3. Sulle strade del mondo

È la Chiesa che nel proprio autosuperamento ci insegna «a trovare Dio in tutte le cose». Non solo a cercarlo faticosamente come una pepita d'oro in un ammasso di ferri vecchi, ma a trovarlo come colui che già da sempre mi precede.

3. Sulle strade del mondo

da L'autore

del 01 gennaio 2002

È la Chiesa che nel proprio autosuperamento ci insegna «a trovare Dio in tutte le cose». Non solo a cercarlo faticosamente come una pepita d'oro in un ammasso di ferri vecchi, ma a trovarlo come colui che già da sempre mi precede. Quando un orientale non cristiano sulla linea della meditazione a lui congeniale cerca la via verso il Nirvana e forse arriva perfino alla grande illuminazione, allora non farà neppure grande fatica a comprendere di conseguenza l'interiore vuoto del mondo e del proprio io mondano. Quando un cristiano nella sua meditazione trova il mistero della pienezza di Dio nella sua trinitaria autodonazione, manifestata in Gesù Cristo, nella sua eucarestia e nella sua Chiesa, allora anche lui non durerà fatica a ritrovare questa pienezza nel mondo apparentemente cosi vuoto di presenza divina. Ma se egli prega non in modo meditativo ma soltanto presentando a Dio le sue personali richieste, allora questa riscoperta gli sarà molto più difficile. Forse egli si è spinto fino a un certo atteggiamento spirituale cristiano, nel quale prega per sé, per i suoi, per ciò che gli sta a cuore, ma senza lasciarsi toccare abbastanza dall'infinita intenzione di Dio. Quando Cristo sollecita i discepoli a «chiedere nel suo nome» (Gv 14,13), allora in questa sollecitazione è racchiusa anche l'esortazione a chiedere secondo la sua intenzione universale, che solo una fede meditativa potrà garantire in modo esistenziale.

Grazie a questa universalità non solo della onnipresenza di Dio nel mondo ma anche delle sue intenzioni di salvezza per esso, noi non siamo più lontani da Dio nella nostra mondanità quotidiana di quanto lo siamo nella nostra preghiera o nella liturgia ecclesiale. Solo dobbiamo realizzare la relazione oggettivamente esistente anche in modo soggettivo, e ciò nel modo migliore a partire dalla nostra contemplazione. Essa ci permette di riconoscere i suoi contenuti là dove al primo sguardo non sono riconoscibili. Secondo la parola di Cristo, che ognuno conosce, lo ritroveremo nei «suoi fratelli più piccoli»: gli affamati, gli assetati, i nudi, i malati, i carcerati. In tutti coloro che assomigliano a questi, e soprattutto nei nostri nemici.

Ma come potremmo riconoscerlo nelle persone pasciute, con una bella casa e ben vestite; negli aitanti sportivi, nei liberi cittadini e in tutti coloro che vivono soddisfatti della loro posizione, a meno di vedere in loro fratelli ancora più piccoli, inconsapevoli della loro fame e sete, della loro estraneità e necessità? Cosi era della infelice comunità di Laodicea nell'Apocalisse: «Tu dici: sono ricca, ho in sovrabbondanza, non ho bisogno di nulla, e non sai che sei infelice, miserabile, povera, cieca e nuda. Fossi almeno fredda o calda, ma poiché sei tiepida ti sputerò dalla mia bocca». E tuttavia, subito dopo a questa stessa Laodicea è detto: «Tutti coloro che amo io li rimprovero e li castigo» (Ap 3,16 ss.). Colui che medita deve seguire questa doppia articolazione di Gesù: castigo severissimo - per amore. Anche lui può svelare, chiamare le malattie col loro nome, senza abbellirle, ma nell'atteggiamento del suo Signore: per amore. Egli riconosce infatti in tutti questi momenti della fin troppo mondana vita quotidiana sempre e di nuovo «i molti» per i quali Gesù è morto. Ed è proprio questa autocompiaciuta estraneità da Dio che egli ha preso su di sé e che ha patito nel suo profondo orrore.

Perciò la succitata ultima meditazione degli Esercizi Spirituali, che dalla Chiesa ci conduce nel mondo, si chiama la contemplazione «per ottenere l'amore». Ed essa procede avvedutamente per quattro gradi (Esercizi Spirituali, n. 234-237).

