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4. La notte in cui don Bosco doveva morire

Fui preso da un grande sfinimen­to. Dovettero portarmi a letto. Ero seriamente malato: bron­chite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la Comunione come Viatico e l'Un­zione degli infermi. Ero pronto a morire.


4. La notte in cui don Bosco doveva morire

da Don Bosco

del 09 maggio 2011

 

Tra le vigne di Sassi a cercare don Bosco

     Avevo troppi impegni. Lavoravo come prete nelle carceri, all'ospedale del Cottolengo, nel Rifugio, nell'Oratorio, in va­rie scuole. Rubavo ore alla notte per compilare i libri che erano necessari ai miei ragazzi. La mia salute, che non era mai stata robusta, peggiorò in maniera tale che i medici mi ordinarono riposo assoluto.     Don Borel, che mi voleva molto bene, mi mandò a passare qualche settimana come ospite del parroco di Sassi (ai piedi della collina di Superga). Durante la settimana riposavo, alla dome­nica tornavo a lavorare all'Oratorio. Ma presto non si rivelò una buona soluzione. I ragazzi venivano a trovarmi a gruppi sempre più numerosi. Anche i ragazzi di Sassi cominciarono a venirmi a cercare. Finii per essere più occupato che a Torino, mentre i miei piccoli amici dovevano percorrere quattro chilo­metri a piedi per vedermi.Non solo i ragazzi dell'Oratorio venivano a piedi fino a Sassi. Presto a loro si aggiunsero gli alunni dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ecco un episodio tra i tanti.     Gli alunni della scuola «Santa Barbara», dove insegnava­no i Fratelli, avevano fatto gli Esercizi Spirituali. Siccome era­no abituati a confessarsi da me, al termine degli Esercizi venne­ro in massa all'Oratorio a cercarmi. Dissero loro che ero a Sas­si, e tutti partirono per questo paese, distante dalla città, come ho detto, quattro chilometri. A tratti pioveva, ed essi non co­noscevano la strada. Finirono per vagare nei prati, nei campi,nelle vigne in cerca di don Bosco. Alla fine arrivarono in quat­trocento, sfiniti dal cammino e dalla fame, sudati, infangati, ma decisi a confessarsi.- Abbiamo fatto gli Esercizi - mi dissero. - Vogliamo farci buoni, vogliamo fare la nostra confessione. Abbiamo do­mandato il permesso ai nostri insegnanti di venire da lei, ed ec­coci qua. Dov'erano finiti i ragazzi?     Con ogni probabilità i maestri e i genitori li stavano aspet­tando con ansia. Era necessario farli tornare al più presto alla scuola. Tentai invano di convincerli: ripetevano che erano li per confessarsi. Ci mettemmo in quattro preti: il parroco, il vice­parroco, un prete-maestro ed io. Ma di confessori ce ne sareb­bero voluti quindici.Intanto bisognava pensare anche alla fame e allo sfinimen­to di quei ragazzi. Don Abbondioli, il parroco, mise a loro di­sposizione tutte le sue riserve: pane, polenta, riso e fagioli, pa­tate, formaggio, frutta.     Alla scuola, intanto, qualcuno cominciò a entrare in ansia. Per la chiusura solenne degli Esercizi Spirituali si stavano ra­dunando i professori, i predicatori, alcuni invitati. Si doveva celebrare la Messa con la Comunione di tutti i ragazzi. Ma i ra­gazzi dov'erano? Nessuno si faceva vivo. Fu un momento di imbarazzo generale. Quando finalmente i ragazzi riapparvero, fu loro severamente proibito di ripetere un simile disordine. « Ero pronto a morire »     Dopo il ritorno da Sassi, fui preso da un grande sfinimen­to. Dovettero portarmi a letto. Ero seriamente malato: bron­chite, tosse, febbre violenta. In otto giorni giunsi al limite tra la vita e la morte. Mi diedero la Comunione come Viatico e l'Un­zione degli infermi. Ero pronto a morire. Mi rincresceva abban­donare i miei ragazzi, ma ero contento di morire dopo aver da­to una forma stabile all'Oratorio.     