e che essa scruta in profondità che lui con fatica cerca di esplorare. Egli sa perciò che l'invocazione di questa Chiesa santa lo aiuterà infallibilmente a trovare nel campo il tesoro che sta cercando. E quando sa che la comunione dei santi lo aiuta, allora gli viene anche richiamato alla memoria che egli stesso è un membro di questa comunione, che a sua volta deve aiutare gli altri. Egli si sta occupando di un mistero del Signore, ma questo Signore non è un individuo isolato, ma il capo della sua Chiesa. Indugiando presso il suo Signore egli si muove anche sempre nello spazio della sua Chiesa. Le sue parole ed azioni, i suoi miracoli e patimenti evangelici sono tutti stati fatti e realizzati in vista della Chiesa e per lei in vista dell'umanità tutta. E non solo le sue azioni esterne, ma anche i suoi atteggiamenti interiori, anzi tutto il suo essere umano sono presenti per la redenzione di tutti. Insieme con il Cristo personale si trova anche sempre quello comunitario.
Si può meditare anche una volta sola lo svolgersi del dramma eucaristico per riconoscere che a partire dal riunirsi della comunità che avviene nel Signore già presente - la sua presenza per i celebranti diventa sempre più intensa: nella lettura delle sacre Scritture e nella loro spiegazione; nella preparazione dei doni, che avviene come assunzione nel dono del Padre: la presenza reale del Figlio per il quale rendiamo grazie e del quale ripetiamo la preghiera, per entrare infine, comunicandoci, nella pienezza della sua presenza, e infine per lodare con lui e in lui il Padre per questa incomprensibile unione: il culmine della sua paterna autocomunicazione al di là di ogni parola formulabile.
Cosi, proprio nella dimensione ecclesiale della contemplazione, diventa evidente che tutte le parole esprimibili sono circondate da un alone di silenzio, anzi di riservatezza, perché superiore al dicibile, dal quale esse emergono come trasfigurate e insieme controllate e in cui devono essere lasciate, affinché non perdano il loro significato. Esse significano più di quanto dicano. Nello stesso modo in cui diciamo delle parole sacramentali che esse producono ciò che esprimono. E in ciò che è invisibilmente realizzato si trova il centro focale di ciò che è espresso.
In questa caratteristica della rivelazione cristiana non solo è annunciato che Dio è più grande di quanto è contenibile nei limiti di parole formulate o anche di azioni - infatti il triangolo poggiante con la punta a terra è aperto in alto verso l'infinito - ma anche che la Chiesa, alla,quale per prima è rivolta la parola di Dio, non può mai essere contemplata come un'entità chiusa in se stessa, autosufficiente. Il partner e l'interlocutore di Dio è il Inondo e al mondo la Chiesa è inviata come incaricata di Cristo. Essa trascende essenzialmente se stessa, è uno strumento di Dio per tutta la sua umana creazione. Esiste certamente, per un corretto adempimento di questo incarico, l'autoriflessione della Chiesa sul mistero affidatole, in cui essa è intimamente inserita. E non le è neppure permesso di strombettare questo mistero senza discernimento, essa non deve «gettare le perle ai porci», come le indica la drastica affermazione di Gesù. Ma essa ha il suo mandato missionario («insegnate loro ad osservare tutto ciò che vi ho affidato») e la responsabilità di come predica e catechesi devono essere applicate secondo fasi sensatamente ragionate.
Tutto ciò ha il suo riflesso nella strutturazione della meditazione cristiana. Se anche all'inizio essa percorre la via «inferiore» nella profondità misteriosa del mistero uno e trino, per lasciarselo rivelare attraverso la grazia del Dio che si autodona, tuttavia facendo ciò non può dimenticare che questo mistero è destinato all'umanità tutta. Anzi nell'incarnazione, passione e risurrezione di Cristo esso si è già da sempre preoccupato di tutta l'umanità e in essa ha avuto i suoi effetti. L'intimità dell'incontro personale con Cristo non può mai avvenire a scapito della sua intenzione universale. La sua offerta eucaristica vuole abbracciare tutti gli uomini, così come sulla croce ha caricato su di sé la colpa di tutti. Riconoscendo ciò, il meditante presenterà nella sua donazione al Signore anche la propria donazione al mondo.
La contemplazione finale degli Esercizi Spirituali apre le meditazioni sulla vita di Gesù alla contemplazione delle dimensioni cosmiche del progetto divino sul mondo e si pone sempre di nuovo a disposizione di Dio per la sua realizzazione. A fianco dell'offerta «suscipe, Domine» - «accetta ciò che ti offro» - sta l'altra parola «sume»: prendi e consuma tu stesso ciò che io forse non ardisco offrire, ciò che nella mia esistenza individuale non si vuole inserire nella tua universale intenzione. Chi medita, nel prendere coscienza dell'ampiezza della donazione divina, viene catapultato fuori della propria presunta autoesistenza, non in una distruzione del proprio essere personale, ma nel suo perfezionamento, che è conformità - per quanto possibile nella creatura - al puro essere-per-gli altri del mistero trinitario di Dio.
Soltanto così esiste meditazione ecclesiale. Il superamento dei confini sia personali che ecclesiali è parte essenziale di Cristo e della Chiesa. Perciò l'inserimento del mondo nella meditazione non ha in alcun modo il carattere della distrazione, ma fa parte del raccoglimento su ciò che è essenziale: l'intenzionalità di Dio nella sua rivelazione. Ma tale raccoglimento avviene solo quando nella contemplazione cerchiamo di vedere il mondo con gli occhi di Dio. Non come il mondo vede se stesso, e neanche come siamo abituati a vederlo noi deve entrare nella meditazione - questo si che sarebbe vera distrazione - ma come Dio lo vede, sia nella sua lontananza da Dio, in cui esso cerca di fuggire, sia nella vicinanza di Dio, attraverso cui Dio lo raggiunge nell'opera della sua misericordia: nella missione del Figlio. «In lui nel Dio trinitario che spalanca la sua vita d'amore - noi viviamo, ci muoviamo e siamo» (At 17,28). Dal fatto che io contemplo il dono di Dio sempre come suo dono a tutti («ai più piccoli dei miei fratelli») dipende il presupposto che impedisce il sorgere di una spaccatura tra la mia meditazione e il mio lavoro quotidiano nel mondo.
Hans Urs Von Balthasar
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