Dapprima bisogna considerare che tutto ciò che annuncia in modo così evidente e palese la sua esistenza mondana è puro dono, e invero non elargito da un'altezza irraggiungibile, ma da un Dio che nel suo dono si abbassa tanto e tanto si espropria quanto può. Creazione, stato di grazia, atto della redenzione non sono più distinti qui e non possono neppure essere distinti perché l'intenzione di Dio di comunicare ultimamente se stesso è indivisibile. Perciò il meditante può già nella semplice presenza delle cose percepire la totale attitudine di Dio. Può essere più facile, almeno apparentemente, ritrovarla nelle meraviglie di una natura vergine - boschi, monti, deserti, oceani... - ma perché non dovrebbe essere possibile trovarla anche nel paesaggio costruito dall'uomo, spesso sgradevole, e nelle sue opere, spesso fastidiosamente invadenti? In ciò infatti si rivela il paziente lasciare-spazio da parte di Dio per le scoperte delle sue creature. Questa pazienza e magnanimità, che da molti è sentita come assenza e vuoto, è per il cristiano che medita vicinanza piena di grazia, che nel lasciar-accadere si esprime sempre anche come un accompagnare, un prevedere benevolo, un seguire misericordioso, un delicato non-imporsi. Proprio in questo lasciare-accadere, che Dio dona e accompagna, il contemplante vede, nella misura in cui conosce Gesù Cristo, che il Creatore intende «nella sua divina condiscendenza, in quanto può, donarsi lui stesso» e insieme esige che chi riceve i doni della liberalità e del suo seguito da parte di Dio, a sua volta ponga a disposizione di Dio il proprio spazio creaturale.

Il secondo passo prenderà in più profonda considerazione la grazia di Dio donata: dove potrebbe esserci uno spazio, che Dio concede libero, per riempirlo con i suoi doni, se non in lui stesso? Che cosa potrebbe essere «fuori di lui» dal momento che egli riempie ogni spazio? Il meditante deve perciò rendersi conto che Dio stesso abita nelle cose liberate sia sasso che piante, animale o uomo -@oppure, il che è lo stesso, che ogni cosa creata, resa autonoma nella sua esistenza propria, non può abitare in altro luogo se non in Dio? Negli spazi che la sua libertà possiede, per concederli ad altri distinti da sé? Si può parlare di «opere esterne», nella misura in cui lui stesso non è il prodotto, ma dove dovrebbero esistere queste opere se non in lui, il trinitario, che è donazione del Padre al Figlio (infatti il Padre ha creato tutto per il Figlio), del Figlio al Padre (ai cui piedi deporrà il regno compiuto), dello Spirito Santo creatore a entrambi (dei quali è l'amore e che eternamente glorificherà)? Il meditante che conosce attraverso Cristo il Dio trinitario spiegherà il suo inabitare nelle creature secondo le tracce o le immagini ancora più espressive di questo donarsi intradivino che egli scoprirà nella costituzione, spinta e desiderio di tutta la creazione. L'immagine può essere intorpidita dall'egoismo peccaminoso della creatura, può essere sepolta e pervertita fino a un demoniaco opposto, ma pure in ogni distorsione resta riconoscibile come il vero senso dell'esistenza donata: ha il suo essere proprio nel suo essere-per.

La indistricabile molteplicità della vita umana lascerà sempre di nuovo affiorare in infinite variazioni questa forma fondamentale, che solo allora appare paradossale, anzi perfino contraddittoria, quando non si ha conoscenza dell'essere trinitario di Dio. Il contemplante però che lo sa nella fede, può almeno per se stesso, come risposta al proprio essere-immagine, tendere a questo essere-se-stesso attraverso l'essere-per e, per quanto può, tendere a farlo riconoscere anche da altri come l'unica cosa desiderabile.

