“A che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima? Oppure: cosa può dare l'uomo in cambio della sua anima?” L'evangelista Luca ha una variante importante: “Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero se poi perde o rovina se stesso?”. Non è la prima volta che si leggono queste parole, ripetute da tre evangelisti in maniera abbastanza perentoria...
del 18 settembre 2009
“A che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la propria anima? Oppure: cosa può dare l’uomo in cambio della sua anima?” (1).
L’evangelista Luca ha una variante importante: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde o rovina se stesso?” (2).
Non è la prima volta che si leggono queste parole, ripetute da tre evangelisti in maniera abbastanza perentoria.
Il fatto che questa esortazione è uscita dalla bocca di Gesù, tutto lascia a supporre che l’identità vada attribuita a Lui.
Il contenuto di queste parole è sostanzialmente il seguente: la realtà umana è la fusione di due elementi. Uno costituito dalla dimensione biologica e da attività, interessi che sono immanenti all’esistenza e quindi transeunti. Con la morte tutto questo ha il suo termine, il suo capolinea. Niente può accompagnare l’uomo nei suoi destini di oltretomba. Il secondo: ciò che resta dell’uomo non sono queste appartenenze o proprietà accessorie ma il suo IO, la sua personalità, la sua entità, quello cioè che con un termine solo viene chiamato ‘anima’.
Il differente linguaggio di Luca evidenzia l’identificazione dell’anima dell’uomo con lo stesso uomo, con la sua parte immateriale, non contingente, immortale. L’anima è il ‘se stesso’, il suo IO.
Ad una semplice riflessione spassionata e realistica appare subito la differenza tra due insiemi di valori: da una parte ci troviamo di fronte ad una serie di fattori coinvolgenti la vita umana che rivestono una grande importanza: la salute, il lavoro, il successo, la realizzazione, l’amore, gli interessi materiali, il conto in banca, la tranquillità economica, la casa. Tutte cose delle quali ci si deve assolutamente preoccupare. Chi non lo fa dimostra di essere un grande incosciente. Il messaggio biblico e la dottrina sociale della Chiesa obbligano l’essere umano ad occuparsi di tutto questo.
Nonostante ciò, si devono mantenere le proporzioni. Si tratta di doveri importanti, fondamentali, ma non vanno pensati come ‘assoluti’.
L’uomo non è riducibile alla dimensione terrena, seppur deve impegnarsi nella sua realizzazione. C’è un’altra componente, imperitura che deve avere la precedenza ed il primato, proprio perché immortale.
Anche su questo il vangelo ci riporta una parabola istruttiva: “Le terre di un uomo ricco avevano dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé così: ‘Ora non ho più dove mettere i miei raccolti; che cosa farò? Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi, così vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Bene! ora hai fatto molte provviste per molti anni. Riposati, mangia, bevi, divertiti.’ Ma Dio gli disse: ‘Stolto, questa stessa notte dovrai morire, e a chi andranno le ricchezze che hai accumulato?’ Così accade a chi accumula ricchezze solo per sé e non si arricchisce davanti a Dio” (3).
 
 
Una lettura frettolosa potrebbe far supporre che queste riflessioni sono ‘cristiane’ in quanto sono contenute nel vangelo, fanno parte di una visione cristiana e riguardano i destini eterni, paradiso - inferno, come descritto nei libri di catechismo.
Questa interpretazione non è sbagliata ma ‘esclusivista’. Infatti può indurre a pensare che tali riflessioni siano monopolio del cristianesimo e, per questo, coinvolgono soltanto gli aderenti a questa religione. Inoltre il ‘predicare’ queste verità sull’uomo può venire scambiato come forma di proselitismo, il voler imporre ad altri, non cristiani, una concezione della vita e dell’uomo tipicamente cristiana.
Invece ad una riflessione più spassionata e scientifica, libera da pregiudizi ideologici, non condizionata dalla cultura dominante, appare subito che non si tratta di una scoperta… originale di Gesù. E’ vero che questa è ‘sua’ dottrina ma non nel senso che l’ha ‘inventata’ lui. L’ha certamente ampliata, approfondita, maturata nelle sue componenti, meglio motivata, ma la ‘paternità’ non è sua.
Dobbiamo andare un po’ indietro nei secoli e scopriremo un precursore, colui che ha intuito questo e ne ha fatto un contenuto essenziale del suo messaggio, un qualcosa di tanto importante e decisivo per l’uomo da preferire la morte pur di non rinnegare questa sua concezione antropologica. Parlo evidentemente di Socrate, che ha potuto maturare queste sue certezze nell’alveo della cultura filosofica greca.
La parte più essenziale di tutto il messaggio socratico è infatti quello che lui usava chiamare: “LA CURA DELL’ANIMA”.
Questa ‘cura dell’anima’ è la formazione interiore dell’uomo, di una coscienza salda e incrollabile. Si tratta di “un’aspirazione ad incarnare l’eterno nel tempo e nel proprio essere, un’aspirazione, nello stesso tempo, a resistere nell’uragano del tempo, a resistere in tutti i pericoli che questo comporta, a resistere quando la cura dell’anima mette l’uomo in pericolo” (4).
Questo ci porta a cambiare l’angolo di visuale. Non si tratta di una concezione dell’uomo solo cristiana ma ‘naturale’. Il discorso non è religioso ma filosofico – antropologico.
Parlare del primato dell’anima significa semplicemente esprimere la verità sull’uomo in quanto tale. Questa è la grande definizione di Socrate dell’uomo, dato che per lui l’anima è l’io consapevole, è la personalità intellettuale e morale. “L’uomo è la sua anima, dal momento che è l’anima che distingue l’uomo da qualsiasi altra cosa” (5).
 
