Donboscoland

Alberto Marvelli, «ingegnere della carità».

Domenica 5 settembre 2004 durante il pellegrinaggio nazionale dell'Azione Cattolica a Loreto, Giovanni Paolo II dichiarerà beato Alberto Marvelli. Una giovane vita fatta di passione sociale e di testimonianza cristiana. Nella sua parrocchia, Maria Ausiliatrice, tenuta dai Salesiani, esiste un fiorente oratorio, frequentato da quasi tutti i ragazzi della zona. La matrice della formazione umana, apostolica, spirituale di Alberto è salesiana. I Salesiani capiscono subito di che stoffa è fatto; lo impegnano, gli danno fiducia, lo guidano sulla via della crescita spirituale. A quindici anni è già generoso animatore dell'oratorio. Lavora col massimo impegno in mezzo ai ragazzi, animandoli entro una giusta visione del gioco e del divertimento, cercando di offrire loro molte possibilità di incontro.


Alberto Marvelli, «ingegnere della carità».

da Spiritualità Salesiana

del 01 luglio 2004 

Il cristiano che piaceva ai comunisti

Alberto Marvelli, «ingegnere della carità». Il fascino di una santità straordinariamente normale. Alberto ha un papà direttore di banca e una famiglia cristianissima. È nato a Ferrara nel 1918, ma a 13 anni con la sua famiglia si stabilisce definitivamente a Rimini, seguendo papà nei suoi spostamenti di lavoro. È un ragazzo di salute robusta e di temperamento impetuoso, ma è anche così serio che a tratti fa pensare a un uomo adulto. Il ginnasio lo supera tra tirate di studio e gare sportive clamorose. A 15 anni si iscrive al liceo classico. Ma proprio in quei mesi la famiglia è colpita duramente dalla morte di papà. Lui è già delegato aspiranti e animatore dell’oratorio nella parrocchia Maria Ausiliatrice. Insegna catechismo, anima le adunanze, organizza la messa dei giovani. A soli 18 anni diventerà presidente dell’Azione Cattolica.

Iniziando il liceo, Alberto comincia il suo Diario e scrive: «Dio è grande, infinitamente grande, infinitamente buono». Ma vi registrerà per tutta la vita la sua crescita di uomo e di cristiano. Vi leggiamo un «piccolo schema» rigido e forte che egli si dà. Si propone in particolare: preghiera e meditazione al mattino e alla sera, L’incontro con l’eucaristia, possibilmente anche tutti i giorni, la lotta contro i difetti più grossi: la pigrizia, la gola, l’impazienza, la curiosità… Un programma che Alberto attuerà per tutta la vita.

 

Studente pendolare

Tra i 60 candidati alla maturità classica Alberto si classifica secondo. Il 1° dicembre 1936 (a 18 anni) inizia il primo anno di ingegneria all’Università di Bologna. Comincia così la vita dello studente pendolare tra Rimini e Bologna. Studio e apostolato in entrambe le città. La donna di servizio della zia che lo ospita a Bologna testimonierà con le parole dei semplici: «Lo vedevo di giorno e di notte ammazzato di lavoro per l’università e l’apostolato. Qualche volta lo trovavo addormentato sui libri e con la corona in mano. Al mattino lo vedevo in chiesa alle 6 per messa e comunione. Se gli impegni non gli consentivano di comunicarsi prima, stava digiuno fino a mezzogiorno. Imponeva una formidabile penitenza al suo appetito».

Mentre Alberto sta terminando l’università, sull’Europa scoppia il ciclone della seconda guerra mondiale. Anche l’Italia vi è coinvolta. Laureando in ingegneria, dall’agosto al novembre 1940 Alberto è a Milano, impiegato nella fonderia Bagnagatti, sotto i primi bombardamenti. L’industriale testimonierà: «Trascorse presso di me alcuni mesi. Familiarizzò subito con tutti i dipendenti e particolarmente con i più giovani e i più umili. S’interessò dei bisogni familiari degli operai e mi prospettò le particolari necessità di ognuno, sollecitando gli aiuti che riteneva opportuni. Visitava gli ammalati, incitava gli apprendisti a frequentare le scuole serali. Infondeva in tutti un immediato e vivo senso di simpatia e cordialità».

30 giugno 1941. Mentre l’Italia inizia il suo secondo anno di guerra, Alberto si laurea in ingegneria industriale con il massimo dei voti. Subito dopo indossa pure lui la divisa grigioverde e parte per fare il soldato.

 

Il servizio militare e la guerra

Nel rigidissimo gennaio 1943 i russi scatenano l’offensiva su tutto il fronte ovest. L’Armir (armata italiana in Russia), che occupa il fronte sul Don, è costretta a una leggendaria ritirata sugli sconfinati campi ghiacciati, mentre i russi e il gelo uccidono. Lassù è appena arrivato Raffaello Marvelli, ed è ucciso in combattimento. Per mamma Maria è un’ora durissima. Alberto scrive sul Diario parole scarne, sanguinanti: «La guerra è un castigo per la nostra cattiveria, per punire il nostro poco amore a Dio e agli uomini. Manca lo spirito di carità nel mondo, e perciò ci odiamo come nemici invece di amarci come fratelli».

