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del 01 gennaio 2002
Prima di dare una risposta decisiva, non vogliamo dimenticare che già l’uomo naturale, in quanto è spirito, trascende il mondo chiuso ed ha il suo posto ‘normale’ – come sempre ha ritenuto ogni religione e filosofia dei popoli – tra il relativo e l’assoluto, tra il mondo e Dio. Se l’umanità moderna dimentica questa verità del tutto elementare o si sforza di dimenticarla per amore di una ‘mondanità mondana’, ciò costituisce un regresso nel sapere umano, ed una testimonianza di povertà per il mondo attuale. Ci si può servire – in senso umanistico o cristiano – di formule imploranti: «Restate fedeli alla terra!»; un simile appello può riguardare soltanto colui che ha sempre già la libertà di elevarsi al di sopra della terra, di dominarla dall’alto come ‘re della creazione’. Inoltre lo sfruttamento brutale che l’epoca tecnica fa della terra e del mondo, è un modo molto problematico di restare fedeli alla terra. Siamo, in verità, soltanto ad una fase preliminare rispetto alla fedeltà effettiva.
Ma veniamo ora al cristiano. In esso la tensione generale tra natura e spirito è evidentemente accresciuta. Egli è più radicalmente ‘sradicato’ dalla ‘natura, anzi dal ‘mondo’ in genere; in compenso viene anche mandato più radicalmente nel mondo in genere. Da una parte «nel mondo, non del mondo», dall’altra «andate in tutto il mondo». ‘In’ significa: realmente dentro, non solo vicino al mondo. La differenza è notevolmente più profonda.
In precedenza abbiamo cercato e trovato un punto d’unione che appariva impossibile tra l’atto singolare dell’uomo-Dio ed il nostro atto dopo di lui. Questo punto era il sì a Dio come disponibilità assoluta, come obbedienza amorosa. Non dovrebbe essere possibile trovare anche un punto corrispondente, in cui il nostro compito di uomini del mondo e di cristiani (nella Chiesa e con la Chiesa) possa risultare unitario? Ciò dovrebbe essere possibile, se Dio nella rivelazione prende sul serio la sua creatura, e quindi in tutte le elevazioni, le estensioni, le esigenze apparentemente eccessive, non la spezza, ma la completa. Ad entrambe le cose si deve rispondere, in funzione di un unico e medesimo atteggiamento della coscienza morale, (diversamente non si potrebbe affatto rispondere), e questo ancora una volta altro non può essere se non quello che già abbiamo trovato: il sì della disponibilità.
Anzitutto questa unità non è neppur difficile da vedere. Il cristiano dice sì a Dio e ne riceve la sua missione per gli uomini. E l’uomo nel mondo dice sì al suo compito oggettivo per il mondo – nella famiglia, nello stato, nella società, – e nella misura in cui è anch’egli un servo, è un membro usabile. In entrambi i campi la possibilità di impiego ha un presupposto, e cioè che là il cristiano, qui l’uomo, abbia posto un atto di libera e responsabile identificazione con il suo compito. Un atto di volontà di servire, che implica una rinuncia all’egoismo. Nel cristiano questo atto dovrebbe essere radicale e decisivo; altrimenti non sarebbe un vero credente. Anche nell’uomo che è al servizio del mondo può essere radicale: allora egli vuole concepire la sua vita come un servizio indiviso al tutto, ed il piccolo apporto che effettivamente egli può dare al tutto deve esprimere questa dedizione totale. Ma in moltissimi la dedizione resta parziale: essi, ad esempio, lavorano soltanto per guadagnare e, negli intermezzi del lavoro, per condurre una egoistica vita gaudente. Oppure nel rapporto con la donna, dentro o fuori del matrimonio, cercano prevalentemente il loro piacere, sia che lo confessino o no, sia che normalmente lo trovino, o no. Non è necessario ricordare espressamente che il disinteresse e del credente e dell’uomo morale non è una perdita di sé, una alienazione di sé, o addirittura una fuga da sé (il che veramente esiste anche e lo smaschera e biasima Max Scheler nei suoi ‘Sentimenti di simpatia’), anzi, entrambe le cose hanno come presupposto anche il silenzio ed il segreto della concentrazione e, almeno nel credente, la preghiera. Ma il ritmo tra raccoglimento e dispersione ha la sua direzione nella dedizione: colui che ama deve essere una fonte profonda, per poter attingere da sé.
E poiché la fonte più profonda, più inesauribile ed anche quella a cui più si attinge, è Cristo ed il cristiano credente ha per modello questo prototipo, non esiste alcun motivo di mettere in contrasto la propria dedizione di cristiani con quella di membri dell’umanità. Il disinteresse, l’essere a disposizione implica in entrambi i campi che l’uomo abbia qualcosa da dare, che sia valente e competente nel campo mondano, e conseguentemente apporti per il campo della sua missione l’interesse risoluto che è di aiuto a questa valentia, che trovi piacere nella sua professione, sia essa importante come quella del ricercatore intellettuale, od insignificante come nel lavoro meccanico in fabbrica, che forse potrebbe anche essere assunto e sbrigato più velocemente da una macchina. In quanto e finché è in servizio, esso esige l’esecuzione accurata che può essere richiesta da un operaio coscienzioso. Il servo della parabola «è fedele nel poco» e come ricompensa «riceve potere su molto». La maggioranza degli uomini non può compiere il proprio servizio vitale se non come minuscola parte in una gigantesca macchina prefabbricata, in cui è facile sostituire i perni che si rompono con altri che girano altrettanto velocemente. E tuttavia ogni servo è un uomo unico nel suo genere, e l’amore del suo cuore è insostituibile. Egli porta il suo amore personale nella grande massa anonima, e questo suo darsi, quando diviene cosciente di sé, è quasi una morte. Una morte sacrificale. Non si può trovare a ridire al povero di conservare inoltre il suo posticino per la gioia e la ricreazione, neppure di nutrire la speranza e quasi la certezza che tutto il mondo si muova verso un futuro significativo, e la piccola onda che egli è stata, sommersa a lungo nella corrente senza nome, giunga a riposo in un qualche mare sterminato. Anzi, l’uomo mondano non può sapere qualcosa d’altro, a meno che non si obblighi a qualche ingenuo abbozzo per il futuro, e questo poco lo guidi ad interpretare ed a versare la sua vita come offerta sacrificale.
