Di qui si vede quanto sia precaria l'applicazione della categoria ‚Äòpatto' a questo rapporto. Infatti non può trattarsi di un accordo che Dio e l'uomo stipulano tra di loro ed in cui ognuno pone le sue condizioni incontrandosi poi su una linea di mezzo.
del 01 gennaio 2002
Di qui si vede quanto sia precaria l’applicazione della categoria ‘patto’ a questo rapporto. Infatti non può trattarsi di un accordo che Dio e l’uomo stipulano tra di loro ed in cui ognuno pone le sue condizioni incontrandosi poi su una linea di mezzo. Nella conclusione di questo patto non ci sono, come in altri casi, due partner aventi uguali diritti su un qualche piano, tanto che chiamare l’uomo ‘partner di Dio’ teologicamente è una insulsaggine (ci si immagini: Maria partner dello Spirito santo!). No: ciò che qui appare come un patto, si fonda unicamente su una elezione unilaterale da parte di Dio; questa elezione (che diviene visibile in Abramo) ha come conseguenza una promessa ed un accaparramento, che per l’uomo significa essere ritenuto degno di esperimentare, affermare, credere la grazia di Dio nei suoi confronti, di regolare la propria esistenza su questa verità della grazia. L’elezione personale diviene collettiva al Sinai, e ad essa il popolo deve dire sì: esclusivamente sull’atto gratuito della libera elezione si fonda il permesso di esperimentare liberamente questa elezione e questa dimora di Dio nel popolo: appare nuovamente l’unione di libertà e di obbedienza.
Questa libera risposta a Dio si realizza nel sì di Maria quale ‘Figlia di Sion’ al compimento della grazia del patto nella incarnazione di Dio. Questo sì è realizzazione dell’evento del Sinai e modello di ogni esistenza cristiana nella Chiesa futura. È realizzazione delle tre prime domande del Pater Noster, che allora vengono pienamente esaudite da Dio anche in virtù di questa forma completa. La incondizionatezza e quindi la irrevocabilità di questo sì di Maria dà via libera alla dedizione definitiva, senza riserve e senza garanzie, di Dio al mondo, al di là della quale non ci si può più aspettare da parte di Dio nulla di più definitivo. La debolezza del sì vetero-testamentario aveva costretto Dio a circondare il suo patto di clausole e di minacce; egli personalmente non diverrà infedele, ma lo sarà Israele, che dovrà espiare in modo così terribile il suo tradimento nei confronti dell’eternamente fedele, proprio perché Dio non può recedere dal suo patto. Nel sì definitivo a Dio c’era quindi allora, tra parentesi, un no. Ma «il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che noi... abbiamo tra voi predicato, non fu sì e no; in lui non c’è stato che sì. Tutte le promesse di Dio hanno infatti trovato in lui il loro sì» (2Coro 1,19-20). Questo sì visibile, che con Cristo e con la sua morte redentrice Dio dona al mondo, entra nel sì irrevocabile, che il mondo può appena udire, della ‘ancella del Signore’; e questo sì è fondamento ed essenza della Chiesa neotestamentaria. Chi si unisce in modo vivente a questo sì, è membro vivo del popolo di Dio, e quanto più ampiamente lo può dire, tanto più diviene ecclesiale.
Il sì del popolo di Dio, che risuona in Sion-Maria-Chiesa, è totalmente condizionato e reso possibile non soltanto dalla promessa gratuita di Dio, bensì dalla realizzazione gratuita in Gesù Cristo, uomo-Dio. Egli stesso è l’unità indissolubile del sì di Dio all’uomo e del sì dell’uomo a Dio. Egli è quindi il nuovo ed eterno patto sussistente. E lo è a quel modo che già abbiamo visto: la sua umanità a disposizione della sua divinità in una obbedienza assoluta, per rivelare Dio e per lasciarsi consumare e distruggere fino all’ultimo in questo ufficio: sacerdote e vittima nello stesso tempo.
Il sì assoluto, esente cioè da ogni condizione restrittiva (cosciente od inconscia), di Cristo e della sua madre-sposa Maria-Chiesa è il metro con cui si misura l’essere cristiano del cristiano. È la forma cristiana in cui può entrare colui che vuole porre la sua esistenza sotto questo segno. Una forma assoluta, che non tollera condizioni, che tutto esige, soprattutto dal peccatore (che mette sempre clausole), ed inoltre una forma che, a colui il quale (nella fede) è d’accordo, fa sperimentare dolcemente, ma inesorabilmente e talvolta brutalmente – o non è forse brutale la croce? – le conseguenze inopinate del suo sì. Egli infatti non ha detto sì a un proprio disegno controllabile, bensì ai disegni del Dio che è sempre più grande, disegni che in ogni caso appaiono diversi da come l’uomo li ha immaginati. In questa esperienza del diverso si decide se il suo sì è stato detto a Dio od a se stesso, se è stata obbedienza di fede o speculazione personale, se viene il regno di Dio od il regno dell’uomo.‚Ä®Il vero giudizio, che separa pecore e capri, che mette in luce la fede e l’incredulità, è quindi la croce. Gesù promette a Pietro la croce quando dice: «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai» (Gv. 21,18). Il profeta Agabo predice a Paolo la sua prossima passione prendendo la sua cintura, legandosi con essa mani e piedi e dicendo: «Così dice lo Spirito santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così a Gerusalemme dai Giudei e consegnato in mano ai pagani» (Atti 21,10-11). L’estensione decisiva della volontà umana, ansiosamente preoccupata della autoconservazione, all’ampiezza della volontà divina spensierata ed imprevidente non è opera di azione umana, bensì di passione imposta. Finché agisce l’uomo, non è ancora dimostrato sperimentalmente che nel farlo obbedisca a Dio. Lo dimostra l’obbedienza del dolore. Nulla può sostituire quella ‘esperienza’, questo ‘entrare’ nell’ ampiezza di Dio. Di Cristo stesso è detto che «imparò per le cose patite l’obbedienza» (Eb. 5,8). Tra il sapere e l’imparare c’è quindi nell’uomo una differenza sostanziale, e proprio riguardo alla fede. Perciò la categoria della ‘prova’ (dell’uomo da parte di Dio) appartiene al patrimonio biblico fondamentale. Dio stesso è, per così dire, ‘sicuro’ di un uomo, quando lo ha provato come oro nel fuoco. «Perfetta gioia riputate, fratelli miei, l’imbattervi in prove d’ogni genere» (Giac. 1,2).
Hans Urs Von Balthasar
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