Da questa trappola si è provato a staccarsi, alzando il livello dell'impegno anche in campo linguistico: in alcune zone d'Italia e in alcuni mondi associativi, l'animatore è diventato educatore. Se l'intento è lodevole, la scelta del mezzo è...
Una riflessione sul ruolo degli animatori in oratorio. Un viaggio tra i tanti significati per poi scoprire che l’animazione o educa o non è animazione.
Tanti tipi di animazione
Di animazioni ne esistono tante.
C’è il cinema d’animazione, quello delle figure (inizialmente rappresentate su “cartoni” o arazzi) che prendono vita, movimento, quindi si animano.
C’è l’animazione turistica, quella dei villaggi, del tempo libero per eccellenza. Che ha contagiato anche il mondo dello spettacolo e che definisce “animazioni” quei particolari interventi molto interattivi con il pubblico.
Gli Anni Settanta hanno portato poi l’animazione teatrale, quel movimento che, staccandosi dai sistemi classici del teatro in mano a pochi, arriva nelle periferie e vuole lavorare sui gruppi attraverso il teatro.
C’è l’animazione socioculturale, che ha sviluppato un intervento comunitario per prendere coscienza e sviluppare il potenziale represso delle persone.
C’è l’animazione culturale, che vede nell’animazione un modello educativo o un impegno nel mondo delle comunicazioni sociali.
C’è anche il reparto di ri-animazione, dove la medicina si occupa dei pazienti che versano in condizioni critiche.
C’è infine quell’animazione particolarissima che è l’impegno dei giovani negli oratori e nei centri educativi.
Quest’ultimo è un ambito su cui si va investendo sempre più: anzi, spesso questo è l’unico motivo per cui dei giovani restano negli oratori, che si riempiono soprattutto d’estate con azioni educative specifiche.
Vogliamo parlare proprio di loro, chiedendoci se ha senso chiamarli animatori e che senso ha la loro missione.
Animatori o educatori?
Che il loro sia un ruolo educativo, è chiaro. Almeno nell’intenzionalità e nella progettualità. La relazione è asimmetrica; l’obiettivo è la crescita personale dei ragazzi attraverso il gruppo (ma senza dimenticare i cammini personali) e attraverso dinamiche e linguaggi più accattivanti (ma senza dimenticare la sostanza educativa).
Proprio a causa di quest’ultimo obiettivo, spesso, si è caduti nella trappola di scambiare il mezzo con il fine, ed ecco che agli oratori pensati da don Bosco per formare “buoni cristiani e onesti cittadini” si passa ai “giocatori” criticati da don Milani, cioè a quei centri che occupavano il tempo libero, ma non facevano crescere i ragazzi.
Da questa trappola si è provato a staccarsi, alzando il livello dell’impegno anche in campo linguistico: in alcune zone d’Italia e in alcuni mondi associativi, l’animatore è diventato educatore.
Se l’intento è lodevole, la scelta del mezzo è almeno opinabile. Non definiamo “medico chirurgo” un animatore che disinfetta una ferita a un bambino, né, tantomeno, lo chiamiamo “psicologo” se ha accettato la richiesta di un ragazzo per parlare di un problema. L’educatore è un professionista (quindi seriamente ed accademicamente preparato) per un incarico tutto particolare.
Certo, tutti gli adulti hanno un ruolo educativo verso altri, soprattutto quando se ne prendono la responsabilità, ma quello che connota il suo impegno educativo in un ambito è il suo ruolo: l’insegnante deve educare, ma nel suo essere insegnante, non in quanto educatore. E così è per il genitore, il catechista, il volontario e… l’animatore. Che quindi non è automaticamente un educatore, nonostante educhi col suo essere animatore.
Non è mai corretto cambiare il termine, perché il mal-uso ne ha deviato il senso. La strada corretta, sicuramente più faticosa, è ripercorrere il vero significato e difenderlo a spada tratta.