Non è qui il caso di domandarci se effettivamente egli compie questa dedizione; ha importanza decisiva il fatto che essa può essere prestata dal cristiano nel campo del mondo, e che è già posta nella direzione oggettiva della vita, che ha fine, ma che in quanto è spirito travalica la fine. Che quindi cavi fuori il massimo dalla sua esistenza l’uomo che, per un compito finito, che gli appare meritevole, la impegna nel modo più radicale possibile. Senza dedizione all’opera non c’è impegno totale, e viceversa. Non si può quindi fare a meno dell’azione nella dedizione estrema. Non ha ora importanza decisiva la parte che in questo impegno hanno l’ambizione, la forte volontà di imporsi. C’è una buona ambizione di svolgere il proprio compito nel modo più perfetto possibile: un’ambizione che si oggettiva per così dire, nelle cose; e non è soltanto dovere della moralità cristiana, ma già di quella naturale, chiarirne i motivi in modo che una volontà di azione soggettivamente progettata diventi realizzazione oggettiva.
Si vuole ora obiettare che il cristiano non è capace di questo impegno completo per le cose mondane, perché ha altrove testa e cuore («dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore»): nella vita eterna futura? La vita terrena non sarebbe per lui che un luogo in cui è di passaggio, in cui non vale la spesa attardarsi, guardarsi attorno e mettere su casa o addirittura rifinirla. Perciò i cristiani sarebbero sempre distratti, mai veramente presenti, quando si tratta di costruire il futuro terreno. Per contro, da un punto di vista puramente empirico, si deve anzitutto chiedere chi mai abbia costruito la cultura occidentale, se non quasi esclusivamente i cristiani. Se non avessero avuto un senso dei valori mondani, come avrebbero potuto fabbricare simili recipienti simbolici al sopratemporale, all’eterno? Ma anche in linea di principio, in base al vangelo, il servo amministratore non è forse chiamato a non seppellire il suo talento, ma a farlo rendere? Cioè, a ricavare dai pochi spiccioli dei suoi anni terreni la massima rendita? Non sa il cristiano, ancor più di altri, quanto vale quest’unica vita terrena, questo pezzo di terra, che nasconde nelle sue viscere un tesoro eterno, per trovare il quale merita che si scavi, per il quale merita che si impegni tutto (pur di comperarlo)? È vero che sta scritto: «Non vi ammassate tesori sulla terra, dove tignole e ruggine distruggono, e dove i ladri sfondano e rubano» (Mt. 6,19). Ma l’uomo, che vuole operare e donare, non intende ammassare per sé; il suo tesoro, e perciò anche il suo cuore, sono nel suo compito. La dottrina cristiana approfondisce quasi all’infinito la possibilità di dare la propria vita in un compito, perché non soltanto la prestazione esterna, ma anche i sentimenti, la volontà di dedizione, soprattutto la sofferenza, quando non si può più compiere nulla di attivo, vengono inseriti nell’opera, nella fecondità.
E quel che chiamiamo speranza cristiana non è sospensione, ma infinito approfondimento ed intensificazione dell’oscura speranza dell’individuo che la sua esistenza non sia stata inutile e priva di senso per il tutto. L’uomo vuole aver collaborato alla costruzione del regno dell’umanità; il cristiano vuole aver dato un qualche contributo al regno di Dio nel regno del mondo e dell’uomo. Egli ha la speranza, che ‘non inganna’, che anche quanto nel tempo deve essere registrato come inutile, non sia immeritevole di una registrazione nei libri della vita e della fecondità. Perciò, in un’epoca che sa vedere e incrementare il progresso ormai quasi solo in senso tecnico-meccanico, egli diventa il custode di una idea più profonda del progresso, non cedendo alla illusione che qualcosa si muova solo quando il successo può essere registrato in cifre. Ma si renderà anche amaro conto delle sue trascuratezze, di non aver mosso nulla quando, proprio come cristiano, avrebbe urgentemente dovuto muovere; e che altri al posto suo hanno assunto il suo compito – spesso contro di lui -, per venirne a capo in senso tecnico-meccanico, materialistico.
Il cristiano avrebbe sempre dovuto dar l’esempio di autoespropriazione; infatti con questo atto inizia il vangelo. Ora altri han preso in gestione questo atto e dirigono gli avvenimenti in modo ch’esso avvenga per coercizione. Il cristiano dovrebbe inserirsi in questo processo in modo da salvare, in quanto è ancora possibile, la libertà nel suo svolgimento. Allora potrebbe apparire visibile anche per tutti che esiste soltanto un unico vero impegno: quello per i fratelli, per il mondo. È l’impegno di Dio che dà il suo Figlio per il mondo; l’impegno di Cristo che può dare e (con i redenti) riprendere la sua vita; l’impegno dei cristiani nel sì al Signore; l’impegno dell’uomo per il quale il fratello ha più valore di se stesso.
Hans Urs Von Balthasar
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