 
Chiarire questo punto mi sembra oggi indispensabile, dato che si parla molto della nuova Europa e delle sue radici. A questo riguardo ha ben precisato Jan Patočka, forse il più grande pensatore della Repubblica Ceca: “Quello che qui si costituisce, con questa filosofia della cura dell’anima, è ciò che farà la specificità della vita europea… L’Europa è nata da questo motivo, vale a dire dalla cura dell’anima, ed è morta per il fatto che si è lasciata velare nuovamente nell’oblio… L’interiorità caratteristica del cristianesimo è contenuta in Platone solo in embrione, nell’idea della libertà e della sua connessione con la finitezza, con la mortalità e della cura dell’anima. Ma, nondimeno, da questo embrione è nata l’Europa; tutto è nato da qua” (6).
Se Socrate ha maturato questa idea, l’argomento era già stato trattato prima di lui, da Democrito. Qual è il senso della vita? E’ necessario arrivare fino ad una profonda conoscenza di se stessi, come diceva l’oracolo di Delfi. Ma per assimilare tale conoscenza è necessaria una forza, un agente capace di compiere questa eccezionale attività: la nostra anima. Democrito prosegue tirando le conclusioni: occorre una disciplina dell’anima, prendersi cura dell’anima affinché sia capace di un simile compito.
Ma cosa intende lui con ‘cura dell’anima’?: preoccuparsi che essa sia in grado di vivere a contatto con ciò che è eterno, imperituro. L’anima deve liberarsi dalla zavorra che la tiene prigioniera alla terrestrità. Nello svolgere questa attività non ci si deve vergognare. Così si esprime in un frammento: “Non ci si deve vergognare più dinanzi agli uomini che dinanzi a se stessi; e non si deve fare il male più facilmente quando nessuno verrà a saperlo che quando lo sapranno tutti; ma bisogna vergognarsi soprattutto dinanzi a se stessi ed imprimersi nell’anima questa norma, onde non fare nulla di sconveniente” (7). Questo frammento ci orecchia un versetto evangelico: “Se qualcuno si vergognerà di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando ritornerà nella sua gloria” (8).
 
