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3. La Passione di Barabba - Terza puntata

La passione di Barabba,


3. La Passione di Barabba - Terza puntata

da Feste dei Giovani

del 02 dicembre 2010

 

L’inizio delle prove

     Ormai era quasi fine novembre, ero rientrato da un pezzo a Milano, la vita era ricominciata con il solito tran-tran quotidiano, mi ero ormai abituato ad aspettare da Roma notizie che non arrivavano mai.

I capelli erano lunghi e fluenti, sempre più scomodi da curare, per me che sono un sbrigativo, ma quello che era proprio imbarazzante era la barba: non l’avevo mai portata così lunga e crespa, e non avevo mai avuto così tanti controlli da parte di polizia e carabinieri da quando ero in quelle condizioni. Non ne potevo più: la barba mi dava fastidio e non la sopportavo più.

Le notizie in merito alla realizzazione del film, che arrivavano da Roma, erano le più diverse: si faceva, non si faceva più, forse si faceva ma in primavera, forse si faceva ma in America. Quello stillicidio mi angosciava e anche se il film fosse saltato, come era già capitato tante volte, io ormai l’avevo detto a tutti… e poi non potevo farmi crescere la barba per tutta la vita: ogni volta che andavo a un provino mi facevano storie per la barba, la gente mi scansava per strada. Non stavo attraversando un bel momento.

     Mi telefonò un giorno Alberto Chollet, un elegante e cortese produttore della televisione svizzera, che mi aveva conosciuto ai tempi dei successi del Teatro Sunil, quando vivevo in Svizzera con Maria Bonzanigo, ballerina attrice e compositrice, e con il di lei compagno Daniele Finzi, estroso attore, clown, scrittore, ma soprattutto geniale regista.

Chollet mi propose di interpretare un ruolo in un serial TV, un simpatico truffatore che si spacciava per manager. Per cui, ovviamente, niente barba!

Lavorare in Svizzera voleva dire essere rispettati come attori e come artisti, non maltrattati come spesso capitava a Roma; non mi sarebbero dispiaciuti un po’di soldi e poi i set svizzeri erano sempre così cordiali e rilassanti.

     Chiamai Roma ma non sapevano ancora niente del film di Mel Gibson, e non mi andava di stressare ancora Cinzia. Vorrà dire che è un segno del destino, che mi devo tagliare la barba” pensai. “Vorrà dire che, finito il lavoro in Svizzera, mi farò ricrescere la barba.”

Arrivai a Lugano, splendido hotel 5 stelle con beauty-farm, due settimane da sogno, tiepide giornate d’inizio autunno trascorse in un elegante maneggio sulle colline vicino Lugano, dove era ambientata la storia, rasato liscio come un bambino e con i capelli sistemati mi godevo la vita dell’attore… che lavora.

Dopo due settimane rientrai a Milano, carico di franchi, cioccolato e spezie che mi sembrava di essere Marco Polo. Ma a me piace così: quando vado in giro per il mondo a lavorare, mi piace spendere un bel po’di quello che guadagno, per comprare regalini per tutti i miei cari; è una cosa che ho imparato dalla generosità di mio padre: tutto per la famiglia e niente per sé.

Neanche avevo messo piede in casa, il sabato pomeriggio di rientro da Lugano, che squillò il telefono. Era Cinzia da Roma che mi diceva: «Finalmente buone notizie, si inizia il film lunedì! Organizzati e parti al più presto, c’è già una camera riservata per te in hotel qui a Roma!».

     Ormai eravamo a dicembre e stavamo per iniziare a girare un film dove quasi tutti avrebbero recitato scalzi o con i soli sandali e sommariamente vestiti, dovendo rappresentare popolazioni del Medioriente. Non so perché, ma una sorta di non amata regola alchemica fa quasi sempre accadere che gli abiti del film siano inadeguati al clima: ho girato tanti film di genere tropicale in pieno inverno e, per contropartita, film ambientati in Russia o periodi invernali, nel mese d’agosto.

Tutto bello, bellissimo, solo che allora, senza barba e capelli, mi sentivo veramente in colpa. Questo è esattamente l’andazzo della vita dell’artista: se non avessi tagliato i capelli, non avrei mai fatto il film; è statistico: potevano passare dieci anni, fino al momento fatidico in cui mi sarei stufato e li avrei tagliati, e un attimo dopo mi avrebbero chiamato; è così, drammaticamente così, o non si lavora o ti chiedono di fare due lavori o tre contemporaneamente in posti diversi e tu sei sempre lì, combattuto e dilaniato dai dubbi come il povero asino di Buridano.

