Rubrica di educazione a cura di Richard Kermode. Una riflessione sui conflitti.
Una cronaca densa di conflitti, chiede una presa di posizione.
«La giustizia può alleviare il senso perenne di frustrazione e sconfitta che proviamo dinnanzi alla lapide di mia sorella. (…) Puoi chiedere scusa se per errore hai urtato lo specchietto della mia auto. Non puoi chiedere scusa se hai avvelenato e ucciso mia sorella e mio nipote (…) Dopo averli uccisi barbaramente meriti di svegliarti ogni giorno in galera ripensando a ciò che hai fatto e provando ribrezzo per te stesso».
La risposta a delle dichiarazioni fatte dalla persona accusata di omicidio. Parole comprensibili, profondamente umane. Chi, nell’aver ricevuto un torto, non pensa ad una compensazione. Hammurabi, lasciandoci un codice, metteva nero su bianco questo sentimento umano: “occhio per occhio”. È una logica che ha il suo senso: tu devi sentire, in qualche forma, quello che sento io.
Può tale logica, sul serio, alleviare il senso di dolore, di sconfitta, di frustrazione? Domanda impossibile, esprimo però una preferenza per un’altra direzione di senso.
In una testimonianza, Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, parla dell’importanza della giustizia penale, come necessaria presa di posizione, decisa, sulla violenza. Ma dell’aspettativa di stare meglio grazie ad una pena molto severa, dice: «non è così… non è quella la strada. Tu rimani lì con le tue ferite…», che accadono ogni giorno, in una sorta di dittatura del passato. Poi aggiunge: «l’orrore ti rimane dentro e non ha parole… passa il tempo e le cose non migliorano… ti accorgi che quelle ferite… le stai passando a chi viene dopo di te… che quel male che è stato fatto cammina, lavora… colpisce altre persone… Tu vivi prigioniero di questi sentimenti che purtroppo non restano solo tuoi… A quel punto tu dici: io voglio uscirne… basta! Questo “basta!”… significa che questo male che è stato fatto finisce con me, non andrà da nessuna parte, non farà più male a nessuno».
So long!
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