 
Socrate riprenderà l’eredità di Democrito. L’anima viene curata quando è orientata verso il bene. Dalla dimensione intellettuale si passa a quella etica: fare il bene. Il Filosofo identifica la cura dell’anima con la capacità di discernere ciò che è buono. L’esame di ciò che è buono è la cura dell’anima per Socrate. Per cui la cura dell’anima è interamente interiore. In questo modo l’anima si trasforma migliorando interiormente; orientandosi verso il bene, si identifica con il Bene. Giovanni Reale commenta: “Per Socrate la ‘virtù’ (arete) è conoscenza e il vizio è ignoranza. Naturalmente non si tratta di una particolare conoscenza tecnica, ma della conoscenza suprema del bene e del male, con tutto ciò che essa comporta… Dobbiamo incentrare la nostra attenzione su un altro aspetto: se l’uomo è la sua anima, il compito principale dell’uomo in quanto uomo è quello di curare la sua anima” (9).
Infatti è proprio questa esortazione che il Filosofo rivolgeva continuamente ai suoi allievi: “Non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze, né di alcun’altra cosa prima e con maggior impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile” (10).
E’ interessante notare che Socrate condiziona la bellezza del corpo alla bontà dell’anima. Affronta questo problema nel Carmide. Spiega che per rendersi conto della bellezza di un ragazzo bisogna prima accertarsi se costui sia in possesso ‘di una piccola cosa’, ossia se oltre il corpo abbia anche l’anima bella: “Per Eracle, state parlando di uno che non dovrebbe temere confronti, se solo possedesse un’altra piccola cosa. Quale? Chiese Crizia. Un’anima bella.. Perché allora non spogliamo la sua anima e non la esaminiamo prima del suo aspetto?” (11). E’ per questo che il Reale conclude: “E’ evidente, in base a quanto si è detto, che la vita dell’uomo raggiunge il suo fine ultimativo curando, oltre che il suo corpo, e ancora più di esso, la sua anima” (12).
Il Card. Martini ha attualizzato questo messaggio ai nostri giorni: “Quando incontriamo una persona ricca di bontà, di generosità, di dedizione agli altri, di mitezza, dal cuore magnanimo e capace di perdono, ci accorgiamo che il suo volto – fosse puro rugoso come era il volto di Madre Teresa di Calcutta – è bello di una bellezza vera, luminosa, interiore, spirituale, di una bellezza attraente perché irradia gioia, serenità, armonia, pace” (12 bis).
Senofonte commenta: “In realtà Socrate ne distolse molti (di giovani) da tali vizi rendendoli amanti della virtù e dando ad essi la speranza che, se si prendevano cura di se stessi, diventavano eccellenti nel bello e nel bene” (13).
Jaeger ha scritto: “Ecco qualcosa di nuovo… portatovi dal pensiero di Socrate: ed è il mondo interiore… Quello che colpisce è che quando Socrate, in Platone come in altri Socratici, pronuncia questa parola ‘anima’ vi pone sempre come un fortissimo accento e sembra avvolgerla in un tono appassionato e urgente, quasi di evocazione. Labbro greco non aveva mai, prima di lui, pronunciato così questa parola… La parola ‘anima’, per noi, in grazia delle correnti spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole: ‘servizio di Dio’ e ‘cura d’anime’ essa suona cristiana. Ma questo alto significato, essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protrettica di Socrate” (14).
E deve essere realizzata a qualunque costo, anche quando questo può essere rischioso, quando viene realizzata in un contesto comunitario al quale la cura dell’anima non interessa molto. Quanto è attuale questa esortazione di Socrate ai nostri giorni!
Platone ci apre un altro spiraglio: la cura dell’anima si sviluppa attraverso la dimensione riflessiva, il pensiero che indaga continuamente.
E’ necessario che l’uomo sviluppi la sua capacità pensante, valorizzi la sua componente razionale. Eppure proprio questo è il grande attentato all’uomo di oggi: atrofizzarlo nel cervello, ubriacarlo di notizie, di rumori, di falsi miti; l’importante che non si fermi a pensare, a riflettere.
In un libretto non scritto di recente si legge: “L’importante è non restare soli mai, neppure per un momento, soli e in silenzio. Si rischierebbe di cominciare a pensare” (15).
L’Autore si esprime in senso ironico, per criticare questo attentato al pensiero. Purtroppo oggi questo rischio è più attuale di ieri. Si cerca di formare un homo tecnologicus, non un uomo pensante. Ma in questa maniera si affossa la cura dell’anima.
“L’anima nel suo rapporto con se stessa scopre l’eternità. Essa tende verso l’eternità, e il suo problema più proprio, il problema dello statuto del suo essere, è il problema del rapporto con l’eternità… E’ il terzo momento, la terza grande problematica che deriva dalla cura dell’anima, il problema dell’eternità dell’anima” (16).
 
