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Atene, Gerusalemme e il dialogo con l'islam

L'ultimo numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale dell'Università Cattolica di Milano diretto da Lorenzo Ornaghi, apre con un editoriale che in tre pagine folgoranti connette saldamente tra loro i due fatti di Chiesa più notevoli - per l'Italia ma non solo - di questa seconda metà del 2006: la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona e il convegno della Chiesa italiana a Verona. La tesi di partenza è che il rapporto tra ragione e fede, tra Atene e Gerusalemme, messo in luce dal papa è “essenziale per la riflessione culturale e l'azione politica” d'oggi.


Atene, Gerusalemme e il dialogo con l’islam

da Quaderni Cannibali

del 15 novembre 2006

Ci sono stati aspetti per così dire grotteschi nella vicenda legata alla lectio magistralis di Benedetto XVI all’Università di Regensburg (12 settembre 2006). A chi lo ha letto, il discorso si è immediatamente imposto per la consueta chiarezza di prospettive, mentre sulla stampa il testo veniva presentato in un’ottica che si potrebbe con ragione definire distorta.

Benedetto XVI partiva dal rapporto tra ragione e fede, che non è estrinseco, ma strutturale: la ragione è in effetti un tratto essenziale perché si possa dire che l’uomo è “immagine” di Dio. In particolare, è la ragione greca ad aver incontrato l’annuncio biblico: da questo intreccio è nata l’Europa, che raccoglie l’eredità di Atene e Gerusalemme, filtrate grazie alla preziosa sapienza istituzionale di Roma. Il nesso originario tra ragione e fede si è progressivamente indebolito nel corso dell’epoca moderna, durante la quale la riflessione teologica e la temperie culturale a più riprese si sono reciprocamente influenzate nella direzione di una de-ellenizzazione del cristianesimo. In ultima analisi, tale vicenda rispecchia quella più ampia della separazione di fede e ragione, che rappresenta la discussa cifra della modernità.

A questo punto dobbiamo chiederci se la separazione tra fede e ragione sia ancora difendibile oppure vada abbandonata di fronte ai problemi che sorgono non già dalla tradizione precedente, bensì dalla modernità stessa.

Il ricorso alla tecnologia – finalizzato non più ad addomesticare la natura (a renderla cioè casa dell’uomo), ma a controllare l’uomo inteso come parte della natura – si è fatto sempre più massiccio, con esiti preoccupanti. Dopo aver conosciuto, nel corso del XX secolo, gli strumenti di distruzione di massa, assistiamo oggi a un’invasione tecnologica che coinvolge tutti gli aspetti dell’esistenza umana e della realtà naturale. L’appello alla tolleranza verso le altre opinioni (alle quali viene ridotta la fede) esprime più cinismo che rispetto: non è tanto espressione di cortesia nei confronti degli altri, quanto di un generico scetticismo secondo il quale nessuna fede, proprio perché non va presa sul serio, deve diventare motivo di scontro. L’esclusione della fede dall’arena della ragione ci allontana dal resto del mondo: è proprio l’Occidente senza Dio a spaventare gli interlocutori non occidentali, aveva fatto notare Benedetto XVI nell’omelia pronunciata durante la Messa del 10 settembre 2006, a München.

Chi ha letto il discorso di Regensburg si è trovato di fronte a un affresco suggestivo, che offre una chiave di lettura essenziale per la riflessione culturale e l’azione politica. Occorreva prenderlo sul serio, e così ha fatto la maggior parte, anche se solo alcuni hanno accettato la premessa implicita, e cioè che ci sia una differenza fondamentale tra il vero e il falso, differenza che è possibile accertare nella maggior parte dei casi. Chi non accetta questa premessa ritiene generalmente che solo il confronto tra posizioni opposte possa suggerire una qualche particolare verità, valida solo per quel determinato momento e non in generale. Il gioco, peraltro molto semplice, sta tutto nel modo in cui si concepiscono verità e dialogo: se il primato non spetta alla verità, bisogna anzitutto offrire occasioni di dibattito, nelle quali non è tanto importante arrivare a una conclusione, quanto mettere tutti in grado di dire la loro.