Tutto ciò, così ci insegna il terzo passo, non avviene affatto automaticamente. Il dialogo tra Dio e il suo mondo, fra la libertà infinita e quella finita, è un dramma in innumerevoli atti in cui Dio stesso si compromette: ultima dimostrazione ne è la croce. «Considera come Dio lavora ed opera per me in tutte le cose create, come cioè si comporta a somiglianza di uno che lavora faticosamente». Molti, a causa delle nubi di battaglia nella storia mondiale, non vedono più l'impegno di Dio oppure presumono che egli troneggi come spettatore sublime e impassibile sopra tutti gli avvenimenti. E la loro meditazione è allora spesso il tentativo di salvarsi dalla battaglia in un luogo divinamente sicuro. Essi dimenticano quanto sia visibile già nell'Antico Testamento il faticoso impegno di Dio. In esso infatti Dio si rivela come colui che si adira, che si pente della sua creazione, che vuole punire e che tuttavia sempre di nuovo ha misericordia: «Il mio cuore si rivolta in me e tutte le mie viscere bruciano: no, non darò sfogo alla mia ira, non distruggerò Efraim, sono Dio e non un uomo» (Os 11,8-9). Così alla fine Dio prende su di sé tutto il peso permettendo al suo amato Figlio di abbassarsi fino alla morte sul palo dell'infamia, di diventare lui stesso «maledizione» e «peccato» incarnato. Chi volesse, tralasciando tutto ciò, incamminarsi nella meditazione verso un Dio sovramondano, spensierato e felice, costui si farebbe cullare in un'illusione, trascurando la verità più profonda. La missione della meditazione cristiana può essere solo: «mettere a disposizione tutta la sua persona per questo affaticarsi di Dio col mondo» (Esercizi Spirituali, n. 96).

L'ultimo passo è forse il più difficile, ma certamente il più inaspettato in ambito cristiano. Nella meditazione dovremmo imparare a vedere l'esistenza del mondo e di tutti i suoi valori come un irraggiamento dall'origine, «così come i raggi discendono dal sole, e dalla sorgente le acque». Si potrebbe forse pensare che l'attualmente riconosciuto carattere evolutivo del cosmo, come lo ha descritto un Teilhard de Chardin in contrapposizione a una vecchia e rigida immagine del mondo, ci avvicinerebbe al dinamismo qui intenzionato. Potrebbe anche essere, in un certo modo, ma non coglie il centro di ciò che la contemplazione vuole mediare. Non si tratta infatti di un irraggiamento orizzontale e dispersivo delle cose, ma di uno verticale da Dio.

Come dunque comprendere questo «scendere dall'alto»? Dapprima molto semplicemente così: il «luogo» di Dio è sempre sopra, quello della creatura sempre sotto e non c'è nulla nella creatura di così definitivamente fondato che non abbia bisogno della continua attività creatrice e redentrice di Dio. E questo vale non solo per la nuda esistenza e per tutte le fondamentali condizioni della creatura, ma certamente anche per i suoi atti e proprio anche per i più alti, quelli che tendono a Dio, dei quali si potrebbe pensare che tendono in direzione opposta: dal basso verso l'alto, come l'eros platonico ci vuol far credere. Ma quando questo tendere a Dio è veramente secondo Dio? Allora, dice Agostino, quando è puro desiderio di Dio (desiderium), un atteggiamento che ha compreso intimamente come solo Dio nel suo amore libero e pieno di grazia può placare questo desiderio. Desiderio creaturale non può essere volontà di potenza di prendere possesso di Dio, ma volontà di donazione di lasciarsi afferrare da lui. E in quanto tale è essa stessa segnata dalla forma dell'amore di Dio: disponibilità di accoglienza al suo amore discendente e volontà di adeguarsi nel proprio amore - verso Dio e verso l'uomo - a questo movimento discendente. È il movimento in cui Dio ci ha rivelato l'essere dell'amore assoluto: infatti il Padre invia il Figlio, il Figlio scende liberamente e volontariamente fino ai suoi fratelli più piccoli, lo Spirito Santo discende durante il battesimo di Gesù e durante la Pentecoste della Chiesa per condividere e guidare i destini terreni del Signore e della sua Chiesa. In questo movimento «economico» [progetto di salvezza, ndt] di Dio verso il mondo egli ci dona l'immagine originaria dell'amore valida anche per noi.

Così questo quarto e ultimo passo è un superamento del primo, in cui si parlava della volontà di Dio di «comunicare se stesso secondo le sue divine disposizioni, in quanto può». Oikonomia è la parola per esprimere questo drammatico movimento della condiscendenza e della compromissione di Dio con la sua creatura. La sfumatura linguistica riferentesi a una gratuita «condiscendenza» di un principe assoluto verso i suoi piccoli e indegni sudditi manca completamente nel termine greco oikonomia, che non esprime altro se non la dedizione e la premura di Dio per il suo mondo. E quando questa premura - come è stato detto - è l'autodonazione estrema di Dio alla creatura, allora per la sua stessa natura non è mai da considerarsi un fatto concluso, ma un avvenimento che si realizza continuamente e che sempre di nuovo ci supera. E questo indipendentemente dal fatto di voler considerare o meno la «conservazione» del mondo nell'esistenza come una «creazione continua». E anche indipendentemente dal fatto di considerare la volontà di Dio di far continuare il mondo nel suo essere o di considerare la sua «potenza assoluta» di farlo risprofondare nuovamente, in ogni momento, nel nulla. Queste speculazioni non toccano l'esperienza cristiana che la dedizione di Dio al mondo nella sua totalità e a ogni singola creatura in esso è un evento «continuo», di cui proprio il meditante diventa cosciente in modo immediatissimo.