 
La sede del divino
 
Per Socrate e Platone l’anima umana è l’IO consapevole, la parte più intima dell’essere umano. La parte più intima del mio intimo. Questo recesso più nascosto, inaccessibile, l’inconscio, non è solo la sede della personalità ma anche il ‘luogo’ simbolico della presenza di Dio nella sua creatura.
La filosofia greca non poteva arrivare a tanto ma ci si è avvicinata.
Il pensiero di Socrate è riportato nel Fedone dove si legge: “L’anima è in sommo grado simile a ciò che è divino” (17).
Quando la dottrina cristiana ci dice che Dio Trinità viene ad abitare nel battezzato, prende dimora nella sua anima, basandosi sulla garanzia della promessa di Cristo: “Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (18), non fa altro che confermare la presenza del divino in noi, già intravista dalla speculazione greca.
Il luogo di questo incontro dell’anima con il suo Dio è l’anima stessa, nel centro più profondo del suo essere. I Santi hanno scritto: “Dio abita nel centro più intimo dell’anima” (19); ed ancora: “L’intimo fondo dell’anima è il luogo dove Dio abita completamente solo” (20).
Il Concilio ha identificato questo ‘luogo’ con la coscienza: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella intimità propria” (21).
E’ da queste profondità che Dio parla. E’ in questa intimità del cuore che Egli opera l’incontro con l’uomo.
Quindi per il cristiano la ‘cura dell’anima’ greca, si traduce nella interiorizzazione, nel raccoglimento, nella vita di comunione con questo Dio che dimora in lui.
S. Agostino ha scritto: “Non andare fuori di te, ritorna in te stesso. La verità dimora nell’uomo interiore” (22).
Gesù ci invita ad entrare nella nostra camera e di chiudere la porta (23). Si tratta della camera del nostro animo, della ‘cella del cuore’, come la chiamano gli induisti.
E’ lì dove si può realizzare il rendez-vous amoroso con Dio. E’ il luogo del silenzio dell’umano, nel senso che nessuno può entrarvi, in quanto parte riservata soltanto a Lui.
Il risultato sarà una grande pace, perché il Dio, Padre di Gesù e Padre nostro, è il Dio della pace.
Ora si può capire la riflessione di Agostino: “Signore, ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (24).
Tommaso da Kempis commenta: “Rimani a lungo con lui nella tua cella interiore, perché non troverai altrove pace così grande” (25). Ma prima di lui, Teofane il Recluso così si esprimeva: “Dio chiede definitivamente il vostro cuore, e il cuore vuole Dio, perché senza Dio non sarà mai sazio, si annoia di tutto” (26).
Adesso si può comprendere la correlazione tra il pensiero greco e quello cristiano. Nel primo la cura dell’anima consiste nella pratica delle virtù; nel secondo nell’amore. L’essenza del cristianesimo è l’amore. La vita morale ne è la logica conseguenza: se uno ama, evita tutto ciò che non è gradito all’amato, pratica la virtù.
Con questo non voglio sminuire la profonda intuizione greca. Socrate può essere paragonato ad un profeta ed un precursore, mandato dalla provvidenza divina per preparare l’umanità ad accettare il grande salto di qualità realizzato da Cristo.
Socrate avendo insistito sull’urgenza della cura dell’anima già quattro secoli prima di Cristo, si pone come una controprova delle premure divine, dell’amore pedagogico di Dio.
In questo modo realmente lo sviluppo pre-cristiano del pensiero è stato una preparazione per accettare il pensiero incarnato, il VERBO.
 
 
Note
 
(1) Mt. XVI, 26 s.; Mc. VIII, 36.
(2) Lc. IX, 35.
(3) Lc. XII, 16-21).
(4) Jan Patočka, Platone e l’Europa, Vita e Pensiero, Milano 1998, p. 116.
(5) Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani, Milano 2004, vol. II, p. 136.
(6) Jan Patočka, o.c., p. 98 s. e 179.
(7) Democrito, fr. 68 B 264, Diels – Kranz.
(8) Lc. IX,26.
(9) Giovanni Reale, Corpo, anima e salute, Cortina Editore, Milano 1999, p. 173.
(10) Platone, Apologia di Socrate, 30 B.
(11) Platone, Carmide, 153 D 154.
(12) Giovani Reale, o.c., p. 259.
(12 bis) Carlo Maria Martini, Sul Corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000, p. 38.
(13) Senofonte, Memorabili, 12, 2-8.
(14) W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, vol. II, p.
62.
(15) Giacomo Biffi, Il quinto evangelio, Ancora, Milano 1970, p. 31.
(16) Jan Patočka, o.c., p. 155.
(17) Platone, Fedone, 80 b.
(18) Giov. XIV, 23.
(19) S. Elisabetta della Trinità, Scritti, Roma 1967, p. 377.
(20) Edith Stein, Scientia Crucis, Ancora, Milano 1960, p. 183.
(21) Gaudium et Spes, n. 16; cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1776.
(22) De vera religione, 39, 72.
(23) Cfr. Mt. VI, 6.
(24) Confessioni, I, 1,1.
(25) Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, I, 20.
(26) Teofane il Recluso, La vita spirituale – Lettere, Città Nuova, Roma 1996, p. 226.
 
mons. Vitaliano Mattioli, don Gabriele Mangiarotti
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