Se la verità non è per definizione raggiungibile, ma lo è solo nel caso in cui si instauri un dialogo tra posizioni diverse, allora la strategia mediatica è coerente: data una certa opinione (che, come tutte le opinioni, è in parte vera e in parte falsa), va immediatamente rintracciata quella opposta, per costruire il dialogo. Se poi la verità non arriva, non occorre perdersi d’animo: le vendite o lo share sono comunque stati garantiti, e c’è sempre spazio per un nuovo dibattito (magari sul rapporto tra le vendite e la libertà di stampa). A partire da questa prospettiva, capire la posizione di chi crede nella verità richiede un “piccolo” sforzo: si tratta di lasciare la verità al primo posto e quindi di mettere al suo servizio il dialogo come strumento, non certo come valore. Più frequentemente, sembra prevalere il costume di dare una lettura parziale, magari sbrigativa, in funzione dell’oppositore che ha più probabilità di alzare le vendite, continuando il gioco. La difficoltà di comprensione sembra risiedere, quindi, nelle scelte compiute dagli interlocutori del Papa. Come dice il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Ma il Papa interpella specialmente i cattolici ad assumersi le loro responsabilità nel momento presente. A questo proposito, ci sembra opportuno sottolineare la sintonia con il recente cammino della Chiesa italiana.

Quando, a metà degli anni Novanta, la Chiesa in Italia propose il progetto culturale, la reazione più diffusa fu quella di interpretarlo come un surrogato dell’unità politica dei cattolici. In seguito, si è sviluppata una sorta di pigra neutralità, puntellata a volte dall’interrogativo retorico: ma che cos’è, o che cosa fa, il progetto culturale? La situazione odierna mostra invece il senso profondo di quella scelta: se l’annuncio evangelico deve essere credibile, se deve risultare comprensibile in un contesto culturale che lo ritiene impossibile (fede e ragione, infatti, appartengono a due reami distinti: alla fede spettano eventualmente le scelte etiche, dopo che la ragione ha definito che cosa è credibile e comprensibile), il terreno di confronto più urgente è quello culturale. Non c’è una dimensione politica “nascosta”, anche se ci sono delle palesi conseguenze politiche in senso lato: prendere sul serio l’annuncio evangelico comporta oggi testimoniare la speranza nella verità.

Da pochi giorni, inoltre, si è concluso a Verona il IV Convegno Ecclesiale Nazionale sul tema Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Proprio questo tema sollecita, nell’attuale contesto culturale, una testimonianza piena da parte del popolo di Dio: se ogni pretesa veritativa viene considerata incredibile, c’è il rischio che i destinatari dell’annuncio – compresi gli stessi cattolici – non si curino di stabilire se l’annuncio sia vero, perché tanto non può esserlo.

Nutrire speranza per il futuro non significa essere ingenuamente ottimisti, né tantomeno passivamente sicuri di un “successo” finale. Significa, più concretamente, essere disposti a rimboccarsi le maniche, a lavorare per la costruzione del futuro e per un dialogo interreligioso sincero: «[…] un dialogo» ha spiegato Benedetto XVI lo scorso 25 settembre a Castelgandolfo «fondato su una conoscenza reciproca sempre più autentica che, con gioia, riconosce i valori religiosi comuni e, con lealtà, prende atto e rispetta le differenze». E aggiungeva: «I nostri contemporanei attendono da noi un’eloquente testimonianza in grado di indicare a tutti il valore della dimensione religiosa dell’esistenza».

Nella testimonianza alla verità, i cattolici devono contribuire a illuminare il futuro dell’Italia e dell’Europa. E, nel servizio alla speranza, possono ridare slancio alla vita della loro polis.   

Lorenzo Ornaghi

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