Affettività come vocazione (1/4)

L’affettività, se siamo capaci di far cogliere che Dio ci ha amato per primo, è la grande opportunità di scoprire l’identità vocazionale della vita umana.

Affettività come vocazione (1/4)

di Giuseppe Mari 


Introduzione

La prima idea che vorrei condividere con voi è la seguente: 50 anni fa è avvenuta una grande, rapida, profonda transizione culturale che si chiama “Contestazione”. Ora, se è avvenuta con la rapidità, con la pervasività, con l'efficacia che tutti possiamo constatare, vuol dire che c'era molto di secco, perché – come tutti sappiamo – solo quello che è secco prende fuoco velocemente e brucia rapidamente. La mia impressione, però, è questa: al di là tutto il secco che ci poteva essere, in questi ultimi decenni, accanto alla fioritura di esperienze pastorali, abbiamo anche sperimentato un certo “inaridimento” (tipico il caso delle vocazioni e della pratica sacramentale), come se – al di là delle intenzioni – quello che si è messo in discussione abbia faticato a condurre ad una effettiva ricostruzione: pensiamo, ad esempio, ad alcune “sperimentazioni” liturgiche il cui risultato è stata la disaffezione alla liturgia di una parte consistente del popolo di Dio.


In realtà, si tratta di un fenomeno più ampio che ha investito radicalmente l’Occidente, come mostra l’impressionante declino demografico. Nel 1965, quando sono nato io, in Italia ci sono state 950mila nascite, oggi scese a 450mila. C’è quindi un “buco” di mezzo milione di nati che infatti viene colmato dal fenomeno migratorio, rispetto al quale nessuno oggi, nemmeno le forze politiche tradizionalmente critiche, s’azzarda a dire che se ne può fare a meno: infatti, il dibattito si è sposato dall’immigrazione in quanto tale all’immigrazione clandestina. Per affrontare la questione, non credo che sia sufficiente il – pur auspicabile – sostegno dei servizi pubblici alla natalità. Si porta generalmente ad esempio la Francia che ha registrato una obiettiva “risalita” demografica e nella quale sono stati attivati servizi di sostegno alla natalità, ma non bisogna dimenticare che si è pervenuti al solo livello di “galleggiamento” (circa 2 figli per donna) cioè di stabilità demografica e che sul fenomeno incidono sensibilmente le nascite tra gli immigrati. Non intendo dire che sono inutili gli interventi di tipo socio-politico, ma che il problema, in radice, riguarda la mentalità, non solo i servizi “in solido” all’infanzia.


Non ho fatto l’esempio demografico per caso. Nella grande transizione culturale degli ultimi 50 anni la sessualità ha giocato un ruolo rilevante, essendosi verificato il mutamento di costumi proprio a partire dalla cosiddetta “rivoluzione sessuale”. Se quindi ora ci focalizziamo sull’affettività (di cui la sessualità è una delle espressioni), ci possiamo misurare con una delle questioni decisive relativamente al percorso seguito dalla nostra civiltà. Qual è l’opportunità che abbiamo oggi, dopo 50 anni? Di fare dei bilanci ossia di confrontare quello che è stato promesso con quello che abbiamo trovato. 


Ovviamente non ho alcuna nostalgia per un mondo nel quale la prostituzione era regolamentata attraverso i bordelli. Certamente si può tacciare quell’epoca di ipocrisia, ma non si può nemmeno trascurare il fatto che oggi la pratica della sessualità è andata incontro ad una deregulation nella quale la consensualità sembra costituire l’unico criterio etico. Naturalmente si tratta di un riferimento essenziale per distinguere rispetto alla violenza, ma non possiamo considerarlo sufficiente per il semplice fatto che tratta la sessualità come una qualunque pratica di scambio, mentre invece occorre ricordare che essa – come ogni altra azione umana – deve essere valutata secondo il criterio che riconosce nell’essere umano un fine e mai un semplice mezzo (come dicono Tommaso e Kant). Se ci si usa consensualmente, l’accordo reciproco non rende morale l’atto!


Non ho toccato casualmente il tema della violenza. 50 anni fa la “rivoluzione sessuale” ci ha promesso il sesso “edenico”, praticato secondo spontaneità, naturalezza… chi non è sensibile a un richiamo del genere? 50 anni dopo quello che sta emergendo in tutte le società “avanzate” è, in realtà, il sesso “delle caverne” perché la violenza registra l’imporsi del più forte (l’uomo) sul più debole (la donna e il bambino). Possiamo essere indifferenti a una simile “eterogenesi dei fini”? Non penso. Qualcosa non ha funzionato e dobbiamo – come educatori – avere il coraggio di dirlo e di metterci a cercare un’alternativa rispetto alla deregulation.


Veniamo a una seconda premessa: l'affettività non è soltanto un tema essenziale nella parabola storica degli ultimi 50 anni, ma è anche un elemento essenziale della pratica dell'educazione cristiana. Basta pensare al trinomio “donboschiano”: ragione, religione, amorevolezza, dove l'elemento affettivo è ben in evidenza sia perché don Bosco si è ispirato a san Francesco di Sales, sia perché è un uomo dell’Ottocento, il “secolo pedagogico” per eccellenza. L'800 è il secolo del romanticismo, che vuol dire non solo irrazionalità, ma anche razionalità in senso diverso da come l’ha concepita l’illuminismo ossia una razionalità che abbraccia tutta la persona coniugando ragione e sentimento. D’altro canto, nella vostra tradizione ascetica avete forme devozionali ben connotate anche in chiave affettiva. Forse le abbiamo talvolta sottovalutate, ma occorre avere ben chiaro il monito paolino circa la scienza che “gonfia” mentre la carità “edifica” (1Cor 8,2). In tal senso, l’affettività entra direttamente nell’educazione cristiana non come un’alternativa alla razionalità, ma come un fattore che restituisce la razionalità in quanto tratto umano. Da questo punto di vista, il monito di Benedetto XVI ad allargare l’idea (quindi anche la pratica) della razionalità è essenziale (cfr. Caritas in veritate, n. 31).


L’affettività, rettamente intesa, non è una valvola di sfogo, non è una dinamica di contorno, di complemento o di compensazione. È una dinamica conoscitiva. La razionalità si compone di intelletto, ma anche di senso. Il senso, la sensibilità è un canale conoscitivo, perché noi le domande le poniamo anche attraverso il sentimento, esattamente come, anche attraverso il sentimento, troviamo le risposte. La razionalità identifica l'essere umano come il vivente che si pone domande per trovare risposte, tutto qui. L'importante è però che questa dinamica di domanda e di risposta sia la più ampia possibile, non si restringa su un frammento, quello della razionalità discorsiva o calcolatrice. 


continua...

 

 

 

 

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