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A vib book

A VIB BOOK, Very Important Book...


A vib book

da Quaderni Cannibali

del 10 dicembre 2010

 

A nove anni, il primo racconto di David Foster Wallace ci svela cos’è un “very important book”             A quattordici anni Stephen King andò di pomeriggio al cinema, vide “Il pozzo e il pendolo” ed ebbe una grande idea. Avrebbe trasformato il film in un libro, come usavano fare i suoi giornaletti preferiti. In due giorni scrisse il racconto, lo ciclostilò, ne vendette una quarantina di copie a scuola guadagnando nove dollari (del 1961) e giorni di smisurata felicità. Fu un debutto da ragazzino cresciuto in ristrettezze, che mai prima di quel giorno aveva sentito nominare Edgar Allan Poe.            A nove anni David Foster Wallace scrisse il suo primo racconto, una paginetta raccontata in prima persona da un bollitore per il tè. Era il 1972, la famiglia aveva più dimestichezza con i libri (il padre insegnava filosofia all’università), la didattica scolastica aveva abbandonato il riassunto per compiti più creativi. “Hi I am a kettle”, annunciava la prima frase, senza punteggiatura. Poe avrebbe applaudito l’arte di andare al dunque. Un insegnante di scrittura avrebbe ammirato la sicurezza del punto di vista. Entrambi avrebbero capito che il ragazzino sapeva cosa vuol dire raccontare: “Uff, fa proprio caldo su questo fornello. Ma amo il mio lavoro”. Scopriamo poi che lo sventurato bollitore è al servizio di una crudele famiglia che lo tormenta usandolo impropriamente.          Il ciclostilato di Stephen King (sigla dell’editore: A VIB BOOK, dove VIB sta per Very Important Book) è andato perduto. La paginetta di David Foster Wallace si trova, con altre trentaquattro casse di documenti e una decina di faldoni, all’Università di Austin, Texas. Ne dà notizia Newsweek, che ha visitato e fotografato l’archivio, mettendo sul sito non solo la paginetta, ma anche una serie di libri fittamente annotati, per uso personale e per preparare le lezioni di scrittura creativa al Pomona College. Salta subito agli occhi che David Foster Wallace sottolineava e scribacchiava sui margini a penna, dettaglio che conferma la nostra antica diffidenza verso chi osa solo leggeri segni di matita e mai farebbe un’orecchietta alla pagina. Negli spazi bianchi di “Lost in the Funhouse” di John Barth (“La casa dell’allegria”), appuntò personaggi e trama di un racconto che stava scrivendo. Non c’era miglior modo per dimostrare la sua antipatia per l’infelice stagione in cui la letteratura americana sembrava appannaggio dei professori universitari. A scanso di equivoci, liquida il collega Barth con “talmudic”: letteratura bisognosa di interpretazione.           David Foster Wallace la smania per i sofismi se l’era cavata studiando filosofia all’università: la sua tesi sul libero arbitrio esce ora presso la Columbia University Press, con il titolo “Fate, Time and Language”. Quando scriveva, come dimostrano i manoscritti preparatori per le oltre mille pagine di “Infinite Jest” (e pure le parti tagliate via), stava più attento ai personaggi che alle piroette linguistiche.

Mariarosa Mancuso

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