Si potrebbe addurre a modo di esemplificazione il mistero eucaristico: la sempre nuova autoattualizzazione del Signore glorioso nella temporalità della sua Chiesa. Ma in quanto evento non lo si può isolare dall'analogo donarsi a ogni orante, a ogni sofferente o morente, a ogni essere esistente, che in quanto tale esiste «per la potenza altissima e infinita che viene dall'alto».

Ma c'è ancora un terzo aspetto di questa «fluente luce della divinità», della quale Mechthild di Magdeburg ha da dire cosi tanto, e questo ci rimanda a quanto menzionato a proposito del secondo passo. Il «luogo» del mondo, si diceva, è in Dio stesso, e ciò significa: nella sua vita trinitaria che in quanto tale è un incontenibile fluire delle persone divine una dall'altra, una verso l'altra, una nell'altra. Una sempre attuantesi autodonazione. Il termine tecnico della «relatio subsistens» non esprime nulla circa questo evento infinito, a meno di prendere il termine «relatio» come un rapportarsi attivo, non da un punto statico, accidentale, ma in quanto movimento che costituisce le stesse persone divine. All'interno di questo fiume dell'amore assoluto il mondo creato non può essere un punto immobile. Esso è per le persone divine che si donano una all'altra un benvenuto motivo di donazione: il Padre creatore dona il mondo al Figlio redentore, il quale lo pone ai piedi del Padre come regno perfetto dopo la «vittoria su tutti i nemici», ma a sua volta è insediato dal Padre come capo e ricapitolazione di tutta l'opera cosmica. Lo Spirito di entrambi, in quanto «terzo» di questa incontenibile circolazione di donazione, è colui che sollecita, che attualizza, che perfeziona, ma non nel senso che tutto sfoci in lui. Anzi: tutto attraverso di lui e nel Figlio è condotto al Padre, il quale è fonte ed origine di tutto solo in quanto è colui che sempre trabocca da sé nel Figlio e nello Spirito. E tuttavia il fluire trinitario non è un mulinello disordinato: resta, nella rigorosa unità della «sostanza» (per usare il termine tradizionale) anche il rigoroso, irreversibile ordine delle processioni.

Ma non è possibile contemplare i movimenti interni di Dio dal di fuori, non si può neppure esservi portati dentro in modo -totalmente passivo; è necessaria un'adesione del contemplante che dalla grazia di Dio è coinvolto in questo suo essere in movimento. La grazia di Maria fu quella di generare insieme al Padre l'eterno Figlio, come umile ' ancella. La grazia del Figlio incarnato è quella di renderci partecipi della sua eterna nascita dal Padre e di condurci così nel suo movimento di ritorno al Padre. La grazia di entrambi è quella di donarci il loro comune Spirito, non solo come ' un risultato (ciò che lo Spirito non può neanche essere), ma come uno che sempre procede, perfino da noi, quando Padre e Figlio ci includono nel loro spirare lo Spirito. Tutto questo fa parte della fede viva, che per ora non lo vede né comprende ma che farà parte della «visione» della vita eterna, che perfezionerà e supererà eternamente la nostra facoltà visiva.

Colui che medita cristianamente è sempre e continuamente introdotto in questo mistero; egli lo adorerà senza penetrarlo, nella consapevolezza di esistere in esso: «In lui noi viviamo, ci muoviamo e siamo». Le parole e gli avvenimenti del Vangelo e delle sue spiegazioni apostoliche ci donano luce sufficiente per scorgere in modo soddisfacente i contorni del mistero a partire da Cristo. Egli ce lo rivela per farcene prendere parte e per farci capire che non ci abbandoniamo a un'illusione, ma partecipiamo della verità.

E quando il meditante passa dalla meditazione all'azione quotidiana, allora la logica della azione approfondisce ancora una volta in lui questa certezza.

Hans Urs Von Balthasar

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