Comunque, carico di aspettative e di entusiasmo, mi misi in viaggio per Roma, partendo la domenica nel primo pomeriggio e arrivando con comodo la sera stessa; l’albergo era confortevole, mi sistemai e poi uscii a mangiare una pizza. Alle dieci ero già a letto, l’indomani sarebbe iniziata una grande avventura.

     Ogni film importante è un’avventura: l’attore si mette in gioco totalmente con la consapevolezza che proprio quel film potrebbe essere quello giusto, quello del successo. Poi l’idea di poter lavorare con una star hollywoodiana come Mel Gibson era talmente eccitante che non riuscii a chiudere occhio tutta la notte.

La mattina alle sette l’autista mi aspettava davanti all’albergo, l’aria frizzante dell’alba mi fece ancora più gustare il caldo accogliente del sedile della berlina che mi accompagnava a Cinecittà, scivolando tra le strade quasi deserte di una Roma ancora assonnata.

Entrare con l’autista a Cinecittà è sempre una grande soddisfazione, che ti permette di sopportare tutte le volte che, quasi clandestino, carico di rabbia e umiltà, l’hai varcata alla ricerca di una scrittura, per poi essere spesso maltrattato e bistrattato.

Mi lasciai alle spalle tutti i cattivi pensieri: volevo essere positivo e vivermi fino in fondo quel sogno che è poter lavorare bene e con una grande produzione che non dovrà lesinare su tutto a discapito della qualità della vita sul set e di conseguenza del prodotto finale.

      All’arrivo venni preso in consegna da una giovane e carina assistente di produzione che si occupava di me totalmente. Mi accompagnò da Mel Gibson; entrato nel suo ufficio, la sua cordialità fu coinvolgente, era felice di vedermi, aveva un entusiasmo bello e raro negli occhi, come quello del pittore che riceve degli splendidi colori con cui realizzerà il suo quadro.

Questo è quello che manca tante volte nel nostro lavoro: l’amore e il rispetto per gli attori da parte di chi li sceglie. Quante volte sono stato umiliato da organizzatori che mi dicevano: «Deciditi ad accettare queste condizioni perché di attori come te ne trovo mille pronti a sostituirti!»

Mi sentivo amato e accolto, questo era assolutamente nuovo per me, non ero abituato. Mel mi sorrise, mi diede il benvenuto e poi raggiante mi disse: «Tu sarai il mio Barabba!».

“Come Barabba?” pensai dento di me, Barabba era un assassino spregevole, scelto da Pilato per essere sicuro che il popolo salvasse Gesù, pur di mandare a morte il truce peccatore Barabba; poi mi ricordavo che al catechismo della prima comunione era talmente breve la storia di Barabba che don Luigi, tanti anni fa, ci aveva raccontato anche una parabola, tanto per arrivare al termine dell’incontro.

Personaggio breve voleva dire essere poco visti e soprattutto poco pagati; il mio disappunto era talmente evidente che Mel Gibson percepì qualcosa e mi chiese preoccupato: «C’è qualcosa che non va?».

     Io sono stato sempre sincero e istintivo, e ho sempre pagato di persona per la mia istintività. Mio nonno mi diceva sempre: «Meglio una volta rossi, per l’emozione, che cento volte gialli, per la rabbia!». Per cui, quasi senza pensarci, con un broncio, come un bambino a cui hanno tolto il gioco preferito, dissi a Mel Gibson: «Scusa Mel, ma proprio Barabba devo fare? A me Barabba non piace! Io avrei preferito fare san Pietro, mi chiamo anche Pietro e sono pure un pescatore!!»

Mel Gibson restò allibito, mi guardò quasi non volesse credere alle parole che aveva ascoltato: cominciai a pensare di averla fatta grossa.

Purtroppo non ero nuovo a combinar guai, con questa lingua che non riesco a tenere mai a freno: se avessi perso questo film Cinzia non me lo avrebbe perdonato mai e tutti quelli che mi conoscono mi avrebbero sfottuto a vita.

