Il giovane si dirige verso la collinetta dietro casa. Lo fa tutti i giorni, dopo una giornata di studi indefessi, esce e si reca su quello spazio verde che termina a picco sulla valle sottostante...
del 11 gennaio 2019
Il giovane si dirige verso la collinetta dietro casa. Lo fa tutti i giorni, dopo una giornata di studi indefessi, esce e si reca su quello spazio verde che termina a picco sulla valle sottostante...
Il giovane si dirige verso la collinetta dietro casa. Lo fa tutti i giorni, dopo una giornata di studi indefessi, esce e si reca su quello spazio verde che termina a picco sulla valle sottostante. Davanti si apre uno spazio di bellezza intensa, si domina tutta la valle, le piccole montagne all’orizzonte: è infinito mare, verde, azzurro. Il giovane, qualche problema fisico, soprattutto una fastidiosa piccola gobba che lo rende esteticamente bizzarro, si ferma lì fino al tramonto, gode di quella visione, sente l’anima affacciarsi fuori dal suo corpo e vagare, beata, tra le foglie di “quell’ermo colle”. Secondo la tradizione, era il 9 gennaio di 200 anni fa che Giacomo Leopardi, da quassù, scrisse la sua poesia più bella e conosciuta, L’infinito. Per quel giovane che amava così tanto la vita attraverso gli studi, toccare con mano la bellezza del mondo fuori delle mura di casa, era diventato un gesto necessario, immancabile, per riprendere contatto con i suoi desideri più intensi e profondi, con il suo vero Io, nudo davanti al mondo. “I sovrumani silenzi” di quel luogo lo rimettono in contatto con la sua natura più profonda, e la “profondissima quiete” lo rasserena e lo conforta. Sarà solo 7 anni dopo, nel 1826, che la poesia sarà pubblicata all’interno della raccolta Idilli, Leopardi è ormai andato via dall’amata/odiata Recanati. Allora, L’infinito era stata scritta come una sorta di preghiera di fuga, oltre quella siepe che gli impediva la vista, ma la sua anima l’aveva scavalcata, “sedendo e mirando”:
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
La bellezza del mondo incute timore, è una vertigine a cui il piccolo uomo pare non resistere, e davanti a a questo mare il tempo passato, presente e futuro si confondono come un unicum:
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Arrendersi, adagiarsi, in questa bellezza che sola sa pacificare e felicitare il nostro cuore, sentirsi parte di un più grande che ci comprende e ci apre alla vita.
Ancora oggi, due secoli dopo, ogni volta che ci è permesso entrare nel giardino del monte Tabor e ci affacciamo su quel panorama, sentiamo i respiri tenui e vediamo lo sguardo commosso del poeta, seduto per sempre su quella panchina. Perché l’infinito di Leopardi è il nostro infinito.
Paolo Vites
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