È destinato a una caserma di Treviso. Ed è qui che si compie il «miracolo» di Marvelli. Don Zanotto, parroco di S. Maria di Piave, ha scritto: «Quando l’ingegner Marvelli arrivò a Treviso, nella caserma di duemila soldati, tutti bestemmiavano e la malavita imperava. Dopo qualche tempo nessuno più bestemmiava, dico proprio nessuno, nemmeno i superiori. Il colonnello, da bestemmiatore, si diede a reprimere lui stesso, nei soldati, la bestemmia».

In settembre l’Italia si ritira dalla guerra. L’esercito si sfascia. Alberto è a casa. Ma la guerra non è finita. I soldati tedeschi hanno occupato l’Italia, e gli alleati intensificano i bombardamenti sulle nostre città.

 

Tra i rifugiati a San Marino

Il 1° novembre Rimini è investita dal primo bombardamento aereo. Ne subirà trecento e sarà ridotta a un tappeto di macerie. Occorre fuggire lontano, nella libera Repubblica di San Marino. In poche settimane, quel francobollo di terra libera passa da 14 mila a 120 mila abitanti.

Alberto vi arriva reggendo la cavezza di un asino. Sul calesse è la mamma. Giorgio e Geltrude spingono biciclette cariche di cibo con cui sopravvivere. Vengono accettati in uno dei cameroni del collegio Belluzzi. Altre famiglie sono nei magazzini della Repubblica, moltissime altre si ammucchiano nelle gallerie ferroviarie.

È facilissimo, in momenti come questi, chiudersi in se stessi, pensare alla sopravvivenza dei propri cari e basta. Alberto è invece al centro dell’assistenza, a disposizione di tutti. Scrive una testimone: «A sera recitava forte il rosario nei cameroni del collegio Belluzzi, poi andava a dormire alla meglio presso i conventuali; e al mattino, nella chiesa zeppa di sfollati, serviva la messa e si comunicava. Poi via di nuovo per tutte le vie e per andare incontro a tutti i bisognosi. Prendeva nota delle necessità, e quando non poteva arrivare, affidava ad altri il lavoro. C’era da andare nelle gallerie da dove la gente non osava uscire». Aggiunge Domenico Mondrone: «Ogni giorno faceva chilometri di strada in bicicletta raccogliendo roba da mangiare. Talvolta tornò a casa con il tascapane forato dalle schegge di granate che scoppiavano da ogni parte. Ma lui, con gli amici che ne emulavano il coraggio, non si arrestava».

 

Lo volevano sindaco

21 novembre 1944. Gli alleati entrano in Rimini. Tutto intorno sono paesi e boschi che bruciano, ingorghi di carri, camion, macchine. Morti e desolazione. Alberto vi torna con la famiglia. Trova la sua casa (colpita, ma ancora abitabile) occupata da ufficiali inglesi. I Marvelli si sistemano alla meglio nello scantinato. In quel terribile inverno (l’ultimo di guerra) Alberto diventa servo di tutti. Il Comitato di Liberazione lo incarica dell’ufficio alloggi, il comune gli affida il genio civile per la ricostruzione, il vescovo gli consegna i «Laureati cattolici» della diocesi. I poveri assediano in permanenza le due stanzucce del suo ufficio, lo seguono a casa quando va a mangiare un boccone con sua madre. Alberto non ne allontana mai neppure uno. Dice: «I poveri passino subito, gli altri abbiano la cortesia di aspettare». Dopo la pace, la miseria della gente continua. Nella guerra molti hanno perso tutto.

L’anno 1946 è mangiato giorno per giorno da infinite necessità, tutte urgenti. Alberto va a messa, poi è a disposizione. Alla fine di quell’anno ci sono le prime elezioni amministrative. Battaglie roventi tra comunisti e democratici cristiani. Un comunista, che vede ogni giorno in Marvelli non un democristiano ma un cristiano, dice: «Anche se perde il mio partito... purché risulti sindaco l’ingegnere Marvelli». Non lo diventerà. La sera del 5 ottobre cena in fretta accanto alla mamma, poi esce in bicicletta per tenere un comizio a San Giuliano a Mare. A 200 metri da casa sua, un camion alleato correndo a velocità pazzesca lo investe, lo scaglia nel giardino di una villa e scompare nella notte. Viene raccolto dal filobus. Due ore dopo muore. Ha 28 anni. Quando la sua bara passa per le strade, i poveri piangono e mandano baci. Un manifesto proclama a caratteri cubitali: «I comunisti di Bellariva si inchinano riverenti a salutare il figlio, il fratello, che ha sparso su questa terra tanto bene».

 

don Teresio Bosco

http://www.diocesi.rimini.it/albertomarvelli/

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