     Mel mi studiò serissimo per lunghissimi attimi e poi si mise a ridere di gusto: «Sei troppo buffo, per un attimo ti avrei creduto! No, tu sarai un perfetto Barabba, san Pietro lo conoscerai oggi pomeriggio alla prima prova di lettura del testo».

Mi congedò gentilmente, con ancora negli occhi l’allegria per quello che, fortunatamente, aveva inteso come uno scherzo o come la stravaganza di un artista.

Fuori dalla porta ritrovai la gentile signorina che mi riprese in consegna. Prima tappa al trucco. La truccatrice e la parrucchiera erano inorridite: «Ma non ti hanno detto che dovevi farti crescere capelli e barba per due mesi, più che il nostro film sembra che devi fare la prima comunione!».

«Sì, ma ho avuto un altro lavoro a cui ero legato da contratto precedente… non potevo esimermi da…»

     Nessuno mi ascoltava, stavano già discutendo la soluzione, che sarebbe stata purtroppo l’incollarmi, pelo per pelo, la barba fatta di capelli veri, lavoro lungo e sfinente che avrebbe dovuto essere ripetuto per tutti i giorni della lavorazione del film; per la testa mi avrebbero replicato le extension, oltre a trucchi vari, perché era previsto che Barabba avesse la psoriasi, i denti marci, la rogna, fosse cieco da un occhio, avesse una cicatrice che gli attraversa tutta la guancia destra e l’alopecia.

“Andiamo bene, sarò proprio carino! E vedendo il film mi riconosceranno tutti con facilità!” pensai preoccupato. Provai a proporre alternative, ma era come se fossi chiuso in un acquario, nessuno sentiva la mia voce.

Secondo appuntamento: i costumi. Il costumista era italiano, uno specialista dei cosiddetti “film in costume” avevo già fatto due film con lui, ma manco si ricordava chi fossi…

Mi ripeto dentro: “Fa nient’, lassa sta’!”, come mi aveva insegnato don Rino, il parroco di Capriano, un piccolo paesino della Brianza vicino casa mia, una persona così preziosa che il buon Dio lo aveva chiamato, con largo anticipo, al Suo cospetto.

Mi misurava come se fossi un oggetto, una poltrona da ricoprire; provai un paio di volte a intavolare un discorso, ma non era aria, per cui decisi per un dignitoso silenzio: se volevano sentire la mia voce avrebbero dovuto farmi delle domande, altrimenti niente.

Il sorriso della mia gentile accompagnatrice mi rimase in pace col mondo: «Desidera un caffè? Se vuole l’accompagno il camerino e le porto il pranzo là, poi vengo alle 14.15 per accompagnarla alle prove».

«Perfetto, la seguo». Un po’di coccole: era quello che ci voleva!

     Il camerino era piccolo ma confortevole. Poco dopo arrivò il mio angelo custode, che nel frattempo avevo scoperto chiamarsi Patricia; aveva con sé il cosiddetto “cestino”, cioè il pranzo in scatola tipico del cinema, una cosa molto carina che dà sempre un’aria d’allegria, tipo gita scolastica, con tanti piccoli contenitori che ti permettono di soddisfare anche un po’il gusto della sorpresa.

Quindi Patricia mi lasciò solo, dopo avermi dato appuntamento per le 14.15. Mi lavai le mani e iniziai a mangiare di gusto: tutto era caldo e squisito, c’erano persino il dolce e il caffè, l’ambiente era caldo e silenzioso e io iniziavo a rilassarmi e a pensare a come sarebbe stato il film.

     All’improvviso bussarono alla porta: era Mel Gibson. Restai stupito della sua visita: raccontò perché voleva fare questo film, e soprattutto che voleva farlo con me. Aveva capito che non ero contento del ruolo di Barabba e mi offrì di fare san Pietro. Io mi feci un po’pregare ma lui insisteva, dicendomi che potevo chiedergli qualsiasi cifra e poi impegnandosi a portarmi con lui a Hollywood, dopo il film, per girarne uno insieme. Tutto era veramente emozionante, ero troppo felice. E Mel insisteva a gran voce: «Dai Pedro, firma! Pedro! Pedro!».

«Pedro! Mi scusi se ho gridato, ma mi sono spaventata… è un po’che busso, la porta era chiusa dall’interno e lei non rispondeva…»

«Nessun problema, scusami tu… anzi, ti dispiace se ci diamo del tu? Mi devo essere addormentato e stavo anche sognando.»

