Quanta acqua è dovuta passare sotto i ponti, acqua insanguinata da omicidi di servitori dello Stato e gente comune, politici e magistrati, perfino di tre sacerdoti tra il 1916 e il 1920, fatti fuori per avere messo i bastoni tra le ruote degli interessi economici dei boss.
La mafia è una struttura di peccato, incompatibile col Vangelo. La posizione della Chiesa siciliana nei confronti dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ma anche della sub-cultura mafiosa, è ormai assodata, confortata da documenti ufficiali, interventi, omelie. Il sigillo è giunto con il riconoscimento del martirio di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia in odio alla fede. Ma quanta acqua è dovuta passare sotto i ponti, acqua insanguinata da omicidi di servitori dello Stato e gente comune, politici e magistrati, perfino di tre sacerdoti tra il 1916 e il 1920, fatti fuori per avere messo i bastoni tra le ruote degli interessi economici dei boss.
Un lungo percorso di decifrazione e assunzione di consapevolezza, che il teologo monsignor Cataldo Naro, scomparso nel 2006, in un suo saggio divideva in tre fasi: del silenzio, della parola, del grido (dopo l’intervento di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993). Ma si sarebbe potuto fare uno scatto in avanti prima? Quando la violenza mafiosa cominciò a piombare nelle città isolane con un’aggressività che seppe trasformare Palermo in Beirut? Forse sì, a giudicare da uno scambio epistolare ai massimi livelli della gerarchia ecclesiastica, che assume un significato particolare nell’anno nella beatificazione di don Puglisi e cinquant’anni dopo la strage di Ciaculli, quando il 30 giugno 1963 una Giulietta imbottita di tritolo causò la morte di sette esponenti delle forze dell’ordine. L’ultimo numero del mensile “Jesus” ricostruisce il clima di grande fermento che seguì quel bagno di sangue e riporta il testo della lettera inviata dal Vaticano al cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, e la risposta del presule. Pur molto attento ai problemi dei minori, delle donne in difficoltà, degli anziani, come dimostrano le molteplici iniziative innovative in campo sociale, quest’ultimo ridimensionava il ruolo della mafia nella società del tempo e respingeva qualsiasi legame tra mafia e ambienti religiosi.
Già citate in alcuni volumi di studiosi del rapporto tra Chiesa e mafia e in parte pubblicate dalla rivista “Segno” dei padri redentoristi di Palermo, queste lettere rivelano come il pontificato di Paolo VI avesse consapevolezza della gravità del problema mafioso in Sicilia. Complice anche la testimonianza del pastore Pietro Valdo Panascia, guida della comunità valdese a Palermo, che pubblicò proprio nei giorni successivi alla strage un manifesto in cui faceva appello «a quanti hanno la responsabilità della vita civile e religiosa» per puntare «alla formazione di una più elevata coscienza morale e cristiana».
Il 5 agosto 1963 monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato vaticana, scrisse una lettera al cardinale Ruffini, in cui chiedeva di prendere le distanze dalla mafia pubblicamente. Citando la coraggiosa presa di posizione del pastore Panascia, Dell’Acqua si domandava se non fosse «il caso che anche da parte ecclesiastica sia promossa un’azione positiva e sistematica, con i mezzi che le sono propri per dissociare la mentalità della così detta mafia da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della buona popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana».
Ma il cardinale Ruffini si disse assolutamente ostile a qualsiasi iniziativa. Mostrando «sorpresa che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dell’Isola di Sicilia, dai social comunisti». Così egli liquidava il fenomeno mafioso come «delinquenza comune e non di associazione a largo raggio». Sarebbero dovuti passare almeno due decenni perché la Chiesa palermitana prendesse piena consapevolezza dell’entità del problema mafia, con le omelie del cardinale Salvatore Pappalardo ai funerali dei morti eccellenti. Ma la svolta definitiva avvenne all’indomani delle celebri parole di papa Wojtyla il 9 maggio 1993 ad Agrigento e subito dopo l’omicidio di don Pino Puglisi, il 15 settembre 1993. Nacque un documento della Conferenza episcopale siciliana (maggio 1994), Nuova evangelizzazione e pastorale, che è una pietra miliare. «Tutti coloro che aderiscono alla mafia o pongono atti di connivenza con essa – scrissero i vescovi – debbono sapere di essere e di vivere in insanabile opposizione al Vangelo di Gesù Cristo e, per conseguenza, di essere fuori della comunione della sua Chiesa».
Alessandra Turrisi
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