Quando si sparse la notizia che la mia malattia era grave, tra i giovani si diffuse un dolore vivissimo, una costernazione incredibile. Ogni momento, alla porta della stanza dov'ero ri­coverato arrivavano gruppi di ragazzi. Piangevano e chiedeva­no mie notizie. Non se ne volevano andare: aspettavano di mo­mento in momento una notizia migliore. Io sentivo le domande che rivolgevano all'infermiere, e ne ero commosso.     L'affetto verso di me li stava spingendo a veri eroismi. Pre­gavano, facevano digiuni, partecipavano alla Santa Messa e fa­cevano la Comunione. Nel Santuario della Consolata si dava­no il turno giorno e notte. C'era sempre qualcuno che pregava per me davanti all'immagine della Madonna. Al mattino, quel­li che dovevano andare a lavorare accendevano una candela che rimanesse al loro posto davanti all'altare. Molti altri trovava­no il tempo di andarci anche durante il giorno, e resistevano fino alla sera tardi. Pregavano e scongiuravano la Madre di Dio perché conservasse in vita il loro povero don Bosco. « Dio li ascoltò »     Molti promisero alla Madonna di recitare il Rosario intero per mesi, altri per un anno, alcuni per tutta la vita. Ci fu persi­no qualcuno che promise di digiunare a pane e acqua per mesi, per anni, per tutta la vita. Sono certo che molti giovani mura­tori digiunarono a pane e acqua per settimane intere, continuan­do il lavoro pesante dal mattino alla sera. Il breve intervallo di tempo libero che veniva loro concesso andavano a passarlo da­vanti al Santissimo Sacramento. Dio li ascoltò. Era un sabato sera, i medici fecero consulto e pronunciarono la sentenza: quella sarebbe stata la mia ultima notte di vita. Ne ero convinto an­ch'io, perché non avevo più forze e avevo continui sbocchi di sangue. A notte avanzata sentii una gran voglia di dormire, e mi assopii. Quando mi svegliai ero fuori pericolo. I medici Botta e Caffasso mi visitarono al mattino, e mi dissero di andare a ringraziare la Madonna per grazia ricevuta.     La notizia gettò la gioia tra i miei ragazzi. Non volevano crederci se non mi vedevano. E mi videro infatti pochi giorni dopo. Appoggiandomi a un bastone mi recai all'Oratorio. Mi accolsero cantando e piangendo, con una commozione che è più facile immaginare che descrivere. Cantarono un inno di ringra­ziamento a Dio, mi avvolsero di acclamazioni e di entusiasmo.     Provvidi subito a una faccenda importante. Molti, quand'ero in pericolo di vita, avevano fatto voti e promesse enormi, pra­ticamente impossibili da mantenere, spinti dall'emozione e dal­l'affetto. Le cambiai in promesse più semplici e leggere. « Tra le mie colline»     Quella malattia mi aveva colpito all'inizio del luglio 1846. Abitavo ancora in una cameretta del Rifugio, ma stavo per tra­sferirmi a Valdocco (dove già era stato portato l'Oratorio).Andai a trascorrere alcuni mesi di convalescenza presso la mia famiglia ai Becchi. Avrei dovuto stare molto a lungo tra le mie colline, ma i giovani cominciarono a venirmi a trovare in gruppi sempre più numerosi. Non avevo più né pace né tran­quillità.     Tutti quelli che parlarono con me in quel tempo, mi consi­gliarono di lasciare Torino e di recarmi per qualche anno in luo­ghi lontani, per tentare un vero recupero della salute. Anche l'Arcivescovo e don Cafasso erano di questo parere. Ma mi rin­cresceva troppo abbandonare i ragazzi. Alla fine mi permisero di tornare all'Oratorio, con l'obbligo però di non confessare né predicare per due anni.Ho disobbedito. Tornato all'Oratorio, ho ripreso a lavora­re come prima, e per 27 anni non ho più avuto bisogno né di medico né di medicine. Da tutto questo ho ricavato una con­vinzione: non è il lavoro che rovina la salute.  

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