«Ok per il tu! Mi dispiace se ti ho interrotto un bel sogno… di che si trattava? Se si può dire…»

«Oh, niente! Il solito stupido sogno da attore… Andiamo pure.»

 

 

Barabba, perché proprio io?

      La riunione si teneva nella Sala Riunioni del mitico Istituto Luce, costruito durante il Ventennio da Mussolini che ben aveva intuito il potere politico e comunicativo delle immagini in genere e del cinema nello specifico.

C’erano marmi e opere d’arte un po’ovunque, il sapore neoclassico era evidenziato da enormi mosaici di ispirazione romana, che arricchivano pareti e pavimenti. Provai una certa emozione a entrare nella sala principale, immaginando quante grandi decisioni fossero state prese, quanto cinema, da sempre, si fosse deciso lì.

Al centro della sala rettangolare c’era un enorme tavolo ellissoidale, circondato da almeno quaranta poltroncine; uno dei lati lunghi della sala era quasi completamente composto da finestre, mentre sui due lati più corti erano disposti due enormi divani in pelle che pure – pensai – avrebbero avuto molto da raccontare.

Sull’altra parete, troneggiava un grande mosaico in tessere di marmo e, sotto, un lunghissimo tavolo ricoperto di ogni genere di conforto: verdure crude, frutta, succhi e bevande varie, poi biscotti, pasticcini, thermos di tè e caffè, cioccolata e caramelle balsamiche.

     C’erano già alcuni attori, parlottavano fitto e spesso ridevano, con la serenità spensierata di chi ha un lavoro; qualcuno lo conoscevo, altri li avevo conosciuti durante le prove tecniche del mattino, man mano ne arrivavano altri, c’era gente dei Paesi più diversi: quella vociante e allegra Babele era il vero popolo del cinema!

Nel mezzo del salone, Michela, la giovane e talentuosa assistente di Shaila, faceva da padrona di casa, presentando tutti.

In breve la sala si riempì e alle 14.30 precise comparve Mel, sorridente e magnetico; salutati tutti con entusiasmo, esordì: «Va tutto bene? È tutto di vostro gradimento? Avete bevuto tutti il caffè? Allora sedetevi che iniziamo!»

     Entrò un assistente con un carrellino e distribuì un copione e una penna per ogni attore. Io amo personalizzare il mio copione, è uno strumento di lavoro che rispetto tantissimo e mi piace farlo diventare molto mio. Così scrissi la data d’inizio, il mio nome, il personaggio e, approfittando di qualcuno che si attardava ancora a sedersi, mi avvicinai a Michela e le chiesi: «Io sono vent’anni che faccio l’attore e non ho mai chiesto l’autografo a nessuno, però mi piacerebbe che Gibson firmasse il mio copione, secondo te è sconveniente chiederlo?»

«Più che altro è inutile, vedi il copione non è definitivo e in più, essendo un film così particolare, il copione è top-secret, per cui alla fine della lettura verrà ritirato.»

Tornai a sedermi un po’deluso, comunque più avanti nella lavorazione non sarebbe mancata l’occasione, magari sul copione definitivo… C’era un attore con lunghissimi capelli neri e barba tanto folta che appena se ne intuivano i lineamenti. Mi fece un cenno, invitandomi a sedermi al suo fianco: «Ciao, sono Pedro Sarubbi» gli dissi sorridendo.

«Oh! So’Luca, Luca Lionello!»

«Ciao Luca, perdonami, ma conciato così proprio non ti avevo riconosciuto, che piacere rivederti e lavorare assieme!»

«È un piacere anche per me, tu che personaggio fai?»

E io un po’titubante, quasi giustificandomi: «Io faccio Barabba».

«Caspita! Bello, che figata!»

«Sì, insomma… e tu?»

«Io farò Giuda.»

«Porca miseria! E dici bello a me? Ma Giuda è un personaggio bellissimo, ci sta un sacco di tempo nel film e c’è da fare un sacco di soldi!»

Comunque mi rincuorai un pochino, Luca è veramente una bella persona, gentile, onesta e umile: se aveva detto che Barabba era un bel ruolo gli potevo credere e quindi iniziai a riesaminare la questione.

     Intanto si erano seduti tutti e Mel Gibson aveva iniziato la presentazione del suo staff, tutto ovviamente in inglese e per me era un po’difficile seguire; inoltre, mi sentivo in colpa perché quasi tutti avevano creduto nel film e avevano lunghe barbe e folte chiome, e io mi ritrovavo a invidiare le loro ispidità, ma soprattutto la loro ferma determinazione nell’aver Sputo attendere la convocazione per il film.

Il testo del copione era in aramaico e in latino, con la traduzione anche in inglese. Si iniziava a leggere dalla prima pagina, ognuno leggeva il suo, quando qualche attore mancava il suo ruolo era letto da una assistente alla regia.

     Avrei voluto voglia di scorrere velocemente le pagine fino ad arrivare al mio ruolo, ma mi trattenni, sforzandomi di capire il più possibile come sarebbe stato il film; aspettavo con ansia la mia scena, la scena di Barabba, con la stessa apprensione di un padre in sala parto che aspetta di vedere la bellezza del figlio che nascerà, con una sottile angoscia che il nascituro possa venire alla luce con dei problemi.

Finalmente arrivammo alla pagina dove entrava in azione Barabba, lessi velocemente tutto quello che c’era scritto alla ricerca della fonetica delle mie battute, in modo da essere pronto, per quando fosse toccato a me leggere, a trovare la migliore intonazione, per dare subito una buona impressione a tutti.

Per quanto cercassi, le mie battute non le trovavo, leggevo e rileggevo tutto, ma niente, pagina 69, 70 e 71, niente, il copione era scritto su tutti e due i lati delle pagine, scritto in aramaico, latino, inglese e italiano, c’era la versione letterale e quella fonetica, cioè con l’esatta pronuncia, ma di battute di Barabba neanche l’ombra.

     Barabba era descritto come «un grosso uomo incatenato, dall’aspetto animale, piuttosto che umano», tre pagine fitte di indicazioni, tensione, colpi di scena, il fine duello psicologico tra Caifa e Pilato, ma di battute neanche una.

Dolorosamente attesi la fine della lettura di tutto il copione, poi Mel Gibson tirò un po’le somme, analizzando le varie osservazioni, dando qualche spiegazione e comunicandoci che per quel giorno le prove erano finite. Tutti quindi si alzarono in piedi e cominciarono a bere e a mangiare al tavolo del buffet che c’era in sala, mentre l’assistente diligentemente passava col suo carrellino a ritirare i copioni, come mi avevano anticipato, e gli attori si riunivano a capannelli a discutere, in un clima quasi di festa.

     Solo io mi aggiravo con la tempesta nel cuore, il dolore dell’amante tradito. Decisi di prendere il coraggio a due mani e affrontare Mel Gibson; sereno, con una tazza di caffè in mano, Mel era circondato da un gruppo di attori infatuati dal suo carisma; aspettai il momento giusto e appena si diradò un po’la platea, con la sfrontatezza che veniva dal dolore e gli dissi: «Mel, avrei bisogno di parlarti, è una cosa importante!».

Lui intuì dalla mia faccia triste che c’era qualcosa che non andava e, con la scusa di prendere altro caffè, mi portò in un angolo tranquillo della sala.

«Vedi Mel, io sono felice che tu abbia scelto per il tuo film e ti ringrazio di questa opportunità artistica che mi stai dando, ti prego di credermi, quello che sto per dirti non è una polemica, ma è un’emozione mossa dall’amore che ho per il lavoro dell’attore e tu, che sei prima di tutto un attore, mi potrai capire.»

     Continuavo a parlare, a fare premesse, non volevo che se ne avesse a male, ma ero deciso a giocarmi il tutto per tutto, come avevo sempre fatto nella mia vita, poiché quelle poche volte che ero stato accondiscendente mi ero poi pentito ancora di più. Lui mi guardava e aspettava qualcosa di più concreto.

«Perché Barabba non ha battute? Non mi piace senza battute, non potrebbe dire qualcosa, magari a Pilato o a Caifa?»

«Barabba non ha battute e non può averne!»

«Vedi Mel, io sono un buon attore, non una star, ma uno stimato attore: non contesto le tue idee o la regia, ma non me la sento di fare un Barabba senza neanche una battuta, lo sai bene quanto sono importanti per noi attori le battute!»

     In quel momento mi tremavano i polsi, mentre parlavo intuivo che stavo per perdere una occasione importante della mia vita – ne avevo già perse tante per inseguire principi e valori – e che forse mi stavo infilando in un casino da solo.

Mel si fece serio, mi mise la mano sulla spalla e guardandomi fisso negli occhi mi disse: «Barabba non parla perché non ha più parole, ha urlato tutto il suo fiato, per l’ingiustizia subita; Barabba non è solo un ladrone, ma è un nobile discendente della tribù degli Zeloti, l’unica tribù che aveva la forza di opporsi all’impero romano e proprio battendosi contro i romani è stato fatto prigioniero e torturato fino a trasformarsi in una bestia e come le bestie non ha parole, ma esprime tutto con gli occhi: per questo ti ho scelto per fare il mio Barabba. Dovrai apparire come una belva, ma in fondo ai tuoi occhi ci deve essere lo sguardo di un uomo onesto».

     Come si faceva a ribattere a un uomo così importante che si stava impegnando a spiegarti una cosa così profonda a cui non sarebbe stato obbligato, che si poneva nei tuoi confronti come un padre paziente, pronto a comprendere e perdonare l’irrequieto figlio? Mi sentivo un po’stupido, avevo fatto la figura dell’attore viziato che vuol fare la prima donna, e ora, dopo le sue parole, ero confuso.

Mel intuì il mio disagio, mi sorrise e mi confortò: «Vedi, questo film sarà innovativo, con tecniche particolarissime, il tuo Barabba sarà per te e per il film più importante di un personaggio con tante battute in un film qualsiasi, fidati e vedrai!»

Bofonchiai un grazie e delle scuse e andai via; mai nessun regista prima si era tanto preoccupato di me e del mio personaggio: non volevo pi√π rinunciare, ora volevo andare in fondo alla questione.

Rimasi a Roma per un po’di giorni, prove costume, prove trucco, poi dall’ottico specializzato, che mi avrebbe costruito una lente a contatto pe mostrare la cecità dell’occhio destro, altre prove sul testo, lo studio della cicatrice e così via, con una cura minuziosa di ogni particolare che faceva ben sperare per la qualità e la riuscita del film.

     La parte di Barabba sarebbe stata breve e senza battute, ma dalla cura e dall’interesse che tutti avevano per il mio personaggio iniziai a convincermi che tanto male non sarebbe stato.

Tornai a casa con un po’d’amarezza, mi ero immaginato qualcosa in più per colpa della mia solita fantasia che correva e galoppava, precedendo di troppo la lenta e stanca realtà fino al punto di prendere una strada diversa e poi soffrire sempre per il non incontrarsi.

     Decisi però di essere positivo, visto il tanto entusiasmo e l’enorme umanità mostratami da Gibson: avrei fatto tutto al massimo e se fosse andata come mi aveva detto, ne sarei stato felice, altrimenti avrei vissuto l’amarezza della delusione, forte dell’esserci avvezzo.

In famiglia e con gli amici parlavo pochissimo, non volevo far trasparire nulla: il Natale era alle porte, volevo essere felice e godermi le feste con i miei splendidi figli.

Il periodo natalizio passò in fretta, tra regali, auguri e indigestioni. Mi trovavo sdraiato sul divano, come un coccodrillo, immobile nell’arduo compito di dirigere tutti gli eccessi alimentari delle feste, quando il trillo del cellulare mi scosse; feci un po’fatica a rispondere simulando una totale lucidità che non c’era; era l’amorevole Cinzia che mi allertava: dovevo tornare a Roma per iniziare a girare le mie scene.

     Tutto il viaggio in treno Milano-Roma fu un unico rimuginare. Sembrerà strano, ma l’attore, che fa il suo lavoro con profondità, vive la finzione della storia da interpretare, come se fosse la realtà, per cui durante il lavoro quella diviene la sua realtà e il quotidiano si trasforma in una sorta di limbo, di sospensione in cui sostare in attesa di attivarsi e vivere nella realtà fantastica.

Arrivai in hotel e nella buca delle chiavi della mia camera c’era il foglio del “Pick-up” cioè, nel gergo del cinema, il foglio comunicazioni in cui è scritto principalmente: a che ora passerà l’autista a prelevarti, a che ora dovrai essere al trucco e a che ora essere pronto, una sorta di agenda del giorno dopo. Gli italiani chiamano tutte queste informazioni assieme «ordine del giorno o convocazione», gli americani «Call sheet».

 

Pedro Sarubbi

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