Per una vera animazione
I vari esempi di animazione appena descritti hanno in comune alcuni punti.
La vita. O perché in pericolo, o perché spenta, o perché immobile, o ancora perché non potenzialmente espressa, l’animazione tende a dare anima (= vita). I disegni si muovono e diventano veri, i malati guariscono, le persone si accendono, le consapevolezze anche.
Il coinvolgimento. L’animazione è un metodo che prevede un coinvolgimento attivo del “pubblico”, che proprio grazie a questo coinvolgimento non è più spettatore ma attore esso stesso. Questo vale sia per l’ambito più propriamente artistico, sia per quello più culturale. Far diventare protagonisti: è questo l’obiettivo di un intervento di animazione.
E questo è vero anche nello stesso cinema d’animazione: Disney diceva che il suo lavoro non è muovere i disegni, ma muovere le emozioni. In sala doveva esserci un coinvolgimento delle persone talmente forte da identificarsi e da cogliere addirittura degli insegnamenti. Ne è la prova Facebook, con le frasi Disney continuamente rilinkate da diversi giovani e con corollario il “Mi piace” e faccine varie.
La creatività. L’idea di inventarne di tutti i colori e di usare tutti i linguaggi possibili: multimediale, plastico, ludico, grafico, musicale, coreografico, scenografico, ecc.
Ma anche le diverse modalità di approccio personale: di contatto, di gruppo, di comunità, di dinamica più intellettuale o più fisica, ecc.
Il senso. Inteso come contesto e anche come direzione. Questo è il “senso” dell’animazione. Se sicuramente un obiettivo è far diventare protagonisti, altrettanto sicuramente incide la motivazione: il “perché si fa animazione?”, inteso non solo a livello personale, ma anche a livello di contesto (“dove si fa animazione?”).
Può dispiacere pensare che questa riflessione sia stata più proficua nei villaggi turistici, dove oramai parole come “regolamento”, “stile”, “etica”, siano quanto mai presenti e preponderanti sull’attività di animazione.
L’animazione in oratorio è quindi obbligata a riscoprire questo “senso” e non aver più paura di nasconderlo, perché è proprio quello che permette di vivere appieno le altre tre dimensioni.
Ecco quindi che “animatore” diventa una parola tutt’altro che banale o inefficace, specie se per formarsi in questo compito su vuole lavorare proprio su temi così forti come la vita, il coinvolgimento, la creatività e il senso. Sono filoni che riaccendono il discorso educativo (relazione, sostegno, ascolto, empowerment), che non hanno paura di lavorare sulle tecniche (comunicative, espressive, laboratoriali, sportive).
Perché finalmente non sono più viste in antitesi con il bene finale del ragazzo (la sua crescita), ma vengono incorniciate in quel senso che fonda l’animazione in oratorio: perché senza oratorio non ci sarebbe questo tipo di animazione.
Chiamiamola quindi “animazione oratoriana”, anche se alcune parrocchie la vivono anche senza avere un oratorio.
Oppure chiamiamola “animazione educativa”, ma forse non dice tutto quello che dovrebbe dire…
Oppure ancora con grande coraggio, chiamiamola animazione. E basta. Perché piuttosto sono gli altri usi educativi che devono differenziarsi da questo, trovando un altro aggettivo che ne qualifichi il genere, lo stile e la profondità.
Perché, in fondo, le altre animazioni prendono tutte in prestito da quell’intuizione “oratoriale” (nel senso salesiano del termine), che si fonda sull’impegno di chi accompagna la crescita di bambini e ragazzi. E lo fa con un motivo che dà senso non solo a se stesso ma anche alle sue azioni; lo fa con una molteplicità di linguaggi, iniziative e modalità.
Chiamiamola “animazione”, difendiamone il profondo significato, rendiamo orgogliosi i giovani che la vivono!
Facendo così, saranno animatori educativi, animatori creativi, animatori vivi e vivificanti. Saranno Animatori.
